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Il Mediterraneo dei Migranti

5. Un Piano Marshall per l’Africa?

Nel 2050 in Africa vi saranno 2 miliardi e mezzo di persone e l’Eu-ropa – anche un’Eul’Eu-ropa molto più aperta di quella di oggi – non potrà risolvere con l’accoglienza i suoi enormi problemi economici e sociali.

E, allora, che fare?

L’idea che l’Africa debba essere aiutata si è ormai fatta strada nei circoli dirigenti europei; così come è sempre più chiaro che deve trat-tarsi di un aiuto consistente. Uno dei primi a parlare della necessità di un “Piano Marshall” per l’Africa è stato Tony Blair al G8 del 2005. Da allora, l’idea si è fatta strada e compare in molte, autorevoli, dichiara-zioni pubbliche. Fra le ultime quella della Cancelliera tedesca Angela Merkel che ha sottolineato come all’Africa serva «un vero sviluppo, non solo un sostegno» e come l’Europa intera abbia, da questo punto di vista, una sua precisa, non eludibile, responsabilità32.

Fino a che punto è realizzabile un disegno del genere? Il Piano Marshall originario fu il risultato della volontà di uno Stato – gli Stati Uniti d’America – la cui decisione, rapida e solitaria, fu dettata dal-la necessità di aiutare l’Europa a ricostruire dal-la propria economia di-strutta dalla guerra. Consapevolezza, senso di urgenza e un interesse politico molto forte fecero sì che tra il 1947 e il 1951 gli Stati Uniti tra-sferissero in Europa 17 miliardi di dollari (un po’meno di 180 miliardi

la loro simpatia la Lega e per la sua politica anti-immigrazione.

32  S. Liburdi, www.iltempo.it – 24 febbraio 2018.

di oggi), in buona parte sotto forma di elargizioni a fondo perduto.

Le iniziative riconducibili al piano di aiuti dell’Europa per l’Africa, fanno pensare a qualcosa di molto diverso. Innanzitutto dal punto di vista del funzionamento dei meccanismi decisionali. Anche se è molto cresciuto negli ultimi anni, il senso di urgenza dettato dalla necessità di governare i flussi migratori provenienti dall’Africa non è neppure lontanamente paragonabile a quello esistente, sulle due sponde dell’Atlantico, agli esordi della Guerra Fredda, quando l’esi-stenza in Italia e in Francia di forti partiti comunisti, la fragilità del tessuto politico della Germania di Bonn e la minaccia (vera o pre-sunta) rappresentata dall’Unione Sovietica dettò i contenuti e i tempi dell’agenda politica degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. L’odier-no PiaL’odier-no Marshall per l’Africa, invece, deve fare i conti con i lunghi e tortuosi percorsi decisionali che fanno capo al Consiglio Europeo, inevitabilmente condizionati dalla dinamica degli interessi nazionali e dalle logiche funzionali delle istituzioni europee.

Gli esiti del Vertice della Valletta dei giorni 11–12 novembre 2015, convocato con lo scopo di lottare «contro le cause profonde della po-vertà e dell’immigrazione», sono significativi delle difficoltà che l’U-nione Europea incontra quando si tratta di passare dalle parole ai fat-ti. E, infatti, il Fondo Fiduciario d’Emergenza per l’Africa (1,8 miliardi di euro ricavati dal bilancio dell’UE e dal Fondo Europeo di Sviluppo e destinati a 28 Paesi africani nei prossimi cinque anni)33, confrontato con i 3 miliardi assicurati alla Turchia per risolvere il problema dei profughi siriani, è stato interpretato dalla maggior parte degli osser-vatori come il sintomo di una certa difficoltà ad allargare i cordoni della borsa34.

Successivamente, la Commissione «ha chiesto agli Stati Membri di contribuire con ulteriori finanziamenti». La risposta non è stata incoraggiante. L’Italia ha messo a disposizione dieci milioni di euro ma «molti Stati membri (tra i quali Germania, Francia e Spagna)», ne hanno messo sul piatto solo tre, ovvero il minimo indispensabile «per partecipare al Board del Trust Fund for Africa, dove vengono decisi, in accordo con i partner africani, i progetti da finanziare»35.

Infine, il 14 settembre 2016 la Commissione Europea ha lanciato

33  Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Egitto (Nord Africa) – Gibuti, Eritrea, Etiopia. Kenia, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Tanzania e Uganda (Corno d’Africa) – Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana. Guinea, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria e Senegal (regione del Sahel e area del lago Chad).

34  «Un insulto agli africani» il commento di Ajay BRAMDEO, Rappresentante Permanente dell’Unione Africana presso l’Unione Europea.

35  J. Massarenti, UE-Africa: La Valletta, un Summit dagli esiti incerti, www.vita.it – 10 novembre 2015. Da allora, la situazione è migliorata e il Fondo è passato da 1,8 a 2,7 miliardi di euro.

il Piano per gli Investimenti Esterni (PIE), un’iniziativa che fa parte della strategia a medio e lungo termine dell’Unione e che, tra i suoi obiettivi, comprende l’aumento delle risorse destinate all’immigra-zione nel bilancio dell’UE 2021–202736. Partito faticosamente con i consueti negoziati tra le tecno-strutture dell’Unione e quelle degli Stati membri, finalmente nel luglio del 2017 il PIE ha avuto l’appro-vazione del Parlamento Europeo. L’idea è quella di mettere in piedi

«un veicolo finanziario grazie al quale 3,3 miliardi di aiuti pubblici possano fare leva sul mercato finanziario per movimentarne 44» e, in questo modo, attrarre i capitali privati «laddove non andrebbero spontaneamente»37.

A tal fine, come principale strumento di attuazione del PIE, è stato creato l’EFSD, European Fund for Sustainable Development, che partendo da un contributo iniziale di 4,1 miliardi di euro, dovrebbe essere in grado di mobilitarne almeno dieci volte tanto. Possono contribuirvi gli Stati membri dell’UE, i Paesi EFTA (Islanda, Liechtenstein, Norve-gia e Svizzera) e altri Paesi partner. L’obiettivo è arrivare a 88 miliardi di euro entro il 2020. Se si considera che i Paesi africani destinatari degli aiuti coprono un’area molto più vasta dell’Europa filo-america-na di settant’anni fa e meno dotata di strutture e competenze econo-miche specifiche, non siamo ancora al Piano Marshall originario, ma è già qualcosa38.

In realtà, l’ostacolo principale alla realizzazione di un grande pia-no di sviluppo per l’Africa pia-non è costituito dall’insufficienza dei fondi a dalle difficoltà di reperirli. Il vero ostacolo è di natura politica ed è connesso alle relazioni tra i Paesi africani e l’Unione Europea o singoli Paesi dell’Unione. Nell’Europa dell’immediato dopoguerra, il lancio del Piano Marshall, influì in maniera decisiva sulla natura dei rap-porti che si vennero a stabilire tra gli Stati Uniti e i Paesi beneficiari dell’aiuto. Per l’erogazione dei Fondi, gli Stati Uniti posero come con-dizione che una parte fossero impiegati per comprare beni prodotti negli Stati Uniti. Due anni dopo, nel 1949, fu firmato il Patto Atlantico.

In questo modo prese forma l’egemonia economica e politica degli Stati Uniti sul Vecchio Continente; un’egemonia alla quale i Paesi eu-ropei si sottomisero volentieri. In Francia e in Italia, dove esistevano forti partiti comunisti, il Piano Marshall fu denunciato come simbolo e strumento dell’imperialismo americano e combattuto aspramente.

Ma per i partiti di governo e per le forze sociali che ad essi facevano

36  La proposta della Commissione è stata formalizzata a maggio del 2018. Prevede «un bilancio di più di 1.200 miliardi di euro» con un aumento di oltre 100 miliardi rispetto al bilancio 2014 – 2020. La spesa per l’immigrazione passa «da circa 13 miliardi ai 34 miliardi proposti [di cui] 11,2 miliardi sono destinati alla voce ‘migrazioni’ e 10,4 miliardi alla voce asilo» (E. Bonini, www.eunews.it – 2 maggio 2018).

37  M. Giro, www.avvenire.it – 8 agosto 2017.

38  C. Pontillo, 13 aprile 2018, www.iscos.eu/it – 13 aprile 2018.

riferimento, ossia per la maggioranza degli europei, l’egemonia ame-ricana fu considerata necessaria per l’efficacia del programma di aiuti e accettata di buon grado.

In nessuno dei ventotto paesi africani beneficiari dei progetti di sviluppo negoziati con Bruxelles o con le altre capitali europee, il cli-ma politico è paragonabile a quello imperante nell’Europa atlantica di allora. «Secondo un sondaggio realizzato dal centro di ricerche Afrobarometer in 36 Paesi africani», solo una ristretta minoranza degli intervistati ha dimostrato di essersi liberata di quel mix di umiliazio-ne, risentimento e rivalsa che costituisce una delle eredità del passato coloniale39. Il che ci fa capire fino a che punto possa essere complicato il tessuto delle relazioni tra Europa e Africa oggi.

Complessità che si manifesta nella cautela con la quale alcuni Pae-si africani (Egitto, Marocco, Nigeria) hanno aderito all’invito dell’U-nione Europea a partecipare al Summit della Valletta. Una cautela che rivela come sia «sostanzialmente diverso» in Europa e in Afri-ca il punto di vista sul signifiAfri-cato della collaborazione euro-afriAfri-cana.

L’Europa guarda ai migranti provenienti dall’Africa «come a una sor-ta di minaccia e, comunque, come a un costo sociale, con l’aggiunsor-ta di fattori legati al controllo delle frontiere esterne e alla sicurezza in-terna. Dunque perché aprire le porte?». L’Africa vede l’emigrazione come la componente necessaria di un processo di crescita destinato ad alleggerire le pressioni demografiche interne e a porre rimedio alla carenza di sviluppo economico. I migranti che vivono e lavorano in Europa «diventano una fonte utile di rimesse finanziarie. Quindi, perché sbarrare le porte?»40.

Che si tratti di un quadro fatto di luci e di ombre, è dimostrato dai

«progressi tangibili» registrati nel corso del 2016 dal partenariato sul-la migrazione «con cinque Paesi africani considerati prioritari: Etio-pia, Mali, Niger, Nigeria e Senegal»41. Ma i problemi restano. Secondo Ajay Bramdeo, Capo della Missione Permanente dell’Unione Africa-na a Bruxelles, «gli europei non possono ignorare in modo così palese l’agenda dello sviluppo per privilegiare la sicurezza». Il che chiama in causa «il principale soggetto di discordia: i rimpatri e le riammissioni nei paesi di transito e di origine dei migranti in situazione irregolare nell’Ue»42.

Un tema, quello dei rimpatri, cui si collega un altro problema cru-ciale: la distinzione tra rifugiati e migranti economici.

«Contrariamen-39  I. Einashe, South China Morning Post, Hong Kong. In: Internazionale, 15/25 giugno 2018, p. 60.

40  G. Borsa, www.agensir.it – 12 novembre 2015.

41  www.europa.eu – 13 giugno 2017.

42  J. Massarenti, www.vita.it – 10 novembre 2015.

te all’agenda politica portata avanti dall’Unione Europea», i governi dei Paesi africani tendono a proteggere «i migranti in difficoltà […]

indipendentemente dai motivi per cui sono emigrati». Per gli euro-pei, le cose non stanno così. I migranti economici vanno rimpatriati e i governi dei Paesi di origine devono «rispondere in tempi celeri alle domande di riammissione». Sul fronte opposto le resistenze a una richiesta del genere sono molto nette.

I governi africani chiedono chiarimenti sulle procedure di identifi-cazione […] dopo gli eritrei e i nigeriani, la terza “comunità” africana che approda nell’UE è costituita da coloro che strappano passaporti e carte d’identità prima di mettere i piedi sul suolo europeo. Prima di accettare un rimpatriato, un governo africano vuole essere sicuro che il migrante espulso dall’UE sia davvero un connazionale. Non solo. Come sottolinea […] Bramdeo «c’è bisogno di molta trasparenza e chiarezza sui criteri che verranno usati nei sistemi giuridici euro-pei per determinare chi è un migrante economico e chi rientra nella categoria dei rifugiati o dei richiedenti asilo». Per i migranti che ap-prodano in Europa senza documenti e in situazione irregolare – «noi vi chiediamo» dice ancora Bramdeo «processi che rispettino il diritto internazionale»43.

Ma le difficoltà non si fermano qui. Secondo Stephen Smith, autore di un libro recente che ha fatto molto discutere, il vero punto debole della politica degli aiuti non è costituito dagli ostacoli economici né da quelli politici. Il suo vero punto debole è di natura concettuale, teorica.

I Paesi europei che sovvenzionano i Paesi africani affinché, grazie all’aiuto raggiungano «la soglia della prosperità» e, in questo modo, inducano i loro connazionali a «restare a casa» – scrive Smith – non sanno che, così facendo, «si gettano la zappa sui piedi». Infatti, alme-no in un primo tempo, alme-non fanalme-no altro che «premiare» quelli dei loro abitanti che vogliono emigrare aiutandoli a procurarsi i mezzi «per partire e per installarsi altrove»44. É questo – scrive Smith – il grande paradosso del “co-sviluppo” così come lo intendono molti tra i go-vernanti in Europa: puntano a tenere «i poveri a casa loro mentre in realtà finanziano il loro sradicamento». Scrive ancora Smith: «i più poveri fra i poveri non hanno i mezzi per emigrare. Non ci pensa-no neppure». Ma, una volta raggiunta «la soglia della prosperità, si mettono in cammino». Il loro traguardo – il loro sogno – è «il paradiso europeo»45.

43  Ibidem.

44  «Tra i 1.500 e i 2.500 – ossia una o più volte il reddito annuo a seconda del Paese considerato tra quelli situati a Sud del Sahara», S.Smith, La ruée vers l’Europe, Roma, 2018, p.143.

45  Ibidem, pp. 147 – 149.