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CAPITOLO TERZO

3.2 La narrazione in psicoterapia

La letteratura sulle dinamiche di gruppo risulta piuttosto ampia ed articolata. Dal primo ventennio del novecento ad oggi, gli studi hanno approfondito la definizione degli obiettivi, delineato accuratamente il processo e scandito gli stati emozionali e fantasmatici che caratterizzano i processi dinamici di gruppo.

D’altro canto, il tema della narrazione è stato analizzato da diverse prospettive, che, di volta in volta, hanno posto l’accento su differenti aspetti del processo terapeutico.

In alcuni casi, l’attenzione è stata rivolta alle “narrazioni del terapeuta” ovvero alle storie che i terapeuti sviluppano sui problemi dei pazienti e su come pensano che possano essere risolti. In altri casi, l’interesse è stato rivolto alla “conversazione terapeutica”, intesa come cooperazione narrativa tra il terapeuta e il soggetto, all’interno di uno scambio dialogico in cui si produce spazio per ciò che non è stato ancora detto. In altri studi, infine, l’oggetto è stato la narrazione come processo ricorsivo che definisce e modifica la realtà contestuale.

Importanti autori della psicoanalisi, dell’approccio sistemico-relazionale e del costruzionismo sociale si sono interessati della narrazione e delle sue implicazioni terapeutiche.

Agli inizi degli anni ‘80 gli psicoanalisti americani, Roy Schafer e Donald Spence hanno attribuito alla narrazione un ruolo preminente nella comprensione del processo terapeutico.

Schafer (1976) individua nella narrazione analitica “l’antidoto nei confronti del “meta-linguaggio” delle pulsioni e della struttura psichica, linguaggio che, secondo Schafer, può consentire all’analista di trascurare il particolare resoconto dell’individuo sofferente e creativo” (Fitzpatrick Hanly, 1996, p.449).

Gli studi di Spence si collocano nel filone psicanalitico che si allontana dal ‘realismo ingenuo’ che fa coincidere l’interpretazione dello psicoanalista con una ricostruzione fedele del passato del paziente. Egli supera il modello che definisce il paziente come cronista fedele e l’analista come ascoltatore neutro ed oggettivo. Spence, invece, individua nel racconto del paziente due verità: una narrativa ed una storica.

“Verità narrativa può essere definita il criterio che usiamo per decidere se e quando una certa esperienza è stata colta e fermata con nostra soddisfazione; essa dipende dalla continuità e compiutezza e dalla misura in cui l’abbinamento dei vari pezzi assume un taglio estetico. Verità narrativa è quello che abbiamo in mente quando diciamo che questo o quello è un buon racconto, che una data spiegazione è convincente, che una sola soluzione di un enigma deve essere vera. Una volta che una certa costruzione ha acquisito verità narrativa, diventa non meno vera

di qualunque altro tipo di verità; questa nuova realtà diventa parte significante della cura psicoanalitica” (Spence, 1982, p.

28).

La verità narrativa per Spence è la ricostruzione che l’analista fa del racconto del paziente, esaminando sia i “dati” della sua storia, sia il filo rosso che connette associazioni, ricordi, sogni e descrizioni. L’influsso della tradizione narrativa attiva nel paziente un forte desiderio di comprensione e ascolto. D’altra parte, più intenso sarà questo desiderio, tanto più il suo racconto si allontanerà dagli accadimenti reali e dunque dalla verità storica.

“…il bisogno di assumere una parte coerente nella conversazione analitica può indurre il paziente a dimostrare una fluidità discorsiva maggiore di quanto i dati non autorizzino… Per effetto del bisogno di mantenere una coerenza e di alimentare la conversazione, il paziente può produrre frasi in luogo di associazioni e presentarci parole e descrizioni che hanno scarso rapporto coi suoi sogni e ricordi. Quanto più sono controllate, tanto più le produzioni del paziente somigliano a una narrazione ben organizzata che basta ascoltare con attenzione passiva per capirla, dato che fornisce sia il contenuto che il contesto. Viceversa, quanto più frammentarie e disorganizzate sono le associazioni, tanto più attivo deve essere l’ascolto dell’analista, per introdurre le associazioni di collegamento, per selezionare un solo significato da una moltitudine di significati possibili e, in generale, per disporre il materiale in modo che possa essere registrato con qualche senso. L’attenzione

complementare come vorrebbe il modello di Freud.” (Spence,

1982, p. 263)

Negli ultimi anni della sua vita, lo stesso Freud si rese conto della difficoltà di ricostruire la vita del paziente in analisi, in modo attendibile. In particolare Freud osservò tale difficoltà proprio in relazione all’attenzione fluttuante di cui si serve l’analista nell’ascolto delle storie. Freud stesso si era convinto dello straordinario potere persuasivo di una narrazione coerente che facilitasse nel paziente la possibilità di colmare il vuoto fra eventi, apparentemente sconnessi e che generasse senso da un racconto caratterizzato da non-senso. Nel processo clinico, Freud attribuiva un forte spazio alla verità narrativa dell’analista. La capacità di ascoltare dell’analista doveva avvenire almeno a due livelli: uno di stretta adesione alle parole del paziente per giungere al “nocciolo di verità” ovvero al nucleo storico del paziente, l’altro di connessione fra associazioni, sogni, ricordi e frammenti del racconto. Questo secondo livello di ascolto doveva produrre nel paziente, coerenza ed aderenza ad una verità narrativa, orientata al processo di cambiamento in atto.

Un contributo interessante allo studio della narrazione in terapia, è quello di Michael White, figura di spicco dell’approccio sistemico-relazionale. Secondo White le persone attraverso il racconto della propria storia attribuiscono senso alle loro esperienze. La narrazione diventa un modo per reinventare gli eventi e la terapia diviene il contesto nel quale ciò accade.

Accogliendo la storia del soggetto, il terapeuta lo aiuta a riscriverla. Il terapeuta rimane fedele alla storia narrata dal

soggetto, riconoscendone i punti “vitali”, d’altra parte, con umiltà e collaborazione, ne decostruisce la trama nel tentativo di curarla. Per White, i problemi e le difficoltà sono “storie dominanti nella vita familiare”. Tali storie non rappresentano o addirittura contraddicono l’esperienza vissuta dal soggetto. In tal senso il cambiamento, inteso come restituzione di senso, si delinea dalla coevoluzione di nuovi significati, attraverso il linguaggio.

Il terapeuta proposto da White ascolta molto, è fortemente collaborativo, fornisce pochi suggerimenti ed attribuisce al cliente il ruolo di esperto. Egli abbandona le categorie nosografiche ed aiuta il cliente ad esternalizzare ed oggettivare il suo problema.

“L’esteriorizzazione del problema consente alle persone di differenziarsi dalle storie dominanti che hanno strutturato la loro vita e le loro relazioni. Come ho già detto, mi riferisco a queste storie chiamandole descrizioni “saturate dal problema”. Quando si distaccano da queste storie, le persone acquistano la capacità di individuare aspetti vitali dell’esperienza vissuta precedentemente trascurati. La presenza di questi aspetti trascurati dell’esperienza vissuta non poteva essere prevista attraverso la lettura della storia dominante” (White, 1992, p. 36)

In questo processo di cambiamento le risorse e la forza del terapeuta sono le domande al cliente. Esse diventano, infatti, forti sollecitazioni alla ridescrizione della storia narrata.

“Possono quindi essere introdotte domande che invitano le persone a estendere la rappresentazione di queste storie alternative. Sono domande che invitano a indagare alcune delle

racconti e le ridescrizioni personali che le persone fanno di se stesse e delle proprie relazioni” (White, 1992, p.37)

I socio-costruzionisti, infine, si attengono rigorosamente all’idea che non esiste una realtà sociale data. Esistono solo storie sul mondo che raccontiamo a noi stessi e agli altri. La prospettiva socio-costruzionista parla di narrative dei terapeuti, sostenendo che essi hanno una loro storia su come i problemi si sviluppano e vengono risolti. Per tale ragione, i terapeuti stessi pongono attenzione solo a determinati segmenti delle narrazioni dei loro clienti. Alcuni andranno in cerca di quello che interpretano come mito familiare, altri saranno interessati di più alla biografia interna, altri ancora porranno l’attenzione sugli atti comunicativi, prendendo ed analizzando parole usate dal cliente alla ricerca di altri segmenti linguistici che aprano maggiori possibilità.

Le narrative dei terapeuti rischiano di condurre la valutazione solo su alcuni livelli terapeutici, attivando soluzioni predeterminate dal paradigma di appartenenza.

Anderson e Goolishian (1992), attraverso la loro prospettiva dialogica, descrivono il processo terapeutico come una “conversazione terapeutica”. Attraverso la conversazione il terapeuta esplora e comprende i ‘problemi’ del cliente.

“Le persone parlano le une “con” le altre, e non le une “alle” altre. E’ un meccanismo attraverso cui il terapeuta e il cliente partecipano al co-evolvere di nuovi significati, nuove realtà e nuove narrative” (Anderson e Goolishian, 1992, p.43).

Grazie al suo processo dialogico, la conversazione terapeutica crea condizioni per mutare la narrazione del cliente e produrre storie “non ancora dette”.

La creazione dialogica del significato è in continua evoluzione e richiede che, all’interno della conversazione terapeutica, l’esperto assuma la posizione di chi “non conosce”.

Col suo “non-sapere”, il terapeuta agisce una sistematica analisi dell’esperienza così come accade. In terapia, l’interpretazione e la comprensione diventano atti condivisi, realizzati tra terapeuta e cliente in un contesto di collaborazione.

In questo modo, il cliente si muoverà liberamente in uno spazio conversazionale, senza avvertire l’esigenza di difendere la propria visione del mondo o di convincere il terapeuta.

Il dialogo tra terapeuta e cliente produrrà nuovi significati e da questa co-costruzione emergeranno nuove narrazioni.

Secondo Anderson e Goolishian, la posizione del terapeuta è di autentica curiosità verso le narrazioni del cliente. Lo scambio dialogico facilita la possibilità che il cliente ri-racconti ed elabori la propria storia, creando nuovi significati. I significati nuovi che emergono sono appunto le risorse che il cliente non conosceva, sono nuovi scenari ed una diversa rappresentazione di se stesso. “Un nuovo futuro emerge dalle narrative in via di elaborazione

che danno nuovo significato e comprensione alla vita del cliente e consentono un agire diverso” (Anderson e Goolishian, 1992

p.52).

Un altro importante autore che propone un’ottica narrativa della terapia è William D. Lax. Lax adotta un modello clinico fondato sulla teoria decostruzionista, la narrativa, il testo e la riflessività. Egli propone una interpretazione narrativa della terapia, sostenendo che il modo in cui il cliente narra la propria

storia, già porta con sé il limite dell’incapacità della modifica e/o del cambiamento.

La psicoterapia in chiave narrativa, diviene per Lax il passaggio da una narrazione “problematica” ad una più fluida e rinnovata. Raccontare la propria storia è un processo ricorsivo che definisce il mondo e la realtà contestuale in cui si è situati.

All’interno di questo modello, l’atto del costruire trame narrative con l’altro, risulta fondamentale per la rivelazione del sé e della propria nuova identità. Nel contributo di Lax assume un ruolo significativo anche il concetto di différance elaborato da Jacques Derrida.

Lax trova di estrema utilità la distinzione tra ciò che è detto e ciò che non lo è, e alla tensione che si sviluppa tra gli estremi di questo continuum. Lo spazio della différance, tra ciò che è presente e ciò che non lo è, genera la possibilità di individuare nuove narrative.

Questa tensione fornisce al terapeuta nuove possibilità interpretative. “In terapia nuove narrative/prospettive possono

sorgere attraverso l’interazione tra le metafore e le espressioni del cliente e quelle del terapeuta. Così il terapeuta può essere testimone di ciò che non viene detto dal cliente e restituirgli una visione diversa, ad esempio attraverso la riflessione.” (Lax,

1998, p.94).

In quest’ottica, l’analogia tra testo e sistemi umani assume un peso fondamentale e viene ricondotta ai contributi di Geertz (1973) e Ricoeur (1965) che utilizzano il testo come metafora della vita umana. Altri autori che utilizzano l’analogia testuale

nella pratica clinica sono White ed Epston (1990) e Penn e Sheinberg (1991).

Prima dell’interazione con il terapeuta, il testo narrativo del cliente non esiste, ma si costruisce e definisce nel reciproco scambio comunicativo. Il terapeuta diventa co-autore della storia del cliente. Il testo che ne deriva non è del cliente, né del terapeuta, ma rappresenta una co-costruzione comune. Pur essendo antecedente al loro incontro, la storia del cliente non è indipendente dalla trama narrativa che il terapeuta ha messo in campo.

La storia del cliente può essere cambiata nel tempo ed essere ricreata continuamente proprio grazie all’interazione con “l’altro”. Il terapeuta diventa osservatore e co-costruttore del cambiamento narrativo del cliente, co-generando con il cliente un nuovo testo della sua storia. Compito del terapeuta è quello di allargare i limiti della storia narrata dal cliente e di sviluppare in lui nuove idee rispetto al modo in cui pensa alla propria vita.

Il terapeuta non propone la visione “giusta”, ma si unisce al cliente nella possibilità di esperire una nuova storia, facilitando la co-creazione di una nuova narrazione.

Nella pratica clinica, la prospettiva narrativa utilizza come principali strumenti del cambiamento domande, riflessioni e cambi di posizione. D’altra parte, le domande non hanno lo scopo di condurre alla soluzione del problema, ma di creare una adeguata tensione tra ciò che è detto e ciò poteva essere detto, al fine di facilitare la costruzione di una nuova trama narrativa.

emergerà una nuova narrativa, e le sedute non sono predeterminate o orientate a procedere secondo un assetto standard o passaggi “preordinati”. Cliente e terapeuta sono in atteggiamento di mutua esplorazione: non sono orientati allo scopo, avendo in mente un obiettivo specifico, e il terapeuta non ha l’intento di mantenere la sua posizione di esperto…Il terapeuta è sempre alla ricerca di nuove modalità per introdurre differenze, sia attraverso una storia, una ridefinizione, una metafora o la riformulazione di una parola. Non è in cerca del “vero” significato, né propone una nuova storia. Non esiste una metaposizione o metavisione del terapeuta, e c’è un continuo interrogarsi sulle ipotesi da entrambe le parti. La nuova narrativa che emerge da questa interazione è il prodotto della collaborazione di tutti i partecipanti” (Lax,1998, p.103).