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PROPOSTE METODOLOGICHE

CAPITOLO QUARTO

4.2 La metodologia della ricerca: il metodo idiografico

Il metodo impiegato è quello ideografico e l’analisi narrativa è stata condotta su osservazioni empiriche e su un’ampio corpus di dati audio relativi alle dinamiche di gruppo. Il lavoro di ricerca è stato condotto in ambito clinico-formativo, presso la scuola di specializzazione in psicoterapia Scupsis di Roma, con una metodologia qualitativa. Di seguito viene descritta la matrice storico-epistemologica che ha spinto l’autore a servirsi proprio di questa metodologia in una ricerca di questo tipo di ricerca.

Nel corso dello sviluppo storico della psicologia, le direzioni di ricerca sono state e sono tuttora essenzialmente due contrapposte e complementari: una metodologia osservativa e fenomenologica (idiografica) e una sperimentale (nomotetica); l’esigenza di oggettività e quantificazione si è da sempre misurata con l’ineliminabile componente soggettiva e storica dell’oggetto di studio della psicologia.

Nella sua formulazione originaria la distinzione tra metodo idiografico e metodo nomotetico fu introdotta nel 1894 ad opera del filoso W. Windelband per differenziare le scienze storiche1 o idiografiche dalle scienze naturali o nomotetiche. In campo psicologico, conformemente a questa distinzione, si parla di studio nomotetico - orientate alla definizione di leggi generali - e di studio idiografico - orientato a descrivere gli eventi nella loro distinzione e determinazione unica e irripetibile (Galimberti, 2006).

Il binomio idiografico/nomotetico rimanda inevitabilmente alla distinzione tra metodo sperimentale e metodo clinico2 (Battacchi, 1987). Possiamo così schematicamente descriverli:

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“Le scienze della natura furono definite come “scienze nomotetiche”, del generale, cioè capaci di scoprire leggi che regolano l’andamento di vasti ambiti di fenomeni. Le scienze umane furono definite come “scienze idiografiche”, del particolare, cioè più interessate alla conoscenza del caso singolo piuttosto che alla scoperta di leggi generali. Questa diversità indusse pure a distinguere tra “scienze della natura”, definite come “scienze esplicative, capaci cioè di spiegare oggettivamente i fenomeni identificando le loro cause, e “scienze umane”, definite come “scienze comprensive”, cioè come modalità di conoscenza fondate su intuizioni soggettive, non riconducibili a catene causali oggettive” (Mecacci, 2001, p. 58).

2 La stessa polarità che ha cercato di chiarire Battacchi tra metodo sperimentale e il metodo

clinico, la ritroviamo in Bruner quando propone due modi di pensare della mente umana: il pensiero paradigmatico, che procede per categorie classificatorie e per dimostrazioni; il pensiero narrativo, di natura idiografica e interpretativa (Bruner, 1998;

1) Metodo sperimentale: la psicologia è vista come scienza naturale in cui sono fondamentali i concetti di rigore, oggettività, esattezza, controllabilità e ripetibilità; approccio quantitativo di misurazione; neutralizzazione del rapporto tra osservatore e osservato (la soggettività è vista come elemento di disturbo); assunto antropologico: “uomo-macchina” (neutralizzazione degli aspetti soggettivi in una prospettiva a-contestuale, si privilegia il contesto di laboratorio); carattere nomotetico (cioè spiegazione causale, riferimento a leggi o a forme di regolarità generale, alto valore previsionale).

2) Metodo clinico: psicologia come scienza umana; approccio qualitativo3; coinvolgimento e insieme distanziamento dell’osservatore nella relazione con l’osservato (la soggettività è insieme oggetto e fonte di conoscenza);

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“La prospettiva di ricerca qualitativa pone un orientamento idiografico. […] L’interesse del ricercatore volge primariamente alla comprensione di quello che, della realtà sociale, rappresenta una manifestazione unica, irripetibile o poco conosciuta. Tecnicamente, tale approccio si configura per il ricorso a procedure scarsamente formalizzate di rilevazione delle informazioni (il cui trattamento non è suscettibile di elaborazioni di tipo statistico) su casi numericamente esigui, assunti come tipici; l’obiettivo è quello di accedere alla profondità dei significati che i soggetti attribuiscono alle questioni oggetto d’indagine”. Tra le principali tecniche troviamo, l’intervista ( diversi tipi di intervista sulla base di tre dimensioni fondamentali: la strutturazione, la direttività e la standardizzazione dello schema di interrogazione; ad es. l’intervista biografica a livelli di direttività e standardizzazione ridotti al minimo), l’osservazione (focalizza l’attenzione del ricercatore su un insieme circoscritto di fatti, di oggetti, di pratiche di interazione, di comportamenti, osservandoli nel loro farsi, nella loro processualità al fine di conoscerli o implementare la conoscenza). “Le principali caratteristiche dei metodi qualitativi si possono così riassumere nel fatto di fondersi su di una comprensione fenomenologica dell’azione sociale, dal punto di vista dell’attore mediante un’osservazione o un’interazione di tipo dialogico tra ricercatore e soggetto- oggetto di ricerca: in quanto tali, privilegiano la soggettività in un’ottica olistica e sono orientati alla scoperta, all’esplorazione utilizzando un approccio di tipo induttivo (dal particolare al generale) che tende a soddisfare soprattutto la validità scientifica soprattutto con strumenti dinamici i cui risultati sono però difficilmente generalizzabili” (Giarelli, Venneri, 2009, pp 137-140).

assunto antropologico: uomo costruttore di significato del se e del mondo e comunicatore; carattere idiografico: comprensione storica-clinica, doppia interpretazione, modelli narrativi –spiegazioni miste o quasi causali-, basso valore previsionale (spiegazione retrospettiva).

La psicologia clinica rappresenta una delle principali branche teorico-pratiche della psicologia “i cui obiettivi sono la spiegazione, la comprensione, l’interpretazione e la riorganizzazione dei processi mentali disfunzionali o patologici, individuali e interpersonali, unitamente ai loro correlati comportamentali e psicobiologici. La psicologia clinica è identificabile con le metodiche psicologiche volte alla consulenza, diagnosi, terapia o comunque di intervento sulla struttura e organizzazione psicologica individuale e di gruppo, nei suoi aspetti problematici, di sofferenza e di disadattamento e nei suoi riflessi interpersonali, sociali e psicosomatici. La psicologia clinica è altresì finalizzata agli interventi atti a promuovere le condizioni di benessere socio-psico-biologico e i relativi comportamenti, anche preventivi, nelle diverse situazioni cliniche e ambientali” (Grasso, 2006, n.1). Il metodo clinico può avvalersi di diversi strumenti4 come l'osservazione, il colloquio, la somministrazione di test proiettivi e reattivi psicometrici

4 La stessa Ricerca-Intervento (action-research), uno dei modelli prevalenti nell’intervento e

nella ricerca psico-sociale, può rientrare in un certo senso tra le applicazioni dell'approccio clinico, in quanto prevede una sostanziale circolarità tra aspetti di definizione e aspetti di verifica, tra diagnosi e intervento in un rapporto individualizzato con la committenza e con l'utenza che viene aggiustato progressivamente nel corso della

all'interno di un setting relazionale strutturato e flessibile allo stesso tempo.

Di Blasi e Lo Verso (2006) affermano che la psicologia clinica è in primo luogo metodo psicologico-clinico in cui il concetto di relazione assume un ruolo fondamentale e la caratterizza dagli altri. Gli aspetti significativi del metodo possono essere così riassunti: la stretta interrelazione individuo- contesto, in cui l'oggetto d'analisi (l’individuo) diventa incomprensibile senza considerare la rete relazionale ed ambientale nel quale è inserito; la centralità della relazione tra clinico e consultante e le loro soggettività; l'importanza di un setting adeguato, co-costruito, che dia la possibilità di attribuire un senso alla relazione; il cambiamento visto sia come "cura" e come sviluppo dell'individuo verso modalità simbolico- rappresentazionali, e quindi comportamentali-relazionali, che possano essere più funzionali al suo contesto di vita (Albasi et al., 2007; Grasso, Cordella, Pennella; 2003, 2004).

La psicologia clinica si caratterizza così, oltre che per i suoi possibili ambiti di applicazione, anche per l'assunzione di un particolare vertice esplorativo e di una specifica metodologia conoscitiva d'intervento. In particolare, essa può essere connotata come scienza idiografica, quindi volta allo studio di ogni singolo caso in cui l’unicità dell’individuo diventa l’elemento centrale per la conoscenza, l’intervento e la ricerca (Lis, Zennaro, 1997).

In conclusione, “nel metodo clinico, colui che valuta, organizza ed elabora le informazioni disponibili nella propria mente utilizzando la procedura idiografica: lo psicologo mira a dare una valutazione prognostica in base alle conoscenze della

personalità dell’individuo e dei fattori situazionali intervenienti. Ciò non significa che nel metodo idiografico le predizioni si basino su stime intuitive o meramente speculative: esse sono fondate su principi logici induttivi e su osservazioni empiriche” (Gullotta 2011, p. 115).

Come già menzionato prima, il binomio idiografico- nomotetico risulta di grande rilievo nell’indagine scientifica e nel dibattito epistemologico sulla scienza.

Ripetiamo che per metodo idiografico s’intende lo studio intensivo e sistematico delle caratteristiche di una specifica realtà rispetto a tutte le altre, cioè lo studio di un fenomeno particolare che si tenta di descrivere nella sua irripetibile singolarità. Nomotetico quel metodo di studio finalizzato a stabilire leggi generali per le relazioni tra i fenomeni e mira allo sviluppo di conoscenze normative, generalizzabili, estendibili, al fine della costruzione di modelli interpretativi ed euristiche generali.

Lo studio scientifico dei fenomeni clinici è quindi caratterizzato dal binomio individualità-generalità e da quello spiegazione-comprensione5 (Harrè et al., 1986). Quest’ultimo binomio si materializza con la scelta tra i criteri che fondano la ricerca quantitativa e qualitativa: i due procedimenti hanno non solo procedure differenti (esperimento in laboratorio per il primo, l’analisi storico-clinica volto alla raccolta dei fenomeni relativi a singoli individui nel contesto naturale per il secondo), ma anche logiche differenti (principio di causazione e logica induttivo-

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“I fenomeni indagati dalle scienze naturali possono essere spiegati, cioè ricondotti al legame necessario “causa-effetto” – (Solo) Se p. allora q-; i fenomeni indagati dalle scienze storico-culturali possono essere compresi, cioè riconosciuti nella trama di motivi (credenze, intenzioni, ecc.) che li ha resi possibili” (Mininni, 2003, p. 70).

deduttiva nella ricerca quantitativa, principio di interpretazione e logica abduttiva nella ricerca qualitativa).

Salvatore si chiede se sia possibile o meno ipotizzare il carattere universale del funzionamento delle dimensioni psicologiche: se questa possibilità (il carattere universale della conoscenza) si accetta come data allora le dimensioni psicologiche dovranno essere studiate in termini astorici ed a- contestuali; dall’altra parte però il carattere della contingenza rimarca l’intrinsecità dei processi psicologici, non solo nei loro prodotti e manifestazioni, ma anche nel modo con cui si organizzano. “Allora tali processi non possono essere studiati in maniera astratta, ma soltanto localmente, entro ed in ragione delle circostanza in cui si dispiegano. Il che porta a rifiutare l’idea di conoscenza psicologica intesa come repertorio di leggi a valenza universale, e a dirigersi verso l’elaborazione di modelli interpretativi e/o formali (Molenaar & Valsiner, 2005; Salvatore, Tebaidi & Potì, 2006), di ordine metodologico, in grado di orientare lo studio idiografico dei fenomeni psicologici ed al contempo di rendere trasferibile – piuttosto che generalizzabile – la conoscenza locale così prodotta” (Salvatore, 2006, n 2-3).

Mininni (2003, p.70) sostiene che “in una versione attenuata di tale opposizione, queste due logiche corrispondono alla diversità dei compiti cui lo studioso deve far fronte”. Anche Lis e Zennaro (1997) sostengono questa tesi affermando che è più producente accogliere una posizione che includa sia la centralità dell’individuo, sia al tempo stesso una formulazione di leggi che governano il funzionamento psichico in generale e il comportamento in particolare.

La dialettica tra unicità e generalità è stata affrontata da Salvatore e collaboratori che rileggendo criticamente la classica opposizione nomotetico-idiografico, sostengono che i due termini sono tra di loro complementari. “Data la loro natura dinamica (intesa come dipendenza temporale) e contestuale, gli oggetti psicologici sono singolari, nel senso che la relazione tra il loro modo di funzionare e le occorrenze fenomeniche nei termini delle quali tale modo si esprime, è mediata dalla contingenza delle condizioni di campo. Conseguentemente, la psicologia scientifica non può che essere idiografica, nel senso che non può che prendere in considerazione fenomeni unici e irreversibili. Allo stesso tempo, tuttavia, gli obiettivi di qualsiasi disciplina scientifica, dunque anche della psicologia, sono necessariamente nomotetici, volti cioè a costruire conoscenze generali, che trascendano l’ambito fenomenico specifico entro cui sono elaborate” (Salvatore et al., 2010, p. 252).

Harrè e Secord (1972) propongono un modello antropomorfico dell’uomo che sia in grado di rendere conto della maggiore complessità dei processi umani. La caratteristica dell’uomo infatti è quella di essere un soggetto agente ma anche una persona che osserva, progetta, critica, ripensa alla sua storia (Potì, 2007). Per questo si sottolinea l’importanza di studiare il comportamento umano dal punto di vista degli stessi attori. Il resoconto6, quindi, viene concepito come strumento che consente

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Duranti afferma che: “Il linguaggio, quindi, non serve solo per descrivere il mondo, ma anche per cambiarlo […] quando raccontiamo una storia, un aneddoto, o perfino una barzelletta, oltre a trasmettere delle informazioni sugli eventi, forniamo anche una prospettiva, suggeriamo interpretazioni” (1992, p. 16).

di conoscere il comportamento dell’uomo, l’agire e l’interagire delle persone.

Questo ci riporta inevitabilmente al metodo storico-clinico (Battacchi 1987).

All’interno del metodo storico-clinico le informazioni vengono raccolte secondo una particolare modalità: si basa cioè sulla relazione e sulla comprensione interpersonale.

Al centro dell’osservazione clinica si pone l’esperienza stessa del soggetto, l’interpretazione che lui dà di essa, del suo agire, delle sue motivazioni e dei possibili cambiamenti che possono scaturire (uno stesso evento esterno, per una persona può apparire irrilevante, per un’altra può apparire come determinante e può avere conseguenze sul piano dell’azione).

“La finalità del metodo storico-clinico non si esaurisce nella semplice narrazione, nella ricostruzione dei mutamenti nelle condizioni interne ed esterne al soggetto a cui corrispondono cambiamenti sul piano delle intenzioni e del comportamento.

Esso mira a rinvenire le regole che sovraintendono al passaggio da una fase all’altra del processo epistemico e intenzionale che dirige la condotta soggettiva nel corso del tempo. Tali regole sono però di tipo diverso dalle leggi universali e necessarie o statistiche, tipiche del modello nomologico- deduttivo e il modello induttivo-statistico. La regolarità cui si fa riferimento rinvia infatti ad una causalità non di tipo generale, ma di tipo singolare, ossia applicabile a casi individuali” (Castiglioni, 2001, p.29).

Per risolvere il problema, all’interno della psicologia, su quale sia un modello logico di generalizzazione coerente con la natura idiografica del suo oggetto di studio Salvatore & Valsiner (2009, 2010) hanno proposto l'abduzione7 come forma della conoscenza psicologica fondamentale in quanto ricerca il potenziamento della teoria attraverso l’accomodamento della stessa, alimentato dal confronto con la variabilità locale dei singoli casi.

L’abduzione è stata concettualizzata per la prima volta da Peirce e consiste nello studiare i fatti e nel progettare una teoria in grado di spiegarli, è inoltre uno dei processi logici che sta alla base del paradigma indiziario (Ginzburg, 1979). Esso consiste nell’attivazione di un processo inferenziale, ossia ricostruttivo ed è un modello di interpretazione degli eventi che effettua un’interpretazione storica di un fatto a partire da segni significativi. Secondo Ginzburg la causa di un evento si può inferire dagli effetti che ha prodotto e che sono osservabili.