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4 L’IMPRESA CHE PIANIFICA

4.6 Social Media Plan

4.6.3 La fase operativa: azione ed engagement

La terza e ultima fase del social media plan prevede la messa a punto e la realizzazione pratica delle tattiche necessarie al dialogo con i pubblici sui SM.

1. Anzitutto sarà opportuno conoscere a fondo i “codici” delle varie piattaforme social. Facebook, ad esempio, consente la condivisione di contenuti diversi per un pubblico potenzialmente infinito di persone, quindi l’uso di codici linguistici vari, più o meno formali. Viceversa, Instagram, che gioca molto sulle capacità espressive delle foto, necessita di frasi molto brevi e incisive, tendenzialmente di tono informale.

2. Strettamente connessa alla scelta dei codici è la definizione di una “netiquette” e del galateo sui social. Si tratta di un insieme di regole di comportamento che riflette il posizionamento dell’azienda (istituzionale o informale) e disciplina le azioni e gli interventi degli utenti. Parallelamente, tutte le persone dell’azienda responsabili della creazione di contenuti sui SM dovranno attenersi a un “galateo”.

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Una vecchia regola ancora utile per la buona educazione online è basata sull’acronimo “T.H.I.N.K.”: prima di scrivere o socializzare bisognerebbe pensare (True) “è vero?”; (Helpful) “è utile al mio interlocutore?”; (Inspiring) “dà uno spunto in una conversazione?”; (Necessary) “è necessario?”; (Kind) “è gentile?”.

Fonte: https://www.corriere.it/tecnologia/provati-per-voi/cards/nuovo-galateo-digitale-mail-

social-8-consigli-la-buona-educazione/oltre-netiquette_principale.shtml.

Più che una ricetta perfetta per la comunicazione online l’acronimo sembrerebbe ricalcare le norme di base di ogni comunicazione che voglia essere effettivamente efficace. Il vero valore aggiunto di uno scambio sui SM è dato dalla capacità di adeguare toni, modi, e forme linguistiche agli strumenti utilizzati.

Quando usiamo i social tutto diventa sicuramente più fluido e c’è davvero poco di codificato per quanto riguarda la buona educazione. Volgarità e discorsi offensivi trapelano con facilità: da un lato bisogna sempre rispettare tutti e non scrivere la prima cosa che viene in mente, dall’altro è apprezzata una certa tolleranza in un ambiente dove sfoghi di scarsa lucidità possono capitare a tutti. Per quanto concerne la “normale amministrazione” della nostra vita aziendale sui social, è meglio non esagerare con i post, non pubblicare foto coperte da copyright né materiale personale o, ovviamente, volgarità. Valgono ancora, inoltre, le norme più note di evitare di scrivere in maiuscolo (equivale a urlare), l’eccesso di punteggiatura, refusi e abbreviazioni.

3. La terza fase del momento tattico-operativo prevede la definizione del cosiddetto “marketing funnel” (“imbuto”, in inglese). È una delle regole di base più importanti del marketing, cioè il processo di conversione del contatto in cliente, che dalla conoscenza del brand/prodotto/servizio

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“viaggia” verso l’acquisto. La forma a imbuto rovesciato dello schema è esemplificativa della naturale restrizione dai visitatori iniziali agli acquirenti finali: solo una parte di quei visitatori diventeranno clienti effettivi quando giungono alla meta, l’atto d’acquisto. È uno strumento prezioso per chi pianifica e realizza un social media plan dal momento che consentirà sempre di visualizzare questo percorso in ogni momento della pianificazione.

Fonte: https://blog.hootsuite.com/how-to-build-social-media-sales-funnel/.

Il momento decisivo del funnel è senz’altro l’ultimo, che ricorda molto il quarto momento del drangofly effect, “take action”. La creazione e l’ottimizzazione di una call-to-action permette di determinare e massimizzare l’azione del consumatore. Che si tratti di acquistare un prodotto/servizio, diventare fan di una pagina, partecipare a un argomento l’utente coinvolto, di cui l’azienda ha attirato l’attenzione, compie una precisa azione mettendo in moto il processo di conversione. In questo momento si compie anche il terzo momento del dragonfly effect, l’engagement: è il cuore della relazione comunicativa, cementifica la fedeltà del legame e l’autorevolezza del brand. L’engagement misura il successo del messaggio condiviso, frutto non di un numero spropositato di fan, ma della qualità e del grado di interesse nell’interazione con i post. Perché si attivi il coinvolgimento i (brevi) messaggi devono contenere contenuti non autoreferenziali, che parlino dei e con i clienti/fan; foto coerenti, video e link ad articoli o a blog funzionanti e significativi; pubblicazioni fatte in giorni e orari prestabiliti. È un percorso fatto di innumerevoli prove e tentativi, altamente personalizzabile al tipo di pubblico e agli scopi della comunicazione.

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Può essere utile creare un calendario editoriale che indichi di volta in volta i contenuti da utilizzare, quanto e come, sempre all’insegna di un’interazione che valorizzi la semplicità, l’originalità, il problem solving, l’informalità, il divertimento, l’ascolto, l’empatia.

Fonte: https://kikaweb.com/in-evidenza/il-calendario-editoriale-

2018/attachment/kikaweb_calendar2018/.

Il calendario, oltre che conferire rigore e organizzazione al piano, consente di garantire ai propri fan/follower contenuti con cadenza fissa e appuntamenti ricorrenti. Esistono anche strumenti professionali (CoTweet, Seesmic, Hootsuite) che permettono la gestione di più piattaforme contemporaneamente da un unico pannello di controllo e di monitorare le menzioni al fine di rispondere tempestivamente e gestire il lavoro.

L’engagement è in ogni caso il prodotto di un’interazione, anche solo accennata o stimolata (da premi, contest) o ritualizzata (in una parola chiave, frasi da completare). L’effetto sorpresa afferra nella misura in cui crea un terreno creativo potenziale nel quale chiunque passi di lì trovi l’interesse di fermarsi e

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partecipare. In altre parole, le tattiche di engagement devono lasciare aperti gli spazi di appropriazione211,

zone franche con un alto valore identitario e un forte potenziale trasformativo (paragrafo 3.3). “Se viene meno la pratica dell’immaginazione si annulla lo spazio simbolico all’interno soltanto del quale gli oggetti acquisiscono senso per il soggetto e divengono capaci di mobilitarne il desiderio”212.

Tale prospettiva sembrerebbe scontrarsi con la pianificazione razionale fin qui esposta e la “sistematizzazione dell’incanto”, in atto soprattutto quando questo funziona e genera profitti ragguardevoli.

La sfida allora è dunque cercare di mantenerlo, l’incanto, nonostante l’interlocutore sia un consumatore saturo e disilluso. È anacronistico replicare sui SM sia il meccanismo reiterato di appagamento – illusorio – dei desideri di consumo, sia quello più divertito del gioco insensato e “neo-futuristico” postmoderno. Entrambi funzionavano sul terreno comune della “trappola” della felicità che risiede in un messaggio patinato, preconfezionato e unidirezionale, dove questa era e doveva essere la meta indiscussa di un messaggio “anestetizzante” e “antidolorifico”.

Qui ci riferiamo alla proposta di contenuti simbolici, “risorse di trascendenza”213 che siano materiale grezzo

per i destinatari e facciano costruire loro personali percorsi di senso a partire dal loro presente quotidiano, fatto parimenti di luci e di ombre. La promessa che genera engagement non è e non può più essere la felicità, ma la coerenza delle proprie azioni, anche quelle di consumo, con i propri valori.