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La ‘narrazione filosofica’ secondo Calvino: il gusto per il conte philosophique

Alla luce delle osservazioni fin qui condotte, si vuole tentare dunque una riflessione sulla fisionomia particolare di ‘narrazione filosofica’ sperimentata ed affinata da Calvino all’insegna della conformazione del conte philosophique1 di illuministica memoria: il ‘racconto filosofico’ che vuole pervenire ad un concetto, ad una visione del mondo da saggiare e corroborare, di pari passo con lo svilupparsi della storia narrata.

Il ‘genere’ del conte philosophique ha rappresentato efficacemente un certo versante della cultura illuministica, quello del gusto dissertatorio circa il progresso della ragione nonché dell’etica umana, traducendolo in narrazioni allegoriche a sfondo filosofico2. Nel conte philosophique converge anche la natura della letteratura utopistica e del racconto basato su viaggi immaginari (come la Storia comica degli stati e imperi della Luna, di Cyrano de Bergerac e I viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift); e soprattutto vi confluiscono, in misura più costante e significativa, quelle forme narrative in cui è centrale il rapporto satirico e critico con la società contemporanea (come nel Candide, ou l'Optimisme di Voltaire e nel Jacques le fataliste di Diderot). Il tono delle argomentazioni – di natura lucida e complessa – risulta costantemente mosso e leggero, associato ad un gusto arguto, persino aspro e dissoluto, in quanto spesso finalizzato ad una determinazione polemica.

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A sostegno della forte influenza esercitata dalla tipologia del conte philosoghique sulla scrittura di Calvino, si cita un piccolo estratto da un’intervista a Eugenio Scalfari, grande amico dello scrittore ligure sin dai tempi del liceo a Sanremo: «Calvino è stato l’ultimo degli Illuministi […] Un giorno gli chiesi quali erano stati i suoi modelli. Mi disse: il conte philosophique. Candide, Jacques le fataliste,

Le rêve de d’Alembert e Le Neveu de Rameau, cioè Voltaire e Diderot»; chiara testimonianza, questa,

dell’approccio calviniano al discorso letterario, della pratica del «togliere peso alla lingua, fino a farla somigliare alla luce lunare. Questo è stato Italo Calvino. Lui sperava di trasmettere un canone di leggerezza, di esattezza, di eleganza intellettuale»; cfr. Eugenio Scalfari: «Io e Calvino nel segno di

Atena», in «L’Espresso», 15 settembre 2015, intervista di Sabina Minardi.

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Va detto, in realtà, che l’arte del racconto allegorico a sfondo filosofico non è un’invenzione propria dell’Illuminismo. Nell’antichità classica scrittori greci e latini si erano cimentati in questa particolare forma letteraria, tipica delle “età della crisi”, del racconto a scopo illustrativo o formativo, portatore invero di un “messaggio” filosofico di saggezza, di salvezza o di emancipazione. Esempio alto e paradigmatico sono le Metamorfosi (Metamorphoseon libri XI) di Lucio Apuleio, anche note sotto il titolo di L’Asino d’oro (Asinus aureus).

I racconti filosofici conoscono poi una rinascita moderna, alle soglie dell’età dei Lumi, in modo particolare in Francia quando modelli greci e latini vengono rimessi in auge con un intento nuovo: il rovesciamento critico delle idee ricevute, dei dogmi e delle tradizioni, in nome della libertà della ragione e dei suoi progressi. Racconto storico e razionalità critica vanno di pari passo: Voltaire è il primo maestro del genere; il modello ‘orientale’ del conte philosophique – collocato in un “altrove” ideale che sfida il presente storico – s’afferma invece in Montesquieu; Diderot ne sviluppa poi la forma del dialogo “questionante” e Rousseau la favola morale allegorica.

È da puntualizzare, come notazione compendiaria, che il conte philosophique non è mai giunto a configurarsi in uno statuto formale di genere letterario determinato; è rimasto, in realtà, un luogo espressivo mobile, polimorfo, sospeso tra il vero e proprio racconto e il pamphlet.

Sul conte philosophique e sull’epoca che lo produsse Calvino ha riflettuto lungamente, fino a consolidare una personale soluzione narrativa e poetica che si dispiega in varie forme, generi e sottogeneri (dalla recensione, all’apologo, al romanzo breve, per indicarne alcuni), sempre riconducibile ad una precisa intenzione teorica, veicolata da quella “deontologia letteraria” perennemente volta a combattere ogni forma di antropocentrismo, logocentrismo e di psicologizzazione del rapporto uomo - natura.

Molti dei titoli delle opere di Calvino alludono con evidenza alla formalizzazione di un simile progetto di ricerca intellettuale, capace di oltrepassare le stesse questioni e le simbologie emergenti dalle configurazioni narrative inscenate, chiara avvertenza di una precisa volontà di investigazione del reale a carattere epistemologico ed antropologico: Il mare dell’oggettività (1959), La sfida al labirinto (1962), La speculazione edilizia (1963), La giornata d’uno scrutatore (1963), Lo sguardo dell’archeologo (1972), per citarne solo alcuni fra i più noti. Altri titoli, di per sé privi di connotazione teoretica, come La formica argentina (1952), Il midollo del leone (1955), La nuvola di smog (1965), rivelano in realtà quel carattere speculativo che si colloca sotto il segno del conte philosophique, declinato secondo l’attualità del contesto storico-culturale e delle esigenze espressive ad esso relative3. Da varie corrispondenze epistolari con colleghi scrittori ed editori, nonché dalle occasioni testimoniali fornite da numerose riflessioni saggistiche, risulta altresì confermabile e articolabile nella sua genesi il nucleo essenziale di questa intenzionalità speculativa nei confronti del reale, derivante, in prima istanza, dalla formazione scientifico-naturalistica

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In questa sede si rinuncia ad un esame dell’intera produzione calviniana sotto questo aspetto specifico. Ci si limita a portare come esempio massimo di ‘conte philosophique calviniano’ Il Barone

rampante (1957): come ebbe a dire Umberto Eco nel suo articolo La morale è nella leggerezza,

comparso sull’inserto “Domenica” de «Il Sole 24 ore» il 26 maggio 2013, con questo romanzo Calvino abbandonava definitivamente la prospettiva de Il sentiero dei nidi di ragno, per dirigersi verso una poetica del fantastico che lo avrebbe condotto, di opera in opera, a muoversi «per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane»; e ancora, «nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica - il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte

philosophique».

Si potrebbe anche avanzare l’ipotesi che tutti gli scritti di Calvino si configurino in ultima istanza come un ‘macrotesto’ che, più o meno volontariamente o necessariamente, si è andato costruendo secondo il carattere proprio del conte philosophique, con i personaggi, le trame, le digressioni, gli inserti riflessivi e critici, le ricapitolazioni, lo humor, la decostruzione dei generi propri del racconto speculativo.

assimilata in ambiente familiare: il rapporto fra gli uomini e la natura, quel rapporto di volta in volta esaltato nei molteplici sperimentalismi narrativi, secondo declinazioni contrastive (natura-città, natura-storia, natura-cultura); la condizione umana di fronte alla sfida rappresentata dall’assoluta alterità della natura, che resta l’apporto decisivo nella storia letteraria e culturale italiana (primi referenti di Calvino restano a questo proposito Galileo e Leopardi), e il ‘rovello filosofico’ fecondo di tutta l’opera calviniana.

A documentare il forte interesse di Calvino verso la forma letteraria del conte philosophique di tradizione illuministica, si annoverano attente letture ed analisi dei passaggi più eminenti, espresse in più occasioni tramite introduzioni, saggi brevi e recensioni. In particolare, merita di essere sottolineata l’attenzione dedicata da Calvino ai due contes philosophiques per antonomasia: il Candide, ou l'Optimisme di Voltaire e Jacques le fataliste di Diderot4. Del primo, Calvino rileva con particolare attenzione la velocità e il dinamismo della narrazione, che restituisce uno specifico ritmo espressivo, atto a far dedurre l’essenza tematica del conte philosophique voltairiano: troppo rapida e tumultuosa è la vita umana affinché possa essere compresa veramente nel suo senso autentico. È la rapidità (che Calvino riprenderà poi come valore nelle sue Lezioni americane, in cui compare ancora il nome dell’autore del Candide) come parametro metaletterario, dunque, il vettore del credo antifinalistico di Voltaire; e il “razionalismo” di Voltaire racchiude in sé una disposizione volontaristica altamente innovativa per l’epoca, in quanto veicola un radicale credo antimetafisico.

Al secondo, definito secondo la formula di “antiromanzo-metaromanzo-iperromanzo”, Calvino riconosce l’ampio respiro di quei progetti letterari e filosofici secondo cui i libri devono dialogare fra loro, per completarsi e compenetrarsi a vicenda e far nascere quindi dal loro incontro nuove ed influenti visioni del mondo: nel romanzo di Diderot Calvino ravvisa lo schema del “racconto differito”, articolato in numerosi “racconti a cassetti”, struttura questa dettata non soltanto dal gusto per quello che Bachtin chiamerà “racconto polifonico”, bensì da quella che per Diderot è l’unica ed autentica immagine del mondo vivente, mai lineare e stilisticamente omogenea, tuttavia costituita da articolazioni e combinazioni che,

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Cfr. Italo Calvino, Candide ovvero la velocità. Introduzione a Voltaire, Candide ovvero l’ottimismo, Rizzoli, Milano 1974, pp. 5-10; ora in Id., Saggi 1945-1985, tomo I, op. cit., pp. 99-1003; Italo Calvino, Il gatto e il topo, in «Repubblica», 24 giugno 1984; ora con il titolo Denis Diderot, «Jacques

le fataliste», in Id., Saggi 1945-1985, tomo I, op. cit., pp. 844-852. Per l’opera di Diderot, cfr. Denis

seppur discontinue, celano sempre una logica interna5. Ed è precisamente in questa rappresentazione del mondo che Diderot riconosce la questione cruciale della condizione umana: quali gradi di libertà (al livello del pensiero e dell’azione, dunque della volontà) può sentire di avere l’uomo all’interno di una configurazione del mondo che, di volta in volta e per lo più, viene deterministicamente orientata6.

Diderot aveva intuito che è proprio dalle concezioni del mondo più rigidamente deterministe che si può trarre una carica propulsiva per la libertà individuale, come se volontà e libera scelta possano essere efficaci solo se aprono i loro varchi nella dura pietra della necessità7.

Soltanto riconoscendo che le visioni deterministiche del mondo costituiscono in realtà delle ‘gabbie’, edificate dall’uomo stesso attraverso l’assunzione incontrovertibile delle leggi che ‘governano’ la natura (dunque il caos, il “labirinto del reale”, per usare un’espressione calviniana), può nascere la possibilità di una lotta per la libertà umana, per l’elemento

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E in questo atteggiamento è riscontrabile la grande influenza del Tristram Shandy di Sterne, rispetto al quale Calvino scrive: «[…] novità esplosiva di quegli anni sul piano della forma letteraria e dell' atteggiamento verso le cose del mondo, esempio d' una narrazione libera e divagante agli antipodi del gusto settecentesco francese. L' anglofilia letteraria è sempre stata uno stimolo vitale per le letterature del continente; Diderot ne fece la sua bandiera nella crociata per la “verità” espressiva. […] Il grande dono che Sterne fa non solo a Diderot ma alla letteratura mondiale, che in seguito avrebbe imboccato il filone dell' ironia romantica, è il piglio disinvolto, lo sfogo d’umori, le acrobazie della scrittura», cfr. Italo Calvino, Denis Diderot, «Jacques le fataliste», in Id., Saggi 1945-1985, tomo I, op. cit., p. 845. 6

Si deve tener conto, difatti, che il contesto filosofico-scientifico rispetto al quale emerge in maniera antagonista il punto di vista di Diderot (il quale giungerà persino a maturare una posizione di completo ateismo, sostenuta da una concezione del mondo a carattere casuale e pre-evoluzionistica) era quello dominato dalla visione deterministico-meccanicistica della realtà, secondo la quale tutti i fenomeni naturali sono collegati reciprocamente e si verificano secondo un ordine necessario e invariabile; non c’è quindi spazio, nell’Universo, per una variazione spontanea, né per il perseguimento di finalità liberamente scelte. Nella tradizione filosofica occidentale, la nozione più tipica di determinismo rimanda a quella di causalità, dunque la relazione tra causa ed effetto, tra legge naturale universale e singolo fenomeno specifico: secondo questo rapporto, in natura, data una causa o una legge, può verificarsi soltanto un certo effetto o un particolare fenomeno, e non altro. Il passaggio fondamentale verso l’affermazione della concezione deterministica del mondo era avvenuto con la rivoluzione scientifica galileiana che, grazie al metodo di indagine sperimentale, portò all’estromissione delle cause finali dalla natura nell’ambito di un modello meccanicistico di spiegazione dei fenomeni. Nel corso del Settecento poi, il determinismo si attestò potentemente in campo scientifico, grazie soprattutto all’interpretazione matematica dei fenomeni naturali da parte di Isaac Newton: così il principio di causalità venne assunto come postulato fondamentale delle scienze naturali, diventando un paradigma della scienza in generale. Il discorso iniziato da Galileo e proseguito da Newton arriva dunque a compimento con l'Illuminismo, che estende il metodo analitico del determinismo dai fatti fisici a quelli sociali, etici e psichici, in breve, a tutta la realtà umana. 7

Cfr. Italo Calvino, Denis Diderot, «Jacques le fataliste», in Id., Saggi 1945-1985, tomo I, op. cit., p. 851.

volontaristico dell’agire umano. Per questo Jacques le fataliste appare a Calvino come “l’anti-Candide” e perfino come “l’anti-conte philosophique”8:

[…] Diderot è convinto che non si può costringere la verità in una forma, in una favola a tesi; l’omologia che la sua invenzione letteraria vuol raggiungere è quella con la vita inesauribile, non con una teoria enunciabile in termini astratti. La libera scrittura di Diderot s’oppone tanto alla “filosofia” quanto alla “letteratura”, ma oggi quella che noi riconosciamo come la vera scrittura letteraria è proprio la sua9.

Un’affermazione, questa, che all’altezza cronologica del 1984 (a distanza di un anno dalla pubblicazione integrale, per Einaudi, delle speculazioni del signor Palomar) assume certamente un’accezione risolutiva verso quella lunga riflessione sui rapporti tra filosofia e letteratura che aveva preso le mosse dall’omonimo saggio del 196710, in cui la relazione fra i due ambiti assumeva la forma di una “lotta”, di un rapporto agonistico destinato a non decidersi in favore di nessuna delle due parti; questo perché «l’opposizione letteratura- filosofia non esige d’esser risolta», bensì deve sempre essere considerata come perennemente rinnovabile, di modo che possa fungere da stimolo e fornace inesauribile di antidoti contro la “sclerosi delle parole”.

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In Jacques le fataliste, emerge distintamente l’insoddisfazione di Diderot verso le insufficienze strumentali del conte philosophique alla voltairiana maniera (difatti, nelle battute iniziali e lungo l’intero percorso del libro non mancano le affinità col Candide), comunquesia impostato sulla ricerca di “verità”, ma con mezzi che fanno percepire la comodità dell’artificio letterario. È il grande problema dell’intellettuale del Settecento; la situazione di doppia verità determinata dalla repressione e dal controllo delle opinioni impone una contromistificazione: opporre ai tabù un prodotto composto con accorgimenti e prudenze, ma che contenga una carica implicita di “verità”. Il racconto filosofico si assegna questa funzione sfruttando i successi di diffusione dei generi narrativi per fini polemici o di esposizioni tematiche. Dunque, la riflessione di Diderot sul rapporto tra finzione e verità si accentua e in Jacques le fataliste acquista tanto più rilievo quanto più affronta la casistica della mistificazione; ma la parodia del determinismo spinoziano personificata nella figura di Jacques, si modella non senza intenzioni polemiche sulla parodia dell'ottimismo leibniziano contenuta nel romanzo di Voltaire. Pertanto, il conte philosophique può apparire fondato sopra una falsa convenzione. Il narratore possiede una verità o una controverità che, spinta fino al supremo divertimento dell’iperbole, espone attraverso immagini che si qualificano facilmente come invenzioni. Tuttavia, per Diderot la verità non può essere presentata sotto il velo della menzogna e le pagine di Jacques vanno oltre nella verifica di questa distinzione troppo netta attraverso un’esibizione di ironie, ambiguità, contraddizioni, finendo per rivelare quanto sia più aggrovigliato e caotico l'intreccio fra i due momenti.

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Cfr. Italo Calvino, Denis Diderot, «Jacques le fataliste», in Id., Saggi 1945-1985, tomo I, op. cit., p. 852.

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Anche questa è una data significativa nel quadro di un’indagine volta ad enucleare i tratti salienti della riflessione calviniana sulle potenzialità speculative ed epistemologiche del discorso letterario: è l’anno di pubblicazione di Ti con zero, fondamentale e naturale proseguo de Le Cosmicomiche (1965); sono queste le due opere che segnano una significativa svolta nello sperimentalismo narrativo calviniano, le due prove di una nuova traiettoria, che “di cosmicomica in cosmicomica” rafforzerà la possibilità di leggere nelle intenzioni dell’autore una volontà di indagine epistemologica del mondo, senza rinunciare al fondamentale “gioco della letteratura”.

Il rapporto tra filosofia e letteratura è una lotta. Lo sguardo dei filosofi attraversa l’opacità del mondo, ne cancella lo spessore carnoso, riduce la varietà dell’esistente a una ragnatela di relazioni tra concetti generali, fissa le regole per cui un numero finito di pedine muovendosi su una scacchiera esaurisce un numero forse infinito di combinazioni. Arrivano gli scrittori e agli astratti pezzi degli scacchi sostituiscono re regine cavalli torri con un nome, una forma determinata, un’insieme d’attributi reali o equini, al posto della scacchiera distendono campi di battaglia polverosi o mari in burrasca; ecco le regole del gioco buttate all’aria, ecco un ordine diverso da quello dei filosofi che si lascia a poco a poco scoprire. Ossia: chi scopre queste nuove regole del gioco sono nuovamente i filosofi, tornati alla riscossa per dimostrare che l’operazione compiuta dagli scrittori è riducibile a una operazione delle loro, che le torri e gli alfieri determinati non erano che concetti generali travestiti11.

Ripercorrere le riflessioni di Calvino sui rapporti tra filosofia e letteratura sin dagli anni della ‘produzione cosmicomica’, aiuta a comprendere meglio il pensiero teorico che vi è sotteso: dapprima ravvisabile nelle metamorfosi esistenziali trans-umane di Qfwfq, nell’arco di quasi vent’anni, approderà poi alle mutevoli disposizioni del contemplativo signor Palomar, che hanno senso precisamente dal momento in cui le idee messe in campo aderiscono costantemente allo stato effettivo della sua condizione esistenziale12. È questa una perlustrazione volta a sostenere la possibilità di annoverare come contes philosophiques molti dei “luoghi calviniani” in cui è riconoscibile quella feconda relazione agonistica tra letteratura e filosofia che Calvino sosteneva, evidentemente, dall’ottica di un discreto écrivain critique13.

Per quanto concerne la geometria di questa “lotta” tra filosofia e letteratura, Calvino proseguiva, nel medesimo saggio, sostenendo che

[…] i due contendenti non devono mai perdersi di vista ma nemmeno intrattenere rapporti troppo ravvicinati. Lo scrittore che vuole fare concorrenza al filosofo lanciando i suoi personaggi in dissertazioni profonde finisce nel migliore dei casi per rendere abitabili, persuasive, quotidiane le vertigini del pensiero, senza farci respirare l’aria delle grandi altezze.[…] Solo quando lo scrittore

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Italo Calvino, Filosofia e letteratura (1967), in Id., Una pietra sopra, op. cit., pp. 182-183. 12

D’altra parte, ciò è stato esplicitamente teorizzato, tra gli altri, sia da Wittgenstein che da Derrida, il quale ha proposto anche di intendere ogni filosofia come una forma di “egodicea”. Questo non significa affatto sminuire il discorso filosofico; ma, certo, scegliere di collocarlo all’interno di una concezione precisa, che è quella, appunto, del valore imprescindibile della storia e dell’esperienza (sia come Erfahrung che come Erlebnis).

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scrive prima del filosofo che lo interpreta, il rigore letterario servirà di modello al rigore filosofico: anche se scrittore e filosofo convivono nella stessa persona14.

Da questa considerazione si evince chiaramente la consapevolezza dello scrittore Calvino per cui il “romanzo intellettuale”, il “romanzo-discussione” non sia più un genere praticabile per dare veste adeguata ad un discorso letterario che possa abbracciare un’intera visione del mondo contemporaneo; i grandi romanzi filosofici, quali La montagna incantata di Thomas Mann o L’Uomo senza qualità di Robert Musil, non costituiscono più configurazioni idonee a veicolare delle weltanschauung capaci di affascinare e far riflettere, in quanto le discussioni paradigmatiche sull’esistente sono più recepibili, nell’epoca odierna, se esposte ad esempio in forma di un «saggio di storia delle idee o di sociologia della cultura»15.

In un’epoca storico-culturale che mostra un gradiente crescente di complessità, a Calvino riesce altresì difficoltosa e problematica una rappresentazione diretta ed estesa del reale, come se le forme di narrazione di “primo grado”, sulla scorta dei modelli ottocenteschi del romanzo storico, sino al Realismo novecentesco (declinato nelle due versioni, francese ed italiana, del Naturalismo e del Verismo), fossero ormai ‘impossibili’ da praticare, perché sentite come anacronistiche e poco efficaci a livello espressivo, soprattutto dopo la stagione delle avanguardie del primo Novecento. D’altro canto, passata anche la stagione dell’engagement espressa dal Neorealismo italiano degli anni ’40-’50, Calvino manifesta una propensione, anche teorica, sempre più accentuata per la forma del racconto o del romanzo breve16.

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Italo Calvino, Filosofia e letteratura (1967), in Id., Una pietra sopra, op. cit., pp. 183-184.