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Il Mediterraneo dei Migranti

6. La crisi dell’Acquarius

La crisi dell’Aquarius (la nave di SOS Mediterranée e di Medici sen-za Frontiere alla quale, l’8 giugno 2018, il ministro degli Interni ita-liano, Matteo Salvini, ha negato l’accesso ai porti italiani) ha fatto sì che si smuovessero le acque stagnanti della politica europea. Gli svi-luppi successivi hanno, però, contraddetto le previsioni del governo italiano – ammesso che previsioni del genere siano state fatte – sulle possibilità di un cambiamento rapido e decisivo.

Il Consiglio Europeo del 28 – 29 giugno ha riconosciuto la necessi-tà di una politica unitaria, ha ammesso «che la gestione dei flussi mi-gratori costituisce “una sfida […] per l’Europa tutta» e ha promesso che l’Unione «resterà al fianco dell’Italia e degli altri Stati membri in prima linea»46. Tuttavia, a parte il trasferimento al Fondo Fiduciario dell’UE per l’Africa dei 500 milioni di euro a suo tempo promessi, sul piano pratico non ha deciso granché. Invece ha fatto passi avanti la soluzione del problema dei cosiddetti movimenti secondari, così come Francia e Germania avevano chiesto alla vigilia del Consiglio.

Un esito che costituisce un ulteriore aggravio per Paesi di primo ap-prodo47.

C’è stato – è vero – l’impegno ad attribuire a Frontex un mandato rafforzato con la conseguente attribuzione di maggiori risorse; però, di che cosa si tratti nessuno ancora lo sa. C’è, soprattutto, la proclama-ta intenzione di mettere in pratica Themis; il che significa che «coloro che vengono salvati, a norma del diritto internazionale, dovrebbero essere presi in carico sulla base di uno sforzo condiviso»: di qui il successivo trasferimento in centri sorvegliati istituiti negli Stati mem-bri dove verrebbe operata «la distinzione tra migranti irregolari, da rimpatriare, e persone bisognose di protezione internazionale, cui si applicherebbe il principio di solidarietà». Il Consiglio ha, però, preci-sato che tutti questi provvedimenti, «centri sorvegliati, ricollocazione e re-insediamento compresi, saranno attuati su base volontaria, lasciando impregiudicata la riforma di Dublino»48.

Apparentemente un passo indietro rispetto al voto a maggioranza con il quale nel settembre del 2015 il Consiglio europeo si era pro-nunciato a favore di un meccanismo obbligatorio di ricollocazione dei migranti. Se lo sia davvero è difficile dire dato che, da un lato, il piano

46  www.ismu.org – luglio 2018.

47  Sia Francia che Germania hanno chiesto che siano stipulati tra i Paesi membri dell’Unione «accordi bilaterali per facilitare il trasferimento nei Paesi di primo ingresso dei richiedenti asilo che si muovano nell’UE». Per la Francia tale trasferimento «deve avvenire il più presto possibile». Quanto alla Germania, il ministro dell’Interno «ha minacciato di respingere alla frontiera i richiedenti asilo che si siano già registrati in un altro Paese UE», www.agi.it – 21 giugno 2018.

48  Ibidem.

di ricollocamento del 2015 non è mai partito49 e, dall’altro, a seguito della decisione del governo di Roma di chiudere i porti italiani alle imbarcazioni delle ONG, il principio di redistribuzione su base vo-lontaria ha trovato una sua prima, macchinosa e non certo limpida, attuazione il 27 giugno 2018 in occasione del Caso Lifeline50; e poi, un mese dopo, a metà di luglio a seguito del salvataggio in mare e conseguente accordo di redistribuzione di 442 migranti raccolti da un pattugliatore di Frontex e da un’unità della Guardia Costiera italiana.

Che in questo modo sia iniziata una nuova stagione della politica migratoria dell’Unione europea è, però, più che dubbio. Obbligatorio o volontario che sia, il meccanismo della redistribuzione dei migran-ti resta un meccanismo di controversa, difficile, applicazione, come dimostra la grave crisi esplosa nelle relazioni tra l’Italia e i Vertici dell’UE, alla fine di agosto a seguito della decisione del governo di Roma di vietare lo sbarco nel porto di Catania dei 177 naufraghi eri-trei raccolti dal Pattugliatore Diciotti. Una crisi contrassegnata da velenose, reciproche, accuse, culminata con la minaccia del governo di Roma di non votare il prossimo bilancio dell’Unione cui ha fatto seguito il gelido, burocratico, diniego dell’Europa alla ragionevole ri-chiesta (avanzata dal ministro della Difesa italiano al vertice informa-le di Vienna del 30 agosto) di modificare il dispositivo del Programma Sophia (scadenza 31 dicembre 2018) che fa dei porti italiani gli unici punti di sbarco dei naufraghi raccolti nelle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo.

Quanto alla riduzione dei flussi dalla Libia, sembra che la deci-sione del governo italiano di chiudere i porti alle imbarcazioni delle ONG un qualche risultato lo abbia dato. «La cruda verità», scrivo-no i giornali di Tripoli, «è che la politica del nuovo goverscrivo-no italiascrivo-no ha cambiato la situazione sul campo. La quasi sparizione delle navi delle organizzazioni non governative, oltre alla nuova strategia dei respingimenti e dei porti chiusi voluta da Roma ha ridotto i flussi al lumicino»51. Ora che chiudere i porti sia per l’Italia la soluzione del problema degli sbarchi è l’ipotesi sulla quale l’attuale governo italia-no fonda la sua politica. Che grazie a un’iniziativa del genere, la con-clamata solidarietà europea, magari con una certa fatica, possa farsi

49  I 160 mila trasferimenti «previsti in due anni da Grecia e Italia (poi ridotti a 98.255)» nel settembre del 2017 erano già passati «a 27.695 (di cui solo 8.451 dall’Italia)». A quella data era ormai evidente che non si sarebbe andato «oltre quota 40 mila. E ciò malgrado il verdetto della Corte di Giustizia dell’UE del 6 settembre», che bocciando il ricorso di Ungheria e Slovacchia, aveva stabilito «che il piano UE risponde in modo efficace e rapido a una situazione di emergenza» , M. Bresolin, www.lastampa.it – 7 settembre 2017.

50  ONG tedesca dalla cui nave, dopo un’odissea di otto giorni, sono sbarcate a Malta 234 persone ripartite tra otto Paesi: «oltre a Malta, Italia, Francia, Irlanda, Portogallo, Belgio, Olan-da e Lussemburgo», www.ilfattoquotidiano.it – 27 giugno 2018.

51 L. Cremonesi, Corriere della Sera, 18 luglio 2018.

strada, è più che dubbio. Che tutto questo si traduca in un tragico costo umano, che sarà pagato dai disperati che stazionano in Libia in attesa di partire per l’Europa, è certo.

Quanto alla revisione del Sistema di Dublino è stata rimandata a data da destinarsi; e, quando sarà il momento, dovrà essere votata all’unanimità. Il Consiglio europeo del 29 giugno ha riconosciuto la necessità che la riforma, sia della Convenzione e che dei Regolamenti attuativi, tenga conto della necessità di contemperare «solidarietà» e

«responsabilità» e ha stabilito che una commissione ad hoc stenda una relazione che sarà presa in esame a ottobre. Un impegno piuttosto vago che probabilmente non porterà a niente, data la ferma opposi-zione dei Paesi del Fronte di Visegrad (e non solo) a qualsiasi cambia-mento del dispositivo attuale.

Quello che succederà nei prossimi mesi e anni è difficile prevedere.

I migranti sono il grande problema della nostra epoca. A Bruxelles e nelle altre capitali europee si continuerà a discutere sul come divider-si i compiti, le responsabilità e gli oneri finanziari delle politiche di contenimento e di accoglienza. Si continueranno a immaginare nuovi strumenti da adottare e nuovi percorsi da seguire per rimpatriare i migranti economici, che sono oltre l’80% di coloro che sbarcano in Eu-ropa: uomini, donne e bambini che nessuno vuole e dei quali si parla solo per dire che devono tornare da dove soni venuti. Si continuerà a discutere del grande Piano Marshall per l’Africa, il quale, anche nel caso in cui fosse finalmente adottato e disponesse delle risorse finanziarie necessarie, manifesterebbe i suoi effetti di qui a qualche decennio.

Intanto i migranti continueranno a intraprendere il loro difficile, ostinato, cammino della speranza. Sanno dei rischi che corrono ma, come tutti gli altri essere umani, hanno una vita sola e cercheranno con tutte le loro forze di cambiarla per averne una migliore.