2.4 I singoli fattori endogeni alla base della crisi della legalità
2.4.4 Il potere penale dei sindaci
Un argomento a cavallo tra le fonti ammesse nel diritto penale e l’odierna esigenza di sicurezza che pervade la nostra società concerne l’ammissibilità delle ordinanze sindacali in materia penale.
Infatti, come si è detto, gli attacchi alla legalità giungono dall’alto, con la sottoposizione della potestà legislativa dello Stato ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e internazionale (117, co. 1 Cost.), dal basso, con l’accrescimento delle materie oggetto di potestà legislativa regionale, concorrente ed esclusiva (art. 117, co. 3 e 4 Cost.) e con il
173 Il riferimento va ad esempio alla materia edilizia e a plausibili differenze in ordine ai limiti di condonabilità di ambiti volumetrici: ciò che determina effetti sull’area di operatività delle norme statali estintive del reato. In argomento, RUGA RIVA, Il condono edilizio dopo la sentenza della Corte Costituzionale: più potere alle
Regioni in materia penale?, cit., p. 1104. Di pensiero opposto, invece, VINCIGUERRA, La tutela penale dei precetti regionali cinquant’anni dopo, in VASSALLI (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale,
Napoli, 2006, p. 125.
174 Questa sarebbe la tesi avanzata da BRICOLA, Principio di legalità, cit., p. 273. 175 VASSALLI, Sulla potestà normativa penale delle regioni, cit., p. 164.
proliferare degli atti normativi dell’esecutivo, ma anche dal più basso ancora, con l’affermazione del principio di sussidiarietà e con la conseguente attribuzione ai Comuni e agli enti sub statali delle funzioni amministrative (art. 118 Cost.).
In tale contesto di più ampio declino della sovranità nazionale, non stupisce che ai sindaci si chiedano anche soluzione efficienti in tema di repressione della criminalità diffusa, a prescindere dalle competenze e dagli strumenti giuridici che l’ordinamento attribuisce loro176.
In tale contesto si collocano, ad esempio, le ordinanze sindacali, emesse per vietare di indossare il burqua in pubblico177, richiamando la disciplina penale che punisce il mascheramento con caschi e altri mezzi, e quella per vietare il mestiere girovago di lavavetri, pena l’applicazione dell’art. 650 c.p178.
Senza addentrarci sulla legittimità dell’utilizzo di tale strumento normativo, quello che va rilevato è che le ordinanze, le quali miravano a produrre effetti penali, se sul piano giuridico hanno fallito, in quanto revocate o poste nel nulla, su quello fattuale hanno raggiunto il loro scopo, avendo comportato il venir meno del fenomeno combattuto. I cittadini chiedono sicurezza contro persone reputate diverse e i Sindaci, per rispondere a tale sollecitazione, reclamo poteri amministrativi e, in mancanza o ritenendoli insufficienti, pretendono talvolta di evocare sanzioni penali. Ciò che conta è lo scopo, non i mezzi. Risulta chiaro che il fine è la rassicurazione dei cittadini, la tutela della sicurezza urbana, in una versione per così dire soggettiva, emotiva, di rassicurazione della pubblica incolumità da ansie e timori179. Infatti, l’uso della specificazione urbana, caratterizza il nuovo concetto di sicurezza sotto più profili: evidenzia l’affermarsi di una sicurezza che non è soltanto garanzia di un’assenza di minaccia, ma anche attività positiva di rafforzamento della percezione pubblica della sicurezza; evoca il luogo dove più è sentito il problema della criminalità; chiama in causa gli enti locali quali soggetti coinvolti nell’elaborazione di politiche sicuritarie180.
176 RUGA RIVA, Il lavavetri, la donna col burqua e il sindaco: prove atecniche di diritto penale municipale, in
Riv. it. dir. pen. e proc., 2008, p. 134.
177
Art. 5 l. 22 maggio 1975, n. 122 che prevede una contravvenzione punibile con l’ammenda da Lire 300.000 a 800.000.
178 Ordinanze del Comune di Firenze n. 2007/774 e n. 2007/883, su cui GIUNTA, Lavavetri e legalità, in Dir.
imm. e citt., 2007, p. 31; ANDRONIO, L’ordinanza extra ordinem del sindaco di Firenze sui lavavetri: divieto di un’attività già vietata?, in www.federalismi.it, 2007.
179 La letteratura in argomento è copiosa: DE VERO, voce Ordine pubblico (delitti contro), in Dig. dir. pen., Torino, 1995, IX, p. 73, nonché la voce sicurezza pubblica nel diritto penale, in Dig. disc. pen., Torino, 1997, vol. XIII, p. 285; FIORE, voce Ordine pubblico (dir. pen.), in Enc. dir., Milano, 1980, XXX, p. 1084; MOCCIA, voce Ordine pubblico, in Enc. Giur. Trecc., Roma, 1990, XII, p. 1.
180 VIGNA, Sicurezza urbana: una strategia integrata per un obiettivo complesso, in Dir. pen. proc., 2008, p. 137.
Così, nel calderone della sicurezza urbana rischiano di cadere indiscriminatamente il lavavetri aggressivo che minaccia gli automobilisti o danneggia i veicoli e quello innocuo, l’inerme donna musulmana al pari della terrorista islamica mascherata. Beninteso, vero è che fenomeni quali quelli presi in considerazione dalle ordinanze creino allarmi sociali, talvolta meritevoli di risposta da parte dell’ordinamento, tuttavia sarebbe bene che si utilizzassero gli strumenti amministrativi già presenti, senza dimenticare che per le ipotesi più gravi esistono già figure di reato a tutela di beni giuridici più afferrabili della sicurezza urbana.
In un’ottica di più ampio respiro, è significativo che i Sindaci, il cui peso politico si è accresciuto grazie al principio di sussidiarietà, all’attribuzione di funzioni amministrative in capo ai Comuni ex art. 118 Cost. e alla loro investitura popolare diretta, tentino di intervenire nelle politiche di incriminazione.
L’autoattribuzione di potestà penale, diretta o indiretta, è del resto tipica di ogni potere che voglia legittimarsi come davvero tale agli occhi dei cittadini181. È accaduto alle Regioni a statuto speciale nei primi anni del loro funzionamento182 e di recente alla Commissione europea183.
Il richiamo simbolico alla pena da parte dei Sindaci, per quanto illegittimo, rappresenta l’ennesimo segno del rimodularsi della sovranità, cui si accompagna il pluralismo delle fonti che vorrebbero incidere sugli ambiti di criminalizzazione.
In una Repubblica costituita, ai sensi dell’art. 114 Cost., da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato e nella quale la potestà legislativa è esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, la spinta politica e simbolica verso la minaccia di pena rischia di moltiplicarsi, in una rincorsa all’organo più duro nella tutela di interessi e valori.
L’attribuzione della potestà legislativa penale allo Stato sembra faticare ad arginare tali pressioni.
Nel dibattito sulla potestà penale delle Regioni ci si interrogava sull’opportunità di assistere i precetti regionali con una norma penale in bianco oppure sulla base dell’art. 650 c.p. e, come ampiamente visto, mentre la prima ipotesi apparve subito in contrasto con l’art. 25,
181 SOTIS, Il diritto senza codice, Milano, 2007, p. 162. 182
Per i necessari riferimenti alle prime sentenze della Corte Costituzionale si veda VINCIGUERRA, Le leggi
penali regionali, cit., p. 8.
183 Corte di giustizia, 13 settembre 2003, C-176/03, in Racc. 2005, I-7879, che ha riconosciuto alla Commissione, competenza penale, ossia di inserire nelle direttive l’espresso obbligo per gli Stati di incriminare determinate condotte, in quel canno in materia ambientale, in danno del Consiglio.
co. 2, Cost.184, la seconda venne respinta per molte ragioni, tra cui l’inidoneità ad abbracciare inosservanze di leggi e regolamenti, tanto meno regionali, l’imprecisione del precetto e la scarsa elasticità della sanzione.
Tali obiezioni allora non possono che valere a fortiori per le ordinanze comunali contenenti precetti generali e astratti nonché pretesamente innovativi dell’ordinamento giuridico, posto che esse, a differenza delle leggi regionali, non promanano da un ente dotato di potestà legislativa, ma al massimo regolamentare.
In definitiva i Sindaci non hanno strumenti formali per modificare la politica repressiva imperniata sulle norme penali nazionali, anche se nell’opinione pubblica eccitata dai mass media è passato il messaggio opposto.
Ad ogni modo è bene che, anche in politica criminale, la ragione prevalga sul sentimento di fastidio e sulle paure, almeno fintanto che si attribuisca al diritto penale lo scopo di reprimere e prevenire offese a beni giuridici, quand’anche in via anticipata, e non quello di placare timori in larga parte infondati o comunque fronteggiabili con strumenti meno invasivi. A proposito di ciò, sembra che stia accadendo davvero il contrario o almeno è accaduto così con il recente pacchetto sicurezza (l. 15 luglio 2009, n. 94). Il relativo comma 40 dell’art. 3, infatti, autorizza i sindaci ad avvalersi della collaborazione di associazione tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale. Per quanto non si tratti, com’è evidente, di cedere l’uso delle armi ai privati, si tratta in ogni caso di un’esplicita ammissione che lo Stato e il diritto penale non sono in grado di garantire un sufficiente controllo del territorio mediante le forze di cui dispone.