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Per entrare in merito al progetto calviniano per una letteratura cosmica, è utile ripercorrere ed esplorare i prodromi teorici e le occasioni di riflessione originaria relative alla genesi di una simile configurazione del discorso letterario.

Verso la metà degli anni Cinquanta, passando attraverso un’intensa produzione saggistica dai toni spesso programmatici1, Calvino intraprende una serrata ricognizione nei territori del romanzo contemporaneo, che lo condurrà a maturare autonomamente un atteggiamento di radicale contestazione nei confronti di quell’attardato neorealismo che egli riscontra come stile di pensiero dominante nella letteratura italiana dell’epoca2, sempre più persuaso dell’urgenza ‘ri-formatrice’, «d’una battaglia letteraria, uno scontro sul terreno formale e morale»3. In nome di una mai rinnegata tensione razionale, già nel saggio Il midollo del leone (1955), brandendo lo stendardo di una necessaria rivincita dell’intelligenza umana4,

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Il riferimento va ai saggi dall’evidente, se non programmatico appunto, sguardo critico sulla realtà dell’epoca, quali Il midollo del leone (1955), Natura e storia del romanzo (1958), Il mare

dell’oggettività (1959), Tre correnti del romanzo italiano d’oggi (1959), fino a spingersi al Dialogo di due scrittori in crisi (1961), tutti raccolti in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società (1980).

Le riflessioni teoriche esposte in questi saggi (con quella che sempre di più sarebbe diventata la complessa chiarezza dello stile di pensiero calviniano) trova corrispondenza, sul piano del fare letterario, con una serie specifica, ben caratterizzabile di produzioni narrative. Nel corso degli anni cinquanta Calvino si cimenta nella forma del racconto lungo, per affrontare tematiche di grande rilievo politico, sociale e morale; nascono così La formica argentina (1952), La speculazione edilizia (1957) e La nuvola di smog (1958), parte di un filone narrativo che lo stesso Calvino definisce «autobiografico-intellettuale»: spunti tratti da una contemporaneità sempre più caotica vengono filtrati dalla lucida intelligenza letteraria dello scrittore, che ne ricava rappresentazioni emblematiche del proprio tempo. Queste opere apparentemente conservano un impianto narrativo neorealista; in realtà si caricano di profondi significati simbolici, di cui l’autore si serve per avviare un’indagine critica sulla realtà contemporanea, soffermandosi soprattutto sui problemi posti dalle nuove prospettive urbane e industriali. Calvino, in particolare, intende offrire una visione amara e critica del progresso industriale e sociale, del cosiddetto “boom” o “miracolo economico” decantato in quegli anni, lasciandone scorgere i risvolti negativi: la diffusione della miseria, dell’avidità, dell’egoismo, della disuguaglianza e la perdita di valori come la libertà, la bellezza, la spontaneità, la naturalezza.

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In particolar modo verso gli esponenti di un certo «neo-flaubertismo» di stampo italiano, Cassola e Bassani. La definizione è dello stesso Calvino, che così si esprimeva in una lettera a François Wahl del 22 luglio 1958: «C'è oggi si può dire una corrente della letteratura italiana che io definisco […]

neo-flaubertiana, che trae effetti di sgomento metafisico da una fotografia minuziosa della provincia

con la malinconia dell'antifascista deluso dal presente. Cassola ne è l'esponente più disperato e nature; Bassani il più cosciente e intellettuale. (Ma il loro neo-flaubertismo […] li porta, non alla perfezione stilistica ma alla trascuratezza. Entrambi sono indifesi dalla frase di uso comune dalla banalità linguistica», cfr. Italo Calvino, Lettere 1940-1985, op. cit., p. 553.

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Ivi, pp. 593-594, da una lettera a Franco Fortini del 13 maggio 1959. 4

Richiamandosi all’esempio di Pintor – considerato come «una delle tempre umane più estranee e opposte al decadentismo, all’evasione, all’ambiguità, morale» che «ci testimonia come i libri possano essere buoni o cattivi a seconda di come li leggiamo» – , così Calvino concludeva il saggio del 1955:

Calvino dichiara esplicitamente quale sia la direzione da lui auspicata per un nuovo orientamento del discorso narrativo, affermando la propria credenza «in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e qualità insostituibile», dal momento che «le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili […] necessarie e difficili»5. Negli anni successivi, attraverso occasioni di riflessione teorica disparate (lettere, saggi, conferenze), Calvino dimostra quanto il suo massimo interesse non sia un mero sfogo d’insoddisfazione, né il solo esprimere il proprio deciso rifiuto verso le tendenze letterarie allora in auge, giudicate come del tutto inadeguate ad incarnare le tensioni dell’epoca: come chiarisce nel fondamentale Il mare dell’oggettività (1959), non è sufficiente la sola negazione; la «non accettazione della situazione data»6 rischia di risolversi in una mera e sterile protesta se non si riesce a mettere in gioco un’alternativa di valori più confacenti nel fronteggiare ed esprimere una mutata dimensione storico-culturale7.

«In ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia. Il rigore di linguaggio, il rifiuto d’ogni compiacenza romantica, il senso della realtà scontata e difficile, la non adesione alle apparenze vistose, l’avara presenza del bello e del bene, questo è il midollo di leone che Pintor, traduttore di Rilke, lettore di Montale, morse dalla civiltà letteraria che l’aveva preceduto, questa è la lezione di uno stile che trasferì nell’azione,

nell’intelligenza storica»; cfr. Italo Calvino, Il midollo del leone, in Id., Una pietra sopra, op. cit., p.

21. Da Il midollo del leone emerge l’esigenza dell’applicazione dell’intelligenza umana ad una “nuova epica”, bisogno che viene espresso anche attraverso il rimarcare la necessità di trattazione di tematiche differenti, inedite, capaci di affrontare i nodi del presente e della quotidianità: «Alle ricerche d’un dio ignoto nel confuso ritmo delle città nuove e antiche, preferiamo la ricerca di qualche avaro seme di verità nel ritmo ben più scandito e lineare d’una esistenza, d’una avventura, d’un amore, su uno sfondo che resti dietro ai personaggi, non si sovrapponga a loro, e che proprio per questo suo esser

dietro, essere in margine, esser di pochi segni, acquisti verità e evidenza»; cfr. Ivi, p. 15, corsivi nel

testo miei. 5

Ivi, p. 17. 6

Nota espressione adottata da Calvino nel saggio Il mare dell’oggettività, in cui giunge ad auspicare un passaggio «dalla letteratura dell’oggettività alla letteratura della coscienza», a conclusione di un’analisi sulla contemporaneità che vede «il senso della complessità del tutto» come necessariamente complementare a visioni del mondo che si avvalgono sempre più di forzature «schematizzatrici del reale»; cfr. Italo Calvino, Il mare dell’oggettività (1959), in Id., Una pietra

sopra, op. cit., p. 54.

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Interessante rilevare come l’essenza delle idee espresse ne Il mare dell’oggettività (saggio scritto nell’ottobre del 1959 e pubblicato sul «Menabò di letteratura» nel 1960) derivi da un fervido processo di incubazione teorica durato mesi, come dimostrano le stesse affermazioni dello scrittore nella già citata lettera che Calvino scrisse a Franco Fortini il 13 maggio 1959: «Sono le proposte di valori quelle che contano. La negazione, il dire di no, la non accettazione, è la prima operazione necessaria per dire qualcosa, e per questo conta; ma oggi risentiamo di nuovo, e più che mai, di una situazione in cui le uniche ragioni valide sono negative […] Invece di struggersi con passione descrittivo-analitica sulle cose come sono bisogna contrapporre alla realtà non accettata una realtà che magari non c’è ma che solo per il fatto che la proponi acquista una sua forza. È la forza dell’utopia […] »; cfr. Italo Calvino, “Lettera a Franco Fortini”, Torino, 13 maggio 1959, in Id., Lettere 1945-1985, op. cit., p. 592.

Alla stessa altezza cronologica de Il mare dell’oggettività Calvino è intento a preparare il testo della conferenza Tre correnti del romanzo italiano d’oggi8: nell’individuare i principali filoni della narrativa italiana, per contrasto, lo scrittore ligure si trova impegnato in un percorso di “auto-chiarificazione” e di messa a punto del proprio stile letterario, riallacciando la propria forma mentis autoriale a quella corrente della «trasfigurazione fantastica»9 e promuovendo a insuperabile modello gli stimolanti dispositivi dell’ironia e del comico ariosteschi, spinta sulla quale s’innesterà, di lì a poco e in maniera decisiva con l’avvio del progetto cosmicomico, la lezione proveniente dal sapere scientifico. Nel riconoscersi e dichiararsi appartenete alla linea di discendenza di quell’«incredulo italiano del Cinquecento che trae dalla cultura rinascimentale un senso della realtà senza illusioni»10, Calvino compie un passo significativo verso quella magnifica genealogia di scrittori filosofi naturali della tradizione italiana alla quale farà più volte riferimento in più sedi saggistiche, e rispetto alla quale sarà ascrivibile la sua poetica a inclinazione cosmica e post-umanistica. Sempre più persuaso che la sola lezione che si possa concretamente derivare dalla letteratura sia quella di «poter insegnare un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo»11, Calvino si

8

Conferenza tenuta da Calvino per la prima volta, in inglese, il 16 dicembre 1959 alla Columbia University di New York. Dalla ricognizione dello scrittore emergono tre principali direttrici di sviluppo seguite dal romanzo italiano in quegli anni (tutte trovando però origine entro una prospettiva di superamento dell'iniziale spinta epica della letteratura Resistenziale): una maniera epico-elegiaca (Cassola e Bassani); una letteratura a forte tensione linguistico-sperimentale (Gadda e Pasolini); infine, una linea letteraria della trasfigurazione fantastica del reale, alla quale egli stesso finisce per annettere anche la propria esperienza letteraria: è senza dubbio il fantastico che consente a Calvino in quegli anni di raccontare ed è soprattutto l'esempio di Ludovico Ariosto quello più caro allo scrittore ligure (si ricordi come a questa altezza cronologica aveva già pubblicato i romanzi che avrebbero composto la trilogia de I nostri antenati, 1960). Il saggio, inoltre, si rivela importante perché Calvino fornisce un quadro genetico di quelli che sono stati e sono i suoi modelli letterari e (se vogliano) etici: dalla letteratura volta a una visione epico-mitica, con il grande esempio dei due principali protagonisti della stagione precedente alla sua, Pavese e Vittorini, fino alla lezione di eticità e di stoicismo cosmico offerta soprattutto dalla poesia essenziale, scabra, nuda e priva di compromessi di Eugenio Montale. 9

L’altissima ammirazione nutrita da Calvino per l’Ariosto è ben nota; basti pensare all’attenzione che egli riserva allo scrittore rinascimentale col suo “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto raccontato da

Italo Calvino (Einaudi, Torino 1970). Nel saggio Tre correnti del romanzo italiano d’oggi,

relativamente alla filogenesi fantastica della letteratura italiana, Calvino parla di Ludovico Ariosto in questi termini: «È evasione il mio amore per l’Ariosto? No, egli ci insegna come l’intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d’ironia, d’accuratezza formale, come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come esse possano entrare a far parte d’una concezione del mondo, possano servire a meglio valutare virtù e vizi umani. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell’epoca dei cervelli elettronici e dei voli spaziali. È un’energia volta verso l’avvenire, ne sono sicuro, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo … »; cfr. Italo Calvino, Tre

correnti del romanzo italiano d’oggi, in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 68. Interessante è notare

come, nel passo citato, i tratti evidenziati da Calvino nella poetica e nella scrittura ariostesca siano considerati esempi massimi di quell’acutezza formale e di quella poliedrica energia di uno sguardo prospettico sul mondo che nelle Lezioni americane verranno poi riconosciuti e proposti dallo scrittore ligure come valori imprescindibili del fare letterario, valori declinati secondo le qualità della leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità e consistenza.

10

Ibidem. 11

Cfr. Italo Calvino, Lettere 1940-1985, op. cit., p. 669. Nella lettera a François Wahl datata 1 dicembre 1960, Calvino giunge a questa conclusione, commentando l’analisi della metodologia e della

affaccia al nuovo decennio sostenendo fermamente la convinzione per cui la risposta alla crisi del romanzo contemporaneo non possa essere la negazione dell’umano, l’abbandono al flusso ininterrotto dell’oggettività12: difatti, l’auspicato passaggio ad una «letteratura della coscienza» (indipendentemente dalle forme nelle quali essa voglia attuarsi), non può prescindere dal momento cruciale «dello scatto attivo e cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni»13. La presa di coscienza della condizione stessa della crisi unita all’incessante richiamo alla creazione di nuovi valori del fare letterario, divengono elementi costitutivi dell’atteggiamento di fondo adottato da Calvino per misurarsi con l’ineludibile scommessa di creare sempre nuove coordinate per una “lettura” aggiornata dell’esistente. È questo un Calvino quanto mai fiducioso nella radicata ed incrollabile convinzione dell’utilità dello stato della crisi:

[…] per uno scrittore la situazione di crisi, – quando un dato rapporto col mondo, sul quale egli ha costruito il suo lavoro, si rivela inadeguato, ed è necessario trovare un altro rapporto, un altro modo di considerare le persone, la realtà delle cose, la logica delle storie umane, – è la sola situazione che dia frutto, che permetta di toccare qualcosa di vero, che permetta di scrivere proprio quello che gli uomini hanno bisogno di leggere, anche se non si rendono conto d’averne bisogno14.

logica del raccontare rilevate dal critico francese dallo studio del suo racconto L’avventura di un poeta (scritto da Calvino nel 1958 e poi ripubblicato nella raccolta Gli amori difficili nel 1970). Da questa lettera emerge chiaramente quanto, già prima della “svolta anni Sessanta”, la nota fondamentale della poetica calviniana fosse quella dello sguardo sul mondo, messo in scena attraverso i poteri performativi delle immagini costruite dalla parola letteraria; a questo proposito si riporta il passo saliente della lettera a Wahl, da cui è tratta la citazione: «Lei ha organizzato e sviluppato spunti di una mia metodologia della narrazione che io avevo solo accennato disorganicamente: che il mio punto di partenza sia l’immagine e che la narrazione sviluppi una logica interna dell’immagine stessa. Giustamente Lei osserva che questo processo logico portato alle ultime conseguenze a un certo punto si spegne e annulla in un terzo momento: quello della contemplazione. Questo è forse il mio limite […] Effettivamente questo processo deve corrispondere alla mia psicologia, al mio rapporto verso il mondo, e non posso esprimere altro che questo, giusto o sbagliato che sia. Insomma, quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro»; cfr. ibidem.

12

Nucleo tematico peraltro già anticipato precedentemente in Natura e storia del romanzo (1958): «Una resa dell’individualità, e volontà umana di fronte al mare dell’oggettività, al magma indifferenziato dell’essere non può non corrispondere a una rinuncia dell’uomo a condurre il corso della storia, a una supina accettazione del mondo com'è. Per questo vogliamo richiamarci ad una linea dell’ostinazione nonostante tutto che collega i più ardui esempi di atteggiamento verso il mondo che siamo andati tratteggiando, come alla lezione più priva d’illusioni e più carica ancora d’una forza positiva che possiamo trarre oggi dai libri e dalla vita»; cfr. Italo Calvino, Natura e storia del

romanzo, in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 46.

13

Cfr. Italo Calvino, Il mare dell'oggettività, in Id., Una pietra sopra, op. cit., p. 60. 14

Italo Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi (1961), in Id., Una pietra sopra, op. cit., pp. 77-78. Sintomatico di un’ormai indifferibile necessità di concepire in letteratura modalità alternative e più aggiornate, è pure la chiusura di questo scritto: «Insomma, se gran parte dei temi che parevano precipui del romanzo [leggi letteratura] ora sono fatti propri da altri strumenti di conoscenza, nessuno

Il punto di svolta teorico fondamentale, che rappresenta una tappa cruciale nel processo di strutturazione ed evoluzione di una spasmodica teoria della letteratura “per frammenti”15, sono le programmatiche e animate intenzioni espresse nel finale del forse più famoso saggio di Calvino, La sfida al labirinto (1962)16, in cui si vede riconosciuto alla letteratura il potere di riuscire a colmare la lacuna, tracciare la via d’uscita dalla crisi, anche se dovesse trattarsi del probabile transito da un labirinto ad un altro. Teorizzazione di una letteratura della sfida al labirinto dunque, assunta una volta ancora a incarnare la complessità sfuggente e la molteplicità conoscitiva del rapporto dell’uomo col mondo, del soggetto con la realtà; ideazione di una modellizzazione letteraria del reale che non può esplicarsi nella sua validità e plausibilità estetica e storica, se non attraverso la ricerca di una soluzione che passi imprescindibilmente per la fondazione di uno stile di pensiero capace di offrire una prospettiva diversa per lo sguardo sul mondo contemporaneo. Così, scrive Calvino, avviandosi alla chiusura del saggio:

Questa letteratura del labirinto gnoseologico-culturale […] ha in sé una doppia

possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la

di questi strumenti dà quello che la letteratura dava: però il romanzo è una pianta che non cresce sul terreno già battuto; deve trovare una terra vergine per piantare le sue radici. Il romanzo non può più pretendere d'informarci su come è fatto il mondo; deve e può scoprire però il modo, i mille, i centomila nuovi modi in cui si configura il nostro inserimento nel mondo, esprimere via via le nuove situazioni esistenziali. Qui soltanto forse possiamo riconoscere che la poesia non avrà mai fine, e così quel caso particolare di poesia che chiamiamo romanzo: la poesia come primo atto naturale di chi prenda coscienza di se stesso, di chi si guarda attorno con lo stupore d'essere al mondo»; cfr. ivi, pp. 82-83.

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Questo, di fatto, è ciò che Calvino viene componendo attraverso l’intensa attività di scrittura d’intervento saggistico fra gli anni Cinquanta e Sessanta.

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Cfr. Italo Calvino, La sfida al labirinto, in Id., Una pietra sopra, op. cit., in particolare pp. 110-117. Ripercorrendo le proposte prodotte dalle differenti anime dell'avanguardia dopo la seconda industrializzazione e volendo proporre una mappa aggiornata delle poetiche attuali, Calvino cerca di dimostrare come non soltanto la linea «viscerale» (del «coacervo biologico-esistenziale») ma anche quella «razionalista» dell'avanguardia (che trova la sua massima espressione in questi anni in Robbe- Grillet e a cui vanno pure senza dubbio le simpatie del nostro), con il suo «massimo sforzo di spersonalizzazione oggettiva», ripiega in ultimo, paradossalmente anch'essa, verso un finale approdo d'interiorizzazione. Quasi «archetipo delle immagini letterarie del mondo», il labirinto è la figura che meglio riesce ad incarnare la varia e stratificata complessità del reale: con la teorizzazione di una letteratura della sfida al labirinto, Calvino ritaglia per essa una dimensione meno limitante e più aperta, non avulsa dai «piani di conoscenza» di continuo presentati dallo sviluppo storico. E a chi, come Angelo Guglielmi (Una sfida senza avversari, in «Il Menabò», n.2, 1963, pp. 259-267; poi con il titolo Contro il labirinto Don Chisciotte combatte l'ultima battaglia, in Id., Avanguardia e

sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 63-74), ravvisa nelle battute conclusive del suo

discorso addirittura un «tono fideistico» (reputando il suo proposito, seppur nobile, inconsistente e velleitario), lo scrittore ribatte (provocatoriamente) che tra l'estetica dei "professori" hegeliani- lukácsiani e quella assunta da Guglielmi non corra in sostanza tanta differenza: tanto l'uno quanto l'altro atteggiamento, conducono a una eguale disfatta, concludono intonando l'ennesimo requiem per la letteratura. Per Calvino, invece, si tratta prima di tutto di rimettere in circolo l'idea di una positiva e «particolare intelligenza del mondo» che solo la letteratura può concedere (cfr. Italo Calvino,

Corrispondenza con Angelo Guglielmi a proposito della Sfida al labirinto, in «Il Menabò», n.2, 1963,

complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come vera condizione dell’uomo. Nello sceverare l’uno dall’altro i due atteggiamenti vogliamo porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono sempre distinguere con un taglio netto (nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e del gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via d’uscita)17.

E prosegue, a conclusione, dichiarando esplicitamente l’esigenza di una connotazione cosmica per un nuovo progetto di letteratura:

Oggi cominciamo a richiedere dalla letteratura qualcosa di più d’una conoscenza