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La partecipazione creativa del potere giudiziario

Nel documento Indice Introduzione (pagine 77-90)

2.4 I singoli fattori endogeni alla base della crisi della legalità

2.4.5 La partecipazione creativa del potere giudiziario

Come anticipato, le prerogative tradizionali del Parlamento quale organo depositario delle scelte di politica criminale possono subire un’ulteriore erosione dall’interno ad opera sia del giudice costituzionale che della giurisdizione ordinaria185.

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BRICOLA, Principio di legalità e potestà normativa penale delle Regioni, in Sc. pos., 1963, p. 630. 185 Per l’interprete della legge penale il principio di legalità viene in rilievo come vincolo di certezza ed, inoltre, in ordinamenti di democrazia liberale, come espressione di un potere democratico. La certezza del diritto è un’esigenza che da sempre attraversa la vita del diritto anche perché nella possibilità di un’interpretazione obiettiva della legge sono in gioco la separazione dei poteri e la legittimazione delle decisioni giudiziarie. Considerazioni critiche sul ruolo politico della Corte si rinvengono in BELFIORE,

Giudice delle leggi e diritto penale, Milano, 2005; INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 2000, p. 288. Di segno

diverso i rilievi di PULITANO’, Sull’interpretazione e gli interpreti della legge penale, in AA.VV., Scritti in

Sotto il primo aspetto, ci si riferisce non solo al tema classico delle sentenze manipolative186, quanto ad altre ipotesi di interventismo giudiziario sulle scelte del legislatore come, ad esempio, la crescente pervasività del giudizio di ragionevolezza187, tanto nella descrizione della fattispecie che della sanzione, che all’ammissibilità di un sindacato in malam partem.

Quanto al secondo profilo, si può osservare come la ricorrenza nel nostro ordinamento sia di innumerevoli contrasti giurisprudenziali sia di molteplici ipotesi di creazioni giudiziali di reati determini la sconfitta del principio della riserva di legge nel confronto con il diritto vivente188.

Si tratta, questa, di una deriva ancor più grave di quella costituita dall’ingresso in ambito penale di fonti non legislative: invero, mentre l’attività normativa dell’esecutivo può, almeno teoricamente, essere ingessata da norme costituzionali e controlli, la creatività dei giudici appare insopprimibile189.

Per vero, i due aspetti descritti paiono suscettibili di lettura in chiave unitaria, se solo si tiene conto della distinzione tra i modelli interpretativi penali in legalista, costituzionale e giurisdizionale190. La risalente crisi del primo, caratterizzato dalla riduzione del giudice a mera bocca della legge, dalla funzionalizzazione del principio di determinatezza e del divieto di analogia alla massima restrizione della discrezionalità ermeneutica per salvaguardare il principio democratico, ha lasciato spazio all’affermazione del secondo, di pari passo con la valorizzazione del dialogo giudice ordinario–Corte Costituzionale, come momenti ineludibili del percorso per l’individuazione della regula iuris, conforme a Costituzione e applicabile al caso concreto191. Anche questo modello, fondato su un’interazione dei tre attori, quali legislatore, giudice e Suprema Corte, rispettosa dei rispettivi ruoli previsti in Costituzione, manifesta però da qualche tempo segni di crisi, con scivolamenti verso il modello giurisdizionale.

186 D’AMICO, Sulla costituzionalità delle decisioni manipolative in materia penale, in Giur. it., 1990, IV, c. 254; PEDRAZZI, Inefficaci le sentenze manipolative in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, p. 659. 187 BELFIORE, Giudice delle leggi e diritto penale, Milano, 2005, p. 270; MANES, Attualità e prospettive del

giudizio di ragionevolezza in materia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 739; DI GIOVINE, Il sindacato di ragionevolezza della Corte Costituzionale in un caso facile, cit., p. 100, a margine della celebre sentenza

n. 394/2006 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima, perché irragionevole, una norma penale di favore, che puniva cioè con sanzioni più lievi talune specifiche condotte di falso in materia elettorale, determinando così la riespansione della disciplina generale più severa.

188 CADOPPI, Il valore del precedente nel diritto penale, Torino, 2007. 189 GRANDI, Riserva di legge e legalità europea, cit., p. 42.

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Ciò è quanto affermato da BARTOLI al seminario L’interpretazione delle norme tra legalità e Costituzione, tenutosi all’Università di Ferrara il 30 aprile 2010.

191 Mentre nel modello legalista i giudizio sulla determinatezza della fattispecie viene effettuato con riferimento all’espressione linguistica considerata in astratto, nel modello costituzionalista il giudizio ermeneutico si incentra proprio sulla regula iuris che scaturisce dall’interpretazione.

Tale rischio risulta attualmente favorito dalle conseguenze estreme cui la stessa Corte sembra aver portato la teoria dell’interpretazione costituzionalmente orientata o adeguatrice da parte del giudice ordinario, con il risultato di indurlo ad approdi ermeneutici dirompenti rispetto ai confini letterali della disposizione come formulata dal legislatore penale. Infatti, proprio in una recente decisione192, la Suprema Corte ha ritenuto la questione sollevata inammissibile perché il giudice remittente avrebbe omesso di operare un previo tentativo di interpretazione adeguatrice; essa ha così colto l’occasione per dettare all’uopo delle regole per i giudici.

Innanzitutto, per la Corte di legittimità, è possibile trarre da una o più sentenze della Corte stessa un principio di ordine costituzionale come se esso fosse ricavabile direttamente dalla Costituzione, dotato dunque della stessa valenza dei principi desumibili dalla Carta fondamentale193. Conseguentemente, i giudici sono chiamati a ricavare essi stessi questi principi dalle sentenze della Corte Costituzionale, senza che sia la Corte a formularli o a ribadirli, e, una volta enucleati, essi devono manipolare i testi legislativi in modo da renderli

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Corte Costituzionale, sent. 208/2009, relativa all’art. 219 c.p., disposizione che, in combinato disposto con altre norme del codice, non avrebbe consentito, secondo il giudice a quo, l’applicazione al condannato di una misura di sicurezza diversa da quella custodiale. Nel dettaglio, l’art. 219 c.p. stabilisce che il condannato, per delitto non colposo, ad una pena diminuita per infermità psichica, è ricoverato in una casa di cura e custodia per un tempo non inferiore ad un anno, quando la pena stabilita dalle legge non è inferiore a cinque anni di reclusione e, ex comma 2, se si tratta di un altro reato, per il quale la legge stabilisce la pena detentiva, il ricovero in una casa di cura e custodia è ordinato per un tempo non inferiore a sei mesi; tuttavia il giudice, secondo il terzo comma, può sostituire alla misura del ricovero quella della libertà vigilata. Orbene, il giudice a quo rilevava come, per costante giurisprudenza, il calcolo della “pena stabilita dalla legge” ai fini delle determinazioni di cui all’art. 219 c.p. dovesse essere effettuata sulla base delle regole previste in tema di prescrizione dall’art. 157 c.p. ora, l’art. 6 l. n. 251/05 ha modificato l’art. 157 c.p. nel senso di escludere dal computo le diminuzioni operanti per effetto delle circostanze attenuanti, riverberando effetti anche sui criteri di calcolo validi per l’art. 219 c.p. Nel caso concreto da cui la questione ha preso le mosse, pur se il condannato, giudicato responsabile del delitto di cui all’art. 609 quater c.p., aveva ottenuto l’applicazione di diverse attenuanti, il combinato disposto delle disposizioni e delle tesi ermeneutiche richiamate imponeva di tenere in considerazione il solo minimo edittale della pena base comminata da tale delitto (5 anni) anche ai fini dell’art. 219 c.p., precludendo così l’applicabilità del relativo comma 3 e rendendo irrogabile, ai sensi del comma 1, la sola misura custodiale. Tutto ciò pur se, anteriormente alla riforma dell’art. 157 c.p., nei casi analoghi era lasciata al giudice l’alternativa tra misura custodiale e libertà vigilata: soluzione considerata illogica dal ricorrente specie ove la presenza di più attenuanti avesse costituito indice di modesta pericolosità sociale, come tale arginabile con una misura di sicurezza meno restrittiva. Ampiamente sull’argomento, RESCIGNO, Dal preteso principio secondo cui spetta ai giudici

ricavare principi dalle sentenze della Corte e manipolare essi stessi direttamente le disposizioni di legge per renderle conformi a tali principi, in Giur. Cost., 2009, p. 2412.

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Il riferimento, nel caso concreto sopra descritto, è a due pronunce precedenti (sentenze n. 253/2008 e 367/2004) in cui la Corte aveva dichiarato illegittime altrettante disposizioni che imponevano al giudice l’adozione di una misura di sicurezza detentiva, pur quando una misura meno drastica fosse capace al contempo di soddisfare le esigenze di cura del soggetto interessato e di controllo della sua pericolosità sociale. Sulla base di esse, la Corte nella decisione n. 208/2009 enuncia l’esistenza di un principio generale di rilievo costituzionale, in materia di misure di sicurezza, volto ad escludere ogni automatismo che imponga al giudice di adottare una misura detentiva. Ma le premesse di tale ragionamento non hanno condotto all’esito di una pronuncia di accoglimento omogenea alla precedenti, ossia una sentenza manipolativa che dichiarasse l’art. 219 c.p. illegittimo nella parte in cui non lasciava al giudice alcuna alternativa tra misura custodiale e non, bensì, come detto, ad una sentenza di inammissibilità, motivata dal fatto che il giudice remittente avesse omesso di interpretare l’art. 219 c.p. alla luce del suddetto principio costituzionale.

conformi al principio194. È evidente il rischio insito in tale procedimento di esegesi, posto che il potere manipolativo dovrebbe essere riservato al massimo alla Consulta, le cui sentenze di accoglimento rappresentano il solo rimedio apprestato dall’ordinamento in caso di insuperabile difformità del testo di legge al disposto costituzionale.

La portata di questo sviluppo estremo dell’interpretazione adeguatrice è facilmente intuibile195: l’estensione ai giudici dei comuni compiti di giustizia costituzionale, mediante l’introduzione di una sorta di controllo diffuso di legittimità, porta gli stessi non solo ad erodere le competenze proprie della Corte Costituzionale, ma soprattutto ad operare pericolose invasioni nell’ambito legislativo, laddove siano chiamati a forzare il testo al di là di ogni confine interpretativo.

Ora, le delineate intrusioni dei giudici ordinari e costituzionali sui contenuti delle norme penali rappresentano forme di erosione della riserva di legge attinenti alla fase genetica delle disposizioni stesse, determinando malfunzionamenti interni ai meccanismi di produzione e offuscando la funzione garantista del controllo democratico196.

Passando più propriamente alla Corte Costituzionale, va ricordato come, in ossequio al principio della riserva di legge, essa non può creare norme incriminatrici, né ampliare quelle esistenti a casi non prescritti, né incidere in peius sulla pena o comunque sulla punibilità; in realtà essa attualmente, per i poteri demolitori che le conferisce la Costituzione e per quelli creativi che è venuta via via acquisendo, pare porsi in naturale concorrenza con il legislatore. Basti, infatti, osservare come anche il più ordinario dei suoi responsi, ossia l’ablazione di una norma incostituzionale, privi l’ordinamento di un

194 E non c’è dubbio che nel caso della sentenza 208/2009 si tratti di potere manipolativo posto che l’art. 219 c.p. impone inequivocabilmente l’adozione di una misura detentiva, senza alternativa alcuna.

195 Per completezza va detto che un ragionamento analogo a quello contenuto nella sentenza 208/2009 la Corte l’aveva fatto anche nella più nota decisione n. 322/2007 in merito all’art. 609 sexies c.p. La formulazione testuale di tale norma esclude perentoriamente l’invocabilità dell’errore sull’età dell’offeso nei reati sessuali commessi in danno di minori infraquattordicenni. Anche in tal caso ci si è trovati dinanzi ad un insanabile contrasto col principio di colpevolezza come sancito nella fondamentale sentenza n. 264/1988, che la Corte ha risolto, sorprendentemente, con una pronuncia di inammissibilità. Parimenti a quanto avvenuto nella decisione n. 208/2009, qui la Corte ha rimproverato il giudice di non avere esperito il tentativo di interpretazione adeguatrice, facendo, in particolare, riferimento ad un principio elaborato in una precedente pronuncia della Corte avente ad oggetto il diverso tema dell’error iuris. Con l’effetto di pervenire ad una vera e propria rottura dalla lettera dell’art. 609 sexies c.p. il cui testo letterale perentoriamente non lascia adito a soluzioni esegetiche diverse da quella che esclude ogni rilevanza all’errore sull’età, sia esso scusabile e dunque incolpevole o non lo sia; rottura, anche in tal caso, eventualmente consentita solo alla Suprema Corte con una sentenza manipolativa. A commento di tale decisione, RISICATO, L’errore sull’età

tra error facti ed error iuris: una decisione timida o storica della Corte Costituzionale, in Dir. pen. e proc.,

2007, p. 1461; PITTARO, La Consulta introduce nei reati sessuali l’ignoranza inevitabile dell’età del minore, in Fam. dir., 2007, p. 988.

196 IADICCIO, La riserva di legge nelle dinamiche di trasformazione dell’ordinamento interno e comunitario, cit., p. 54.

elemento elaborato dal legislatore197. Essendo però essa sfornita di quella legittimazione democratica di cui è investito il legislatore nazionale, la sua attività può porsi in contrasto con la riserva di legge penale198. Non è dunque casuale l’atteggiamento di prudenza e self restreint mantenuto in questi anni dalla Corte di legittimità199, che ha ripetutamente ribadito l’impossibilità di adottare pronunce che possano creare nuove norme in malam partem200. Di più, nelle numerose dichiarazioni di inammissibilità del ricorso, in nome della tutela di beni giuridici importanti, taluni hanno letto una ferma difesa del principio di legalità da parte della Suprema Corte. Dietro la soluzione formalmente processuale dell’inammissibilità, trasparirebbe la priorità del principio di legalità quale affermazione della competenza esclusiva del legislatore in ordine alle scelte di criminalizzazione201.

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In materia di diritto penale, il sindacato della Corte di legittimità è sempre andato nella classica direzione liberale di controllo delle disposizioni impugnate alla stregua di principi di garanzia e in particolare di quello di uguaglianza. Numericamente sono prevalse le sentenze di rigetto, ma vi sono state anche sentenze di accoglimento che hanno espunto dal sistema figure di reato superate o marginali, ma anche delitti di particolare valore simbolico, come il plagio, il concubinato, l’adulterio e il vilipendio alla religione.

198 Per una recente eccezione, DE VERO, Corso di diritto penale, Torino, 2004, p. 253. 199

A circa cinquant’anni dall’entrata in funzione della Corte Costituzionale, nel quadro che emerge il posto occupato dal diritto penale non occupa uno spazio cospicuo. Nei suoi confronti la Corte fin dall’inizio è stata animata, salvo che per disposizioni palesemente incostituzionali, da un senso di rispetto.Dietro la soluzione formalmente processuale di inammissibilità traspare per l’appunto la priorità del principio di legalità, quale affermazione della competenza esclusiva del legislatore in ordine alle scelte di criminalizzazione.. “Solo il legislatore può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire quantità e qualità delle relative pene edittali”. In questi termini si è espressa la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 447/1998 sulla riforma dell’abuso d’ufficio e analogamente nella recente decisione n. 161/2004 in tema di false comunicazioni sociali. In argomento anche VASSALLI, Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, in Riv.

it. dir. proc. pen., 2008, p. 24 e PULITANO’, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. proc. pen.,

1983, p. 484.

200 Per tale atteggiamento di self restreint, alla giurisprudenza della Corte sono stati mossi rilievi critici di segno diverso: quanto ai contenuti, di procedere in modo cauto, forse troppo, con esiti di blanda cosmesi di un sistema bisognoso di ben altre riforme; quanto al metodo, di aver utilizzato criteri poco formalizzati e molto valutativi, ad alto tasso di politicità come il bilanciamento degli interessi e il giudizio di ragionevolezza. Sull’argomento si vedano le osservazioni di PULITANO’, Appunti su democrazia penale, scienza giuridica,

poteri del giudice, in AA.VV., Riserva di legge e democrazia penale: il ruolo della scienza penale, cit., p. 136

e, sempre dello stesso Autore, Sull’interpretazione e gli interpreti della legge penale, in DOLCINI-PALIERO,

Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, vol. I, p. 671.

Bisogna però anche dire che, se argomenti valutativi sono stati usati per riequilibrare situazioni che nessuno avrebbe più giudicato equilibrate, le questioni di legittimità su questioni calde sono state accolte sulla base di criteri forti. Emblematica in tal senso la sentenza sul vilipendio della religione, dichiarato incostituzionale alla stregua del principio di laicità dello Stato, combinato al principio di uguaglianza, non nella sua versione allargata del controllo di ragionevolezza, ma nel nucleo duro di divieto di discriminazioni (sentenza n. 508 del 2000 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 402 c.p.).

201 Così Corte Cost., n. 447/1998 sulla riforma dell’abuso d’ufficio: “solo il legislatore può, nel rispetto dei principi della Costituzione, individuare i beni da tutelare mediante la sanzione penale e le condotte, lesive di tali beni, da assoggettare a pena, nonché stabilire qualità e quantità delle relative pena”. Tale linea è stata riaffermata nella recente sentenza n. 161/2004 in tema di false comunicazioni sociali, unitamente alla riaffermazione della sindacabilità delle norme di favore, sulla condivisibile premessa della distinzione fra norme di favore ed elementi di selezione dei fatti meritevoli di tutela che il legislatore ritenga di introdurre in sede di descrizione della fattispecie astratta, nell’esercizio di scelte discrezionali primarie, di sua esclusiva competenza”. L’unica decisione rivoluzionaria in materia penale resterebbe quella adottata con la sentenza n. 364/1988 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile della legge. Essa è stata

Se ciò è vero, occorre comunque riconoscere che, pur nell’ambito delle pronunce produttive di effetti in bonam partem, la Corte, rimediando alla fissità degli interventi demolitori assegnatile dalla Costituzione, ha escogitato negli anni decisioni di altro genere, che hanno implicato risultati non puramente ablativi della disposizione ma modificativi della realtà normativa.

Il riferimento va alle sentenze additive o riduttive: togliendo o aggiungendo una parte del testo, una parola, una frase ovvero dichiarando illegittima una norma “nella parte in cui prevede” o “non prevede” qualcosa, la Corte la riporta in linea con la Costituzione.

Sarebbe facile, come fa notare un celebre Autore202, sostenere che la riduzione del testo normativo non pone problemi in quanto consistente in un semplice minus rispetto alla totale ablazione, mentre li pone l’addizione, perché l’aggiunta di termini prima assenti è opera originale della Consulta. In entrambi i casi, in verità, al di là delle singole parole, se si guarda al significato ricavabile dalla loro connessione, si evince come entrambe le sentenze siano a loro modo creative, nel senso che la norma risultante dalla manipolazione203 del testo, che resta nell’ordinamento fino ad un successivo intervento del legislatore, è diversa dalla precedente.

Innumerevoli in tal senso sono state le decisioni che hanno ridotto l’ambito applicativo della fattispecie, quindi in bonam partem, ma attraverso l’aggiunta di un ulteriore elemento essenziale del reato; per non parlare di quelle che hanno rimodulato la pena, non certamente inventandosi ex novo la cornice edittale, bensì mutuandola da una fattispecie

rivoluzionaria nel senso che ha per la prima volta riconosciuto il principio di colpevolezza come principio costituzionale fondamentale e nonché qualificato la responsabilità penale personale ex art. 27 Cost. come responsabilità per fatto proprio colpevole; ad ogni modo qualche prodromo di cambiamento di indirizzo era presente, seppur non dichiarato in modo esplicito, anche in diverse sentenze interpretative di rigetto precedenti (tra le quali la sentenza n. 259/1976 in tema di confisca e la n. 42/1965 riguardante l’art. 116 c.p.).

202 ROMANO, Complessità delle fonti e sistema penale. Leggi regionali, ordinamento comunitario, Corte

Costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 552.

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Per alcuni le sentenze manipolative non sembrano invadere il campo del legislatore: la riscrittura parziale di una legge, la cui unica plausibile alternativa sarebbe una dichiarazione di illegittimità totale, coinvolgente anche elementi non viziati da illegittimità, pare la soluzione che più di ogni altra riduce l’impatto della sentenza sul tessuto legislativo. All’opposto, un consistente filone dottrinale riteniene le sentenze manipolative, anche in bonam partem, non compatibili col principio di legalità. Ciò può essere sostenuto in singoli casi, in cui la manipolazione operata dalla Corte ha conservato spezzoni di vecchie incriminazioni, trapiantandole in un diverso contesto (è quanto accaduto, ad esempio) in alcune sentenze in materia di sciopero, su cui PULITANO’, Sciopero e categorie penalistiche, in Riv. giur. Lav., 1982, p. 321). A tali tesi, comunque, si oppone che, ul piano formale, pPiù che un’invasione del campo legislativo, le sentenze manipolative in bonam partem (di restrizione dell’area dell’illecito o di mitigazione delle sanzioni) possono essere tendenzialmente valutate come una linea di conservazione di soluzioni legislative del passato, non del tutto ritenute obsolete ovvero come correzione, fondata sul principio di uguaglianza, di imperfezioni

Nel documento Indice Introduzione (pagine 77-90)