Se si intende la determinatezza nel senso tradizionale del termine, è evidente la crisi che essa indubbiamente attraversa a causa di una legislazione penale caotica e spesso di pessima qualità tecnica; è una crisi non certo empirica, ma fattuale, imputabile, in particolare, a due ordini di ragioni.
Per un verso, la straordinaria complessità delle moderne società occidentali, sotto il profilo sia degli sviluppi tecnologici sia del pluralismo ideologico, è causa di una legislazione minuta e instabile ovvero indecisa e contradditoria, comunque assai lontana dall’idea delle leggi “poche, chiare e stabili”105.
Per altro verso, però, va messo in conto anche un vistoso fenomeno di scadimento del provvedimento legislativo, dovuto a fattori politico-istituzionali. All’incessante attività di produzione normativa corrisponde spesso un intento politico meramente propagandistico, che si traduce pertanto in leggi prive di reale contenuto ordinante, di carattere contingente ed emotivamente condizionante, malamente redatte senza nessuna attenzione al profilo tecnico, sorrette dalla sola frenesia di poter esibire al più presto il provvedimento legislativo quale alibi di un impegno verso l’elettorato. Tale ambiguità, altrimenti, sovente è anche diretta conseguenza della tendenza compromissoria che caratterizza l’attuale attività legislativa: l’esigenza di bilanciare i vari interessi di cui sono portatrici le forze politico-sociali confliggenti si traduce in formulazioni penali ora eccessivamente generiche, ora incerte, che non di rado celano l’intento di scaricare sul potere giudiziario il compito di mediare tra opposte esigenze difficilmente compatibili in sede politica.
Passando ora al contenuto del principio di determinatezza, vanno prima fatte due premesse.
In primo luogo, la determinatezza della fattispecie non è una conseguenza necessaria dell’uso di materiale linguistico di un certo tipo piuttosto di un altro; nel senso che non esistono materiali linguistici, come gli elementi descrittivi e quelli quantitativi numerici, in grado di assicurare sempre e comunque la determinatezza.
In secondo luogo, i contenuti del principio de quo non possono che essere diversificati a seconda del tipo di norme in questione: non c’è dubbio infatti che il grado e i requisiti della
determinatezza sono ben diversi se si tratta di norme incriminatrici, o di parte generale o attinenti al sistema sanzionatorio.
Concentrando l’attenzione sulle norme incriminatrici, va osservato come la Corte Costituzionale, benchè abbia riconosciuto il rango costituzionale del principio in esame, allo stesso tempo ha dichiarato incostituzionali pochissime norme per violazione del principio di determinatezza. Lo stupore aumenta se si considera l’ormai dilagante tendenza ad una produzione legislativa affetta da tutti i peggiori difetti di tecnica redazionale.
Forse un tale self restreint può trovare una ragione in una caratteristica congenita del principio di determinatezza, ossia nel fatto che la sufficiente determinatezza di una norma è un giudizio che ha carattere quantitativo: detto altrimenti, tutte le norme hanno un certo margine di indeterminatezza, così come, al contrario, anche tutte le norme peggio formulate presentano un certo grado di determinatezza.
Tale aspetto allora può spiegare l’esitazione della Corte Costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità sulla base di un parametro che può condurre a risultati opinabili.
A ciò va aggiunto il fatto che questa opinabilità inerisce ad un criterio di controllo della legge che non attiene ai suoi contenuti, bensì alla sua forma espressiva. Anche il tentativo di rintracciare, nella rare sentenze di accoglimento, dei possibili criteri per valutare la sufficiente determinatezza delle fattispecie ha sempre incontrato delle difficoltà106.
Ad ogni modo può sinteticamente dirsi che, se in passato si è fatto riferimento al parametro dell’espressione linguistica in sé e per sé, più che ai suoi significati normativi a
106 Si può dire che i criteri adottati dalla Corte Costituzionale per verificare il rispetto del principio di determinatezza sono riconducibili a tre filoni. Innanzitutto viene in rilievo il criterio del significato linguistico. Si tratta di un parametro, raramente praticato dalla dottrina e elaborato in epoca risalente dalla Corte, che può avere qualche utilità se utilizzato in relazione ad espressioni del linguaggio comune (Corte cost., 2 giugno 1982, n. 156, in Giur. cost., 1989, I, p. 885, sul concetto di costruzione edilizia), ma si rivela totalmente inidoneo in caso di nozioni tecniche e specialistiche, la cui maggiore idoneità regolativa sta non già nell’adeguabilità alla multiforme realtà, bensì al rigore definitorio (ad esempio Corte Cost., 9 gennaio 1989, n. 11, in Giur. cost., 1989, I, p. 26, con nota di PAPA, La questione di costituzionalità relativa alla
disciplina delle armi giocattolo: il diritto vivente tra riserva di legge e determinatezza della fattispecie).
Secondariamente, la Corte di legittimità ha elaborato il criterio definibile del diritto vivente. Quando il diritto vivente sia consolidato in un’interpretazione costante e uniforme, la Consulta respinge l’eccezione di determinatezza sulla base dell’assunto per cui la norma avrebbe comunque trovato il suo contenuto precettivo; quando invece sussistono contrasti giurisprudenziali, l’eccezione è respinta perché le difficoltà interpretative, entro determinati limiti, sono fisiologiche. In conclusione col parametro del diritto vivente la Corte, da un lato, evita di spingersi nell’esame del testo legislativo, dall’altro, perviene ad un’ipervalutazione del ruolo della giurisprudenza, alla quale in definitiva vengono attribuiti dei compiti surrogatori rispetto all’obbligo legislativo di corretta formulazione della fattispecie.
Da ultimo la Corte Costituzionale ha accennato anche ad un criterio detto tipologico. Con maggior grado di esplicazione la misura e la natura della determinatezza costituzionalmente imposta è quella che consente alla fattispecie di esprimere un tipo criminoso, elastico quanto si vuole ma espressivo di un comune disvalore, indispensabile affinchè il processo interpretativo possa muoversi sulla base di contenuti predeterminati.
cui si perviene attraverso l’opera dell’esegesi, di recente ci si è concentrati sul piano dell’interpretazione.
Nella prima prospettiva, la determinatezza è apparsa mutuataria del significato comune delle parole utilizzate dal legislatore e come tale, dato che l’espressione del linguaggio comune ha sempre un suo significato, raramente è in grado di condurre all’accertamento dell’illegittimità della disposizione; senza contare che tale criterio, se può avere qualche utilità se utilizzato in relazione ad espressioni del linguaggio comune, si rivela totalmente inadeguato in caso di nozioni tecniche e specialistiche, la cui maggiore idoneità regolativa sta non già nell’adeguabilità alla multiforme realtà, bensì nel rigore definitorio.
Nella seconda prospettiva, invece, la determinatezza è venuta ad identificarsi con il concetto di interpretabilità della norma, ossia della sua attitudine a produrre un risultato. Imboccata questa via, si aprono due ulteriori possibilità. La prima è quella, assai nota e ricorrente, del diritto vivente: spesso, infatti, la Corte di legittimità rigetta la questione perché la disposizione, determinata o meno che sia sotto il profilo testuale, ha assunto un significato consolidato in giurisprudenza107. È evidente che tale posizione mette in ombra il principio di determinatezza che guarda verso il legislatore: invero, se tale principio è fatto salvo da un indirizzo giurisprudenziale consolidato, il suo fondamento e il suo ruolo non sono quelli di concentrare quanto più possibile nel potere legislativo la produzione della regola.
La seconda possibilità è che sia la stessa Corte a procedere ad una e vera e propria reinterpretazione della fattispecie sospetta di indeterminatezza, in modo da conferirle la sufficiente determinatezza108. Si può parlare in questi casi di interpretazione adeguatrice, ma deve, tuttavia, dirsi che non sempre si tratta di un impegno ermeneutico della Corte atto a conferire alla norma significati conformi a parametri costituzionali, bensì di un’operazione diretta a dimostrare al giudice a quo che la disposizione impugnata è suscettibile di una interpretazione, così da sottrarsi alla censura di indeterminatezza. E, a dire il vero, la differenza non è priva di rilevanza sotto il profilo dei poteri della Corte suprema: mentre nell’interpretazione c.d. adeguatrice essa immette nella norma quei valori costituzionali del cui significato essa è depositaria, nelle questioni di
107 Si veda, tra le più recenti, la sentenza 28 giugno 2002, n. 295, in tema di notizie c.d. riservate di cui all’art. 262 c.p.
108
Così, ad esempio, con l’ordinanza 14 febbraio 2001, n. 39, la Corte la ritenuto che l’art. 173 c.p.m.p. non contrasti con il principio di determinatezza perché “il reato non si sostanzia nella disobbedienza ad un ordine qualsiasi proveniente da un superiore gerarchico, in quanto solo la disobbedienza ad un ordine funzionale e strumentale alle esigenze del servizio o della disciplina, e comunque non eccedente i compiti di istituto, integra gli estremi del modello legale di cui all’art. 173 c.p.m.p.”.
indeterminatezza essa opera come un giudice ordinario quando fornisce alla disposizione un contenuto interpretativo che il giudice del rinvio non è stato capace di individuare. Da ciò si ricava una conclusione paradossale, ossia che diritto vivente e interpretazione adeguatrice, se sono certamente due strumenti idonei a concretizzare la determinatezza della fattispecie, rovesciano il tradizionale orientamento teleologico del principio in esame, finendo per esaltare il ruolo del giudice anziché contenerlo.
Effettivamente pare che la crisi della legalità raggiunga il suo apice proprio nel rapporto tra il potere legislativo e quello giudiziario. E, come si è visto, spesso è proprio la legge a creare le premesse per il protagonismo interpretativo del giudice.
Facendo leva sui valori sottesi alla legalità, come essa si incarna nei rapporti legge-giudici, il primo che sovviene è quello della democrazia, il quale però ha carattere eminentemente procedimentale, non contenutistico, con la conseguenza di non potersi fare da garante di per sé del buon contenuto delle leggi.
In secondo luogo, legge significa norma generale e astratta e dunque uguaglianza di trattamento. Senonchè la generalità e astrattezza della norma legislativa non può sottrarsi ad una plateale contraddizione: se, in quanto tale, garantisce l’eguaglianza, proprio quella stessa generalità e astrattezza della sua formulazione è all’origine dell’insopprimibile esigenza di interpretazione, dell’adeguamento al fatto concreto e alla fine del potere di concretizzazione normativa del giudice, con tutti i noti rischi di disparità di trattamento. Il terzo valore associato alla legalità è quello della libertà individuale di autodeterminazione, di effettuare consapevolmente le proprie scelte di azione potendo prevederne le conseguenze giuridiche. Al riguardo va detto che, con la sentenza della Corte Costituzionale sull’ignorantia legis, lo strumento di reale di garanzia di tale valore si è spostato dalla legalità alla colpevolezza. Ciò naturalmente non significa che sul versante della legalità non permanga l’obbligo costituzionale di formulazione determinata della norma penale, ma che, concorrendo i due strumenti alla tutela dell’autodeterminazione dell’individuo, la stessa Corte ha preso atto dell’obiettiva difficoltà di realizzare oggi l’ideale delle leggi penali poche, chiare e dunque conoscibili al cittadino.
Un quarto valore è quello della giustezza della decisione giudiziale, ossia della sua corrispondenza alle attese delle parti in causa, della comunità giuridica e della società in genere.
Oggi la molteplicità degli interessi rilevanti e il pluralismo dei valori rendono difficile l’opera di disciplinamento giuridico della realtà. Da un lato, proprio quella complessità assiologia impone la determinazione di minimi inderogabili e netti di positivizzazione delle norme di
comportamento che trovano in campo penale e nell’area di tutela degli interessi fondamentali il loro terreno di elezione. Dall’altro lato, non è meno forte la necessità della norma di soddisfare in un dato momento la maggior parte degli interessi concorrenti e di trovarne l’equilibrio accettabile così da evitare reazioni da parte dei consociati.
Ebbene, mentre la prima esigenza implica ovviamente una certezza legale che si traduce in un’alta prevedibilità della decisione, la seconda esigenza si muove in tutt’altra direzione. Una prevedibilità assoluta sarebbe in effetti la negazione della capacità dell’ordinamento di integrare nel giusto equilibrio gli interessi in gioco attraverso la decisione degli organi giurisdizionali. Naturalmente ciò non significa dichiarare la fine della valore della certezza del diritto, ma piuttosto valorizzarne il profilo ulteriore della prevedibilità della decisione, cioè quello della chiarezza degli obiettivi finali e dei principi direttivi assunti dall’ordinamento. Sul piano ermeneutico, inoltre, vuol dire esplicitare i reali argomenti valutativi alla base della decisione, con evidente vantaggio per eventuali controlli esterni della decisione.
D’altra parte, il rischio che la conseguente esaltazione del momento applicativo della norma degeneri in una incontrollata invasione di campo degli organi giudiziari trova un almeno parziale antidoto nelle garanzie ordinamentali e procedimentali, rispettivamente, della assoluta imparzialità, autonomia e indipendenza dell’organo decidente e del principio del contradditorio. Non sembra infatti realistico pensare ad un diritto penale che viva separato dal restante contesto, senza cioè essere coinvolto nella necessità di rendere partecipe in qualche misura anche l’organo giudicante del compito di integrare gli interessi in gioco in una decisione accettabile alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamentali. Tutta una serie di clausole generali immancabilmente aperte, come la colpa, le posizioni di garanzia, la stessa causalità, ma anche tutti gli spazi interpretativi lasciati alle singole norme incriminatrici che oggi si offrono come campo di gioco di interessi confliggenti ma tutti rilevanti, impongono al giudice la ricerca di un loro equilibrio accettabile più che consentire una decisione assolutamente prevedibile. Qual è quel giudice, quel difensore o pubblico ministero che, ad esempio in materia di colpa medica, non sia chiamato a concorrere nella ricerca di un equilibrio accettabile tra le esigenze di tutela della salute dei pazienti e le insufficienze strutturali del sistema sanitario? E l’esemplificazione potrebbe continuare a lungo con riferimento a tutti quei settori in cui il diritto penale entra nella complessità sociale e tecnologica: la responsabilità da prodotto e nelle organizzazioni complesse, i limiti del consenso scriminante, l’uso criminoso dei mezzi telematici e via dicendo. In qualche modo la complessità sociale e tecnologica delle moderne società
sottopone la legalità e dunque il rapporto giudice-legge ad una sollecitazione tale da riaprire il divorzio tra voluntas e ratio della norma. E anche il campo penale non si può sottrarre alle conseguenze di tale fenomeno, senza però dimenticare i quattro valori sottesi alla legalità che debbono continuare a coesistere insieme ispirando il rapporto tra legge e giudice.