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La sfida permanente della letteratura, tra fantasia e razionalità

Secondo i propositi del presente studio, si vuole sostenere che il ménage à trois auspicato da Calvino fra letteratura, scienza e filosofia, volto a dare visibilità e coerenza all’intricata ed ermetica molteplicità del mondo non scritto, si esplica nella sua produzione narrativa con intensità di articolazione e complessità crescenti. Specialmente a partire dalla “svolta” degli anni Sessanta, si assiste all’affermarsi sempre più distinto di una leggerezza ed esattezza di pensiero che, costantemente sostenuta da interrogativi di natura filosofico-scientifica, ritrova di volta in volta la propria consistenza1 attraverso inedite rappresentazioni di universi letterari originali, che sono “finzione scenica”2 dei molteplici significati potenziali della relazione uomo-mondo; ed è precisamente lo stretto connubio tra una fantasia “assoluta” ed una razionalità geometrizzante a costituire il motivo propulsore della “macchina letteraria” di Calvino.

L’esigenza di una visione geometrizzante dello scrivere3 da opporre al caos, all’informe del mondo, nasconde più di un collegamento con la questione – centrale per la scienza contemporanea – dell’opposizione ordine - disordine4, del possibile passaggio dall’entropia alla sintropia, cui lo stesso Calvino rinvia quando, in un passo fondamentale delle sue Lezioni americane, giunge a paragonare l’opera letteraria a una di quelle «minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità minerale, ma vivente come un organismo»5. Soltanto seguendo questa direttrice di simmetrie, di instancabile ricerca di forma e ordine, secondo cui viene a dipanarsi la rete delle immagini magmatiche del mondo, si può veramente comprendere la qualità specifica dell’agire di un fantastico a tensione razionale nella letteratura calviniana.

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Col termine ‘consistenza’ – così come, poche righe innanzi, con il lemma ‘coerenza’ – si intende riferirsi alla concettualizzazione espressa da Calvino nell’incompiuta lezione americana Consistency: si rimanda al par. 2.5 del Capitolo 2 per la trattazione del tema.

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Si rimanda al par 2.1 del Capitolo 2 per la spiegazione dell’accezione adottata nel presente lavoro del concetto di “finzione” in letteratura; preliminarmente si può dire che esso è associato all’azione della “messa in scena” de possibili narrabili attraverso la parola letteraria, secondo la metodologia modellizzante del “come se”.

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Di una scrittura che sia connessa ad un modello cosmologico che si esplichi nel quadro di inedite mitopoiesi narrative a orientamento post-umanistico.

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Si pensi, a titolo esemplificativo, agli studi sui processi organizzativi della materia che possono sortire dai cosiddetti stati irreversibili osservati in termodinamica.

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Saper “tessere insieme” l’eredità di autori come Ariosto, Swift, Diderot, e ancora Stendhal, Borges e Galilei (per citarne solo alcuni fra i più ammirati da Calvino) esprime precisamente la volontà di muoversi verso la costruzione di una letteratura atta a rendere testimonianza di una commistione feconda tra fantasia, immaginazione e razionalità, come unica modalità ancora praticabile per interfacciarsi col “mondo esterno”, il – calvinianamente detto – mondo non scritto6.

È indiscutibile che nell’opera di Calvino siano compresenti e intrecciate le due componenti di fantasia e razionalità, impegnate in un rapporto che si potrebbe quasi definire ‘metabolico’7: una fantasia costantemente disposta a interagire agilmente con gli stimoli che sa rintracciare nel mondo e una razionalità pronta, esatta e metodica, capace finanche di allestire rappresentazioni geometrizzanti della realtà; fantasia e razionalità che cooperano, dunque, nella determinazione di un’orditura inedita di possibili configurazioni dell’esistente, per veicolare “letture” corroboranti di un mondo sempre più eterogeneo e caotico. La coesistenza di queste due inclinazioni costituisce chiaramente il meccanismo propulsore dell’immaginazione letteraria calviniana; ciò nondimeno, dietro al concorso operativo di fantasia e razionalità si cela una frattura profonda dettata dalla compresenza inconciliabile di diversi piani della visione del mondo, una spaccatura che si traduce letterariamente in una tensione inestinguibile generata da quell’«attrito col mondo» per cui «l’oggettività della

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È evidente quanto in Calvino i due piani di fantasia e razionalità si pervadano a vicenda; si potrebbe

dunque parlare, per la prospettiva assunta dall’autore nell’interfacciarsi col mondo non scritto, di un realismo critico a base fantastica, atteggiamento che si riflette appunto, al livello della scrittura, in una compenetrazione di precisione geometrica e di carica mitico-simbolico-fantastica: combinazione, questa, che già si percepiva all’altezza della Trilogia degli Antenati, in declinazione più sperimentale si ravvisa (di ‘respiro cosmico’) ne Le Cosmicomiche e Ti con zero, per poi raggiungere, indubbiamente, un vertice ragguardevole ne Le città invisibili ed anche nell’ultima opera narrativa compiuta, Palomar, sia pure in forma diversamente orientata, come si avrà modo di vedere.

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Fantasia e razionalità sono i due principi costitutivi dell’articolato processo di trasformazione del reale nella poetica calviniana, dal momento che è l’incessante dialogo interno alle due facoltà a farsi garante di una continua ri-tessitura dei dispositivi di modellizzazione del discorso sul mondo attraverso una scrittura (un fare letterario) che tutela il costante rinnovamento metamorfico delle varie

versioni del mondo che vengono così a costruirsi, assicurandone al contempo la conservazione della

carica conoscitiva e performativa nei confronti della realtà. In un’intervista realizzata per la Rai nel 1982 da Alberto Sinigaglia e dal regista Bruno Gambarotta (intervista che appartiene ad una fortunata iniziativa del Centro di produzione di Torino, La Rete), trascritta poi e rivista dallo stesso autore per il volume Vent’anni al Duemila, Calvino dichiarava:«È soltanto su una certa solidità prosaica che può nascere una creatività: la fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane. Se no, rimane come una cosa informe, come una marmellata, su cui non si può costruire niente», questo a dimostrazione di quanto i due processi di fantasia e razionalità debbano corroborarsi a vicenda, di quanto lo scrittore abbia bisogno di frequentare e indagare razionalmente il mondo non

scritto per potersi poi rituffare nel potenziale dell’immaginazione e dare origine ad un inedito e

suggestivo mondo scritto, ogni volta; cfr. Alberto Arbasino (a cura di), Vent'anni al Duemila:

interviste con Alberto Arbasino, Giulio Carlo Argan, Norberto Bobbio, Italo Calvino, Umberto Eco, Luigi Firpo, Serena Foglia, Rita Levi Montalcini, Siro Lombardini, Cesare Musatti, Aurelio Peccei, Michele Pellegrino e Andrea Zanzotto, ERI-Edizioni Rai, Roma 1982.

ragione ci stringe in un assedio non meno letale dell’oggettività dell’assurdo»8; contrasto, questo, di cui Calvino parla sin dagli anni de Il mare dell’oggettività (1959) e de La sfida al labirinto (1962) e rispetto al quale ha piena consapevolezza della funzionalità reciproca delle possibili letture:

E oggi, il senso della complessità del tutto, il senso del brulicante o del folto o dello screziato o del labirintico o dello stratificato, è diventato necessariamente complementare alla visione del mondo che si vale di una forzatura semplificatrice, schematizzatrice del reale9.

Da queste riflessioni espresse in sede teorica, Calvino approda ad una prima, decisiva trasposizione della questione in La giornata d’uno scrutatore (1963), racconto in cui il protagonista Amerigo Ormea, intellettuale chiaramente alterego dello scrittore, vive una condizione di costante e tormentata problematicità nei confronti della realtà:

Ad Amerigo la complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte invece un agglutinamento di significati, una pasta collosa10.

Come ebbe a scrivere Alberto Asor Rosa, «Sfogliando il carciofo, strato dietro strato, Amerigo Ormea cerca di arrivare ad una approssimazione di realtà, a una delucidazione di significati. Il magma come oggetto d’indagine è salvo; e salva è anche una sia pur relativa possibilità di ordinamento. Il gioco comincia a questo punto (ma solo provvisoriamente) a chiarirsi. L’alternativa al disordine è la Ragione»11: dalla prospettiva di Amerigo emerge dunque distintamente l’approccio enciclopedista del Calvino cultore dell’Illuminismo, del Calvino che sostiene l’urgenza di una «mappa del labirinto la più particolareggiata possibile»12, la necessità di «un discorso il più possibile inglobante e articolato, che incarni la molteplicità conoscitiva e strumentale del mondo in cui viviamo»13; tuttavia la sola opposizione diretta delle categorie ordine-disordine14 non costituisce più uno strumento

8

Cfr. Italo Calvino, Il mare dell’oggettività (1960), in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 51. 9

Ivi, p. 54. 10

Id., La giornata di uno scrutatore (1963), p. 41. 11

Cfr. Alberto Asor Rosa, Il carciofo della dialettica (1963), in Id., Intellettuali e classe operaia.

Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, La Nuova Italia, Firenze 1973,

pp. 141-42. 12

Cfr. Italo Calvino, La sfida al labirinto, in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 116. 13

Ivi, p. 117. 14

Coppia che rimanda alla semantica calviniana del polarismo luce - ombra, di aprico - opaco, come modalità compresenti di visione del mondo; Calvino espliciterà questa distinzione con evidenza teorica notevole nel fondamentale Dall’opaco (1971), sottolineando al contempo quanto sia imprescindibile la coesistenza delle due condizioni per una lettura cosciente del mondo esterno: un mondo in cui prevale l’aprico, ma rispetto a cui è la prospettiva che si origina dall’opaco a

sufficiente per affrontare il garbuglio dell’esistente, perché per Calvino si fa strada sempre più la convinzione che «il barbaglio della ragione dell’universo è luce quando giunge a illuminare la vicenda limitata e ostinata del fare umano; ma se si sostituisce ad essa è ritorno all’indistinto crogiuolo originario»15; dunque Calvino giunge alla risoluzione secondo cui il magma della realtà deve avere una sua “ragione interna”, una logica tale da renderlo comprensibile senza forzature; dinanzi alla vertigine che può scaturire non solo dalla sfida ma anche dal fascino del labirinto, la “salvezza” è data dal prendere coscienza che l’uomo vive internamente al magma del reale, dunque mescolato alle sue leggi, nella stessa scala cosmica.

Calvino doveva essere talmente persuaso della metafora del ‘carciofo’ da riprenderla integralmente in un saggio dedicato a Carlo Emilio Gadda, Il mondo è un carciofo, in cui peraltro l’immagine viene estesa alla problematica interpretativa dell’intera impresa letteraria:

La realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo. Ciò che conta per noi nell’opera letteraria è la possibilità di continuare a spogliarla come un carciofo infinito16.

Calvino segue però una via del tutto differente da quella gaddiana: l’ingegnere scrittore dilata la narrazione sino a trasformarla in un doppio della realtà, una riproduzione destinata

determinare la possibilità reale di configurazioni sensate dell’esistente, dal momento che sono precisamente le ombre, i confini a far emergere contrasti, differenze e garantire dunque la possibilità del discernimento, l’attuazione del ‘principio di differenza’, fondamentale per pronunciarsi in maniera critica sulle cose. Cfr. Italo Calvino, Dall’opaco (1971), in Id., La strada di San Giovanni, op. cit. La rilevanza di questo tema emergerà con maggiore evidenza in sezioni successive del presente lavoro. 15

Cfr. Id., Il mare dell’oggettività, in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 52. Chiara l’opposizione calviniana, fin da queste altezze temporali, alle pratiche letterarie mimetiche nei confronti del reale. 16

Italo Calvino, Il mondo è un carciofo (1963), in Id., Saggi 1945-1985, vol. I, op. cit., p. 1067. Benché l’intervento su Gadda risalga al 1963, è rimasto inedito fino alla pubblicazione in volume per la collana «i Meridiani». Prosegue Calvino, nelle stesse righe: «Perciò sosteniamo che fra tutti gli autori importanti e brillanti di cui si è parlato in questi giorni, forse solo Gadda merita il nome di grande scrittore». Il giudizio di Calvino su Gadda muterà seguendo l’alternativa – sopracitata – che si poneva al protagonista de La giornata d’uno scrutatore; a distanza di vent’anni dalle prime ammirate riflessioni, nelle Lezioni americane, Calvino traspone l’universo narrativo del Gran Lombardo nel comporsi discreto di un intreccio di linee che rispondono ad una visione del mondo come «sistema di sistemi»: la lezione Molteplicità si apre con una lunga citazione dal Pasticciaccio, che appare a Calvino come la migliore espressione del «romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo»; tuttavia, aggiunge Calvino poco oltre, «per valutare come l’enciclopedismo di Gadda può comporsi in una costruzione compiuta, bisogna rivolgersi ai testi più brevi», o considerare i singoli episodi dei romanzi gaddiani, perché sono questi gli ambiti in cui si apprezza al meglio il processo per cui «ogni minimo oggetto è visto come centro d’una rete di relazioni», una rete che si propaga senza apparente controllo, per cui il discorso letterario «s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo»; cfr. Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane, op. cit., pp. 103-108. Ritorna quindi la naturale propensione di Calvino per la densità espressiva propria della misura breve del discorso letterario.

in ogni caso a svilupparsi su se stessa e a non trovare una conclusione17, perché la passio cognitiva gaddiana riporta «dall’oggettività del mondo alla sua propria soggettività esasperata»18; Calvino, invece, esplora il labirinto del reale pezzo per pezzo e non potendone restituire immediatamente una mappa complessiva, ne delinea frammenti, anche chimerici, che consegna utopisticamente al futuro. Il tema della ‘mappatura del reale’ diventa ricorsivo in Calvino a partire dagli anni Sessanta: da un racconto come La strada di San Giovanni (1963)19, a Il conte di Montecristo a conclusione della raccolta Ti con zero, a Le città

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Anche in Gadda la funzione conoscitiva rivendicata alla letteratura muove da una necessità analoga a quella calviniana, ovvero dall’esigenza di percorrere la molteplicità caotica del reale in tutte le sue possibili declinazioni: per l’ingegnere della scrittura ogni aspetto del reale ha il suo linguaggio, tecnico-specialistico o gergale, colloquiale o dotto; per cui, è precisamente mescolando tutti i vari codici linguistici e stilistici che Gadda aspira a ricostruire le innumerevoli relazioni che configurano la complessità del mondo. Insomma, per conoscere la realtà lo scrittore non può che cedere alla pluralità polimorfa/poliedrica dei linguaggi, espressione diretta della frammentarietà caotica del reale. Pertanto, dinanzi ad una realtà che è groviglio, intrigo e pasticcio, la lingua di Gadda, in quanto strumento e oggetto della conoscenza, in quanto ‘doppio della realtà’, si presenta a sua volta, necessariamente, come pastiche. Ed è essenzialmente questo il tratto che il linguaggio narrativo di Calvino riesce a superare: per avere qualche possibilità di comprendere il reale, non è sufficiente immergersi in un’opera di scandagliamento, per quanto minuziosa e fedele possa essere, del mondo; bisogna trovare il coraggio di assumere la configurazione stessa del groviglio come logica interna della realtà: da questa prima posizione nascerà in Calvino l’interesse e l’adesione a prospettive ibride della condizione umana, quali quelle di Michel Serres e successivamente di Bruno Latour, in cui i concetti di rete, ibridi, nessi e meticciamento dell’umano col non-umano risultano fondanti di una visione antiantropocentrica della realtà.

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Cfr. Italo Calvino, Molteplicità, in Id., Lezioni americane, op. cit., p. 108; e poco più avanti, Calvino conclude sottolineando quanto la scrittura di Gadda sia definita «da questa tensione tra esattezza razionale e deformazione frenetica come componenti essenziali d’ogni processo cognitivo», cfr. ibidem, p. 108.

Secondo alcuni critici la scrittura gaddiana corre pertanto il rischio di smarrirsi nei meandri più imprevedibili della realtà, fino a non essere più in grado di afferrare il senso delle cose, proprio per un eccessivo attaccamento al principio di realismo come fautore letterario di aderenza alla complessità del mondo: ad esempio, secondo Carla Benedetti «la contraddittorietà di questa scrittura consiste proprio nel fatto che i suoi procedimenti […], costruiti per meglio afferrare le cose, finiscono per allontanarle dalla propria presa. La tensione verso l’oggetto reale e la sua esclusione dal discorso narrativo si attuano entrambe nel testo, come contraddizione entro cui si muove la scrittura» (cfr. Carla Benedetti, Una trappola di parole, Edizioni Ets, Pisa 1986, pp. 8-9); dunque, in ultima analisi, la scrittura gaddiana si trasforma in una trappola di parole. Quello di Gadda è comunque un realismo non ingenuo, consapevole dell’impossibilità di approdare ad una visione stabile e certa della complessità del reale. Questa la sfida e il paradosso della sua narrativa, divisa tra il desiderio di conoscere e la consapevolezza di deformare il reale e di non poter essere mai esaustiva ed attendibile. E Calvino ha piena coscienza di questa contraddizione di fondo, quando scrive che «come nevrotico, Gadda getta tutto se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce e ossessioni, cosicché spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a tutto il quadro», che resta dunque «senza soluzione», cfr. Italo Calvino, Molteplicità, in Id., Lezioni americane, op. cit., p. 108. Si potrebbe azzardare infine una considerazione: dalla sentita ammirazione e dalla profonda conoscenza che Calvino dimostra nei confronti della “filosofia gaddiana”, nascono fin dagli anni Sessanta, i presupposti per una riflessione metodologica ed ermeneutica più sofisticata nell’approccio che la macchina letteraria debba tenere rispetto al groviglio del mondo; Calvino ‘fa tesoro’ dell’esempio gaddiano e si muove in direzione di sentieri sperimentali differenti, ma che originano dalla medesima tensione e passio cognitiva che spinge la scrittura del Gran Lombardo.

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È questo un racconto scritto a ridosso delle prime esperienze cosmicomiche, dunque in un arco biografico-temporale in cui la sensibilità calviniana dinanzi all’esistente sente l’esigenza di esprimersi anche attraverso descrizioni che si snodino innanzitutto in senso “geografico”, come ricerca di un

invisibili20, a Palomar (si pensi a passaggi quali La superficie inesauribile delle cose), fino a uno degli ultimi racconti, Un re in ascolto, edito nel postumo Sotto il sole giaguaro21. L’immagine della mappa è altamente connotativa della strategia operativa adottata da Calvino dinanzi al caos del reale: la rappresentazione del mondo, dei suoi fenomeni e dei suoi aspetti attraverso la costruzione di una cartografia mentale è volta a rendere la possibilità di agire e muoversi in modo sensato e orientato e rivela una determinante convinzione epistemologica: il mondo è compreso attraverso categorie mentali che l’uomo proietta su di esso, e queste categorie mentali sono prodotte dalle strutture stesse del mondo. Per cui diventa chiaro che il progetto calviniano non è volto tanto a fornire una descrizione del mondo, perché si ricadrebbe negli equivoci del naturalismo o del realismo mimetico, con conseguente «accettazione della situazione data»; piuttosto è funzionale alla «volontà di contrasto»22, a una tensione morale di resistenza, a una visione del reale non univoca, né

nuovo orientamento epistemologico sul mondo a partire da un baricentro, da un’origine di appartenenza della propria “cartografia mentale”. La prima frase del racconto recita, difatti: «Una

spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com'era situata casa nostra»; cfr. Italo Calvino, La strada di San Giovanni (1962), in Id., La strada di San Giovanni (1990,

post.), op. cit., p. 7. Questo schema di approccio conoscitivo diventerà esplicito nella cornice de Le

città invisibili: « ― Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. […] ― Per

distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. ― Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com’è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei»; cfr. Italo Calvino, Le città

invisibili, op. cit., p. 88. Per definirsi, per definire il mondo, il soggetto ha l’esigenza di definire ed

esprimere le proprie radici, ovvero quello sfondo naturale e antropico in cui le forme delle rappresentazioni simboliche, dunque le forme del pensiero, hanno ricevuto la prima matrice di costituzione, un imprinting figurale e concettuale. Non a caso Calvino afferma che «in quasi tutte le mie cose migliori c'è lo scenario della Riviera, e perciò si legano spesso a un mondo infantile e adolescenziale»; cfr. Questionario 1956, S 2711. Secondo questa prospettiva, sembra quasi di poter rintracciare un aspetto ecologico nel discorso letterario calviniano: precisamente nella misura di un

ekos logos, di un “discorso sulla casa”, che si trasforma e si ri-configura come discorso sull’individuo,

sulla sua formazione culturale, mentale e epistemologica, che parte dal luogo e ne presuppone una