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Conoscenza in progress

2. La partecipazione e l’insieme

L’accenno al surplus cognitivo di poc’anzi mi è utile per introdurre la questione della partecipazione e di come, attraverso un particolare approccio linguistico, sia possibile costruire un sapere anche con i linguaggi mediali, sebbene, come già riportato poco sopra, molti stu- diosi abbiano una visione inclinata al pessimismo a riguardo. Il web è certamente uno spazio in cui l’immagine e la ridondanza informativa17 sono quantitativamente molto presenti, al punto che è molto facile, ad esempio, perdersi alla ricerca di nozioni e di informazioni utili. In ef- fetti, è facile pensare – e verificare – che il medium interattivo coincida spesso con quello « che favorisce la lettura rapida, il pensiero distratto e affrettato, e l’apprendimento superficiale » (Carr, 2010, 143) e che « la Rete coinvolge tutti i nostri sensi [. . . ] e li coinvolge simultaneamente » e che « ci trasforma anche in cavie da laboratorio che continuamente schiacciano leve per ricevere minuscole pillole di nutrimento sociale o intellettuale » (145). Tuttavia, il web, a differenza dei media che l’hanno preceduto, ha in sé una potenzialità nuova, ossia di permettere una reale partecipazione ad atti linguistici collettivi che si tramutano in azioni collettive (sia virtuali sia, soprattutto, fisiche). Questo è uno dei risultati prodotti dalla VsG: la possibilità, cioè, di contribuire collabo- rativamente a una crescita sociale e culturale di un contesto umano, attraverso lo scambio e la diffusione di informazioni, oltre che di emo- zioni e di esperienze. È la natura dialettica del medium interattivo a fornire la possibilità di riflessione e di approfondimento, in una parola, di ragionamento e di co–costruzione condivisa: l’ambiente social è propriamente il luogo del cosiddetto Noolitico (Lévy,1997), cioè della 17. Sulla questione dell’immagine (e della rappresentazione in sé), tra gli altri, oltre alla basilare teoria “mimetica” platonica, rimando alle posizioni di Baudrillard (1996) e Sartori (2007) per quanto riguarda la riproduzione in generale e la televisione; per i rischi della comunicazione a Perniola (2004); per il surplus informativo, a Ferraris (2015).

nostra era tecnologica in cui il sapere può configurarsi come la base di una nuova identità collettiva in cui « gli uomini sognano, pensano e agiscono insieme » (169). È ancora una volta attraverso un processo linguistico, multicodico, che la “collettività social” può dare origine a un pensiero collettivo e tuttavia dinamico, non omologato o esclusiva- mente sinestetico, anestetico e ricorsivo, bensì vivo, istantaneo eppure frutto di ragionamento, di riflessione e di adattamento continuo18. Detto in altri termini, un pensiero collettivo e significativo.

Dal punto di vista della cultura partecipativa, mi sento di concordare con Shirky, quando afferma che « l’atomizzazione della vita sociale del Ventesimo secolo ci ha spinti così lontano dalla cultura partecipativa che, quando questa è riaffiorata, abbiamo avuto bisogno dell’espres- sione “cultura partecipativa” per descriverla » (Shirky,2010, cap. 1). Di fatto, l’essere online e partecipativo – con tutte le condizioni di esisten- za di cui ho detto prima – è già un modello di collettivizzazione, che consente all’utente di sviluppare una varietà di azioni e di comporta- menti attraverso una sempre maggiore possibilità di condivisione e di coinvolgimento, soprattutto se si considera anche la natura conver- gente dei media e dei diversi ambienti social (Ito et al.,2009). In effetti, la compresenza su più piattaforme consente di ampliare la diffusione e la potenziale “diffondibilità” (Jenkins et al., 2013) di un contenuto (o di un pensiero), facilitando la fusione di una posizione individuale in un magma collettivo. Ora, per realizzare un agire comune19, è impor- tante che ci sia uno stato di pensiero comune, cioè un desiderio o una credenza che possano motivare un’azione (o un modo di comportarsi, ecc. . . ). Per questo, mi rifaccio alla teoria sociale di Searle, che indivi- dua in una particolare tipologia di “intenzionalità”, quella collettiva, il punto di partenza di un sentire comune. Senza scendere troppo nel particolare, per intenzionalità Searle intende la « caratteristica generale della mente per cui la mente è “diretta (directed), o “riguarda” (is about)

18. Riprendendo le categorie accennate prima: un dialogo vivo, incalzante, frutto di una comunicazione tipicamente orale, eppure legata al segno grafico, alla scrittura, ossia alla tecnica che ha permesso, nel corso dei secoli di spazializzare la parola e di rendere possibile la crescita dell’individuo in quanto essere pensante e riflessivo, dotato di logos.

19. Il termine potrebbe avere accezione negativa. In questo caso, me ne servo quasi co- me sinonimo di “comunitario” e “collettivo”. Il “comune”, da questo punto di vista, indica cioè qualcosa che può essere di tutti e che, come tale, può prevedere una partecipazione e una conoscenza collettiva, anche basata su una pre–esistente familiarità e riconoscibilità.

o “si riferisce” (refers) a oggetti o stati di cose nel mondo che sono indipendenti da essa stessa » (2009, 63); in pratica, è l’abilità mentale di dirigere la propria attenzione verso qualcosa ed è lo stato mentale che sottende a ogni atto linguistico. Per Searle, « una persona pensa “noi intendiamo. . . ” e un’altra pensa “noi intendiamo. . . ”, ed è tutto nelle loro teste individuali [. . . ]. L’intenzionalità collettiva esiste nei cervelli individuali » (2009, 107). Ora, questa condizione della mente è un atteggiamento che spiega il perché noi compiamo delle azioni; tuttavia,

affinché la tua intenzionalità individuale sia parte dell’intenzionalità colletti- va, occorre che l’intenzionalità collettiva sia capace di muoverti, poiché se non è in grado di muovere corpi individuali non può fare nulla [. . . ]. L’in- tenzionalità collettiva deve muovere il tuo corpo, il che significa che devi avere un’intenzionalità individuale “derivata” da quella collettiva. (107–108)

È l’insieme che motiva e “muove” gli individui a compiere del- le azioni significative. Questo, a livello sociale, può spiegare come vengono individuate, scritte, riconosciute e rispettate le leggi di una società, oppure come un gruppo sociale riconosce in una persona il proprio leader. C’è sempre un’accettazione, o meglio una volontà collettiva di accettazione e riconoscimento di qualcosa o qualcuno con una particolare funzione per il bene del proprio gruppo. Tutti questi stati mentali si manifestano, attraverso il linguaggio, negli atti linguistici che effettivamente — per dirla con Heidegger — rendono visibili queste intenzioni. Mi pare così che i social media abbiano sem- plicemente risvegliato queste possibilità mentali (e i relativi atti) e reso possibile un nuovo stato collettivo, di fatto “rimediando” modelli di pensiero e sociali tipici della realtà. La base della cultura partecipativa è, dunque, da rintracciarsi anche in una risvegliata coscienza di un “saper fare” collaborativo e collettivo, con obiettivi che a questo punto sono anch’essi collettivi. Ogni utente può sentirsi parte di un tutto significativo, poiché « partecipare è agire come se la vostra presenza contasse, come se, quanto vedete o ascoltate qualcosa, la vostra reazio- ne facesse parte dell’evento » (Shirky,2010, cap. 1). È una condizione per certi versi sinestetica, cioè nuovamente “tattile”, che va contro l’a- tomizzazione cui accenna Shirky, nonostante il medium interattivo sia una tecnologia che può farci sentire “insieme, ma soli” (Turkle,2012). La cultura mediale partecipativa pare quindi essere una condizione

d’esistenza direttamente conseguente allo stato di iperconnessione quotidiana20, che permette di “esistere” e di “agire individualmente”, ma anche di sentirsi parte di una collettività che prova emozioni e che, per sua natura, agisce e modifica la propria natura e il proprio status.