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La rappresentanza politica nello Stato monoclasse borghese.

1.3. L’evoluzione storica del concetto di rappresentanza 1 La rappresentanza nell’antichità classica.

1.3.6. La rappresentanza politica nello Stato monoclasse borghese.

Nel corso del XIX secolo, il modello di rappresentanza politica proprio dell’esperienza liberale – nelle vari declinazioni dei principali ordinamenti

155 Così G. S

ILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Riv. dir. cost., 1996, n. 1, p. 25. SI v. anche V. MICELI, Saggio di una teoria della sovranità, Torino-Firenze-Roma, Vol. II, 1887, p. 589 ss.

156 Cfr. V. C

RISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (Note preliminari), in Rassegna Giuliana di diritto e giurisprudenza, 1954, ripubblicato in Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p. 97-98.

157 Così V. C

costituzionali europei – diverrà lo strumento attraverso cui garantire la tutela degli interessi – sostanzialmente omogenei – propri dell’emergente classe borghese 158, con il conferimento di un’ampia autonomia a rappresentanti eletti

attraverso un suffragio ristretto alla “sanior pars” del corpo sociale 159.

Gli elementi caratterizzanti tale modello rappresentativo – rappresentanza nazionale e divieto di mandato imperativo – si prestavano, infatti, a conferire al rappresentante grandi spazi di indipendenza e discrezionalità nell’esercizio delle proprie funzioni: da un lato, come visto, il riferimento alla Nazione – o allo Stato – in quanto “entità astratta” 160, rendeva difficilmente “controllabile”,

per così dire, l’effettiva rispondenza del suo operato alla “volontà nazionale”, della quale, anzi, egli si faceva migliore – e pressoché unico – interprete; dall’altra parte, l’assenza di vincolo di mandato lo rendeva sostanzialmente immune da “influenze esterne” – ma anche dalle istanze del corpo sociale – limitando la stessa responsabilità politica, che costituiva un’ipotesi meramente astratta ed evanescente 161.

158 Cfr. C. M

ORTATI, Commentario della Costituzione italiana, op. cit., p. 25-26.

159 È vero infatti, che le Costituzioni liberali, riconobbero formalmente il diritto di voto e

sancirono il principio fondamentale della partecipazione politica dei cittadini all’esercizio dei poteri pubblici – sancito a partire dall’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino, che riconosce che “La legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere personalmente o con i loro rappresentanti alla sua formazione” – e, tuttavia – a partire dalla Costituzione francese del 1791 – introdussero anche la divisione tra cittadini attivi e cittadini passivi – in funzione di criteri fondati sulla capacità contributiva e sulla proprietà – con ciò limitando grandemente l’effettiva partecipazione del popolo al circuito di legittimazione democratica.

160 E infatti, l’autonomia del rappresentante non può che guadagnare margini ulteriori a fronte

della “identificazione del popolo/Nazione con una entità astratta, priva di una vera capacità di esercitare la sovranità attribuitagli se non per mezzo di una delega ai rappresentanti” (così G. MOSCHELLA, Rappresentanza politica e costituzionalismo, op. cit., p. 51).

161 È chiaro come entrambi i principi – quello della rappresentanza nazionale e del divieto di

mandato imperativo – siano istituti fondamentali nella storia e nello sviluppo del circuito rappresentativo – per come impiegato anche nei moderni ordinamenti liberal-democratici propri delle società pluraliste – e, tuttavia, ciò non toglie che il loro impiego nel corso del XIX secolo si sia prestato, in concreto, all’affermazione del controllo egemone della borghesia sulle

Mentre il divieto di mandato imperativo svolgerà il ruolo di principale garanzia a tutela dell’effettiva autonomia decisionale del Parlamento e dei suoi componenti, la rappresentanza della “Nazione” confermerà, ancora una volta, lo stretto legame tra rappresentanza politica e “fictio iuris”: in questo caso, la personificazione del concetto di Nazione – tra le altre cose – svolge la funzione di legittimare un governo rappresentativo che, di fatto, è espressione di una cerchia relativamente ristretta di cittadini 162 e fonda un sistema sostanzialmente

oligarchico, in cui i diritti politici sono ancora detenuti dagli appartenenti ad un’unica classe sociale omologa 163.

Così, pur affermandosi – formalmente – il principio della rappresentanza generale dell’Assemblea parlamentare, quest’ultima si limiterà a rappresentare – effettivamente – soltanto una parte del popolo, la classe borghese.

Interprete privilegiato di una “volontà nazionale” altrimenti imperscrutabile diventa, pertanto, il Parlamento, vero detentore – di fatto – della sovranità 164.

Anche i singoli parlamentari – in quanto espressione del ceto dominante – interpretano il proprio ruolo in chiave “personalista”: l’esistenza stessa di un “rapporto rappresentativo” risulta quanto meno una superfetazione, laddove il singolo rappresentante – essendo egli stesso un membro della classe borghese,

istituzioni.

162 Secondo la concezione – tipica delle prime Costituzioni liberali – già vista nel caso della

c.d. “teoria della rappresentanza virtuale”, di matrice anglosassone.

163 Infatti, se, da un lato, si realizzava il superamento – formale – delle divisioni cetuali e

territoriali verso una comune rappresentanza politica paritaria, dall’altro lato si era ben lungi da un’apertura ad una legittimazione propriamente democratica della rappresentanza politica. D’altra parte, a fronte della limitata base elettorale, lo Stato liberale-oligarchico del XIX Secolo si caratterizzava per un alto grado di “rappresentatività”, data la sostanziale omogeneità di interessi tra elettori e rappresentanti.

164 Così N. BOBBIO, Rappresentanza e interessi, in Rappresentanza e democrazia, a cura di G.

PASQUINO, Roma-Bari, 1988, p. 15, secondo cui, in particolare, il raggiungimento della possibilità di deliberare in seno all’assemblea legislativa senza vincolo di mandato costituisce l’ultimo passaggio del processo di concentrazione all’interno del Parlamento del potere sovrano nello Stato moderno.

caratterizzata da interessi e da un sostrato culturale e valoriale comune e sostanzialmente condiviso 165 – ha ben presente di quali istanze farsi portatore e di come tutelare al meglio l’“interesse nazionale” 166.

Da qui il rilievo della “finzione” celata dietro il modello rappresentativo liberale, nel quale “una sola frazione della società opera uno scambio tra i

propri interessi e quelli generali, ponendo se stessa come classe generale” 167.

Sicché, la dottrina giuridica liberale, attribuisce al momento elettorale la funzione di “scelta” e di “selezione” del miglior rappresentante, e non anche l’inizio di quel rapporto rappresentativo che lega il rappresentante ai suoi elettori, conferendogli un vero e proprio “mandato politico”: di conseguenza, le elezioni costituiscono il termine – e non il principio – del rapporto rappresentativo e la rappresentanza politica, pertanto, intesa quale “situazione di fatto” e non certo come dinamica tendenzialmente dialogica tra

165 Cfr. C. M

ORTATI, Note introduttive a uno studio sui partiti politici nell’ordinamento italiano, in Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, Padova, 1957, vol. II, p. 136 la configurazione del ruolo del rappresentante, in epoca liberale, “sulla base dell’indipendenza di giudizio del singolo rappresentante e dell’insindacabilità delle sue opinioni appare espressione del carattere oligarchico assunto dal regime, con il monopolio del potere politico da parte di una sola classe rivolta alla soddisfazione di interessi sostanzialmente omogenei”. 166 Nella dottrina italiana, così ad esempio V.E.O

RLANDO, Principii di diritto costituzionale, Firenze, 1905, p. 84: “egli – il rappresentante – conserva una piena indipendenza di opinioni e di condotta, o, in altri termini, egli non rappresenta che sé stesso”; A. SALANDRA, La dottrina della rappresentanza personale, in Archivio giuridico, 1875, XV, p. 201: “Il deputato non rappresenta i suoi elettori; rappresenta, se si concede l’espressione solamente sé stesso, cioè il suo carattere, la sua onestà, la sua dottrina, la sua ricchezza, la sua potenza, la sua nascita”.

167 Così G. Z

AGREBELSKY, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Torino, 1984. Ad ogni modo, l’affermazione del diritto – costituzionale – a concorrere alla formazione della volontà generale riconosceva formalmente ai cittadini la possibilità di partecipazione politica: per la prima volta nella storia veniva sancito il diritto costituzionale alla rappresentanza politica, individuata quale via maestra per poter partecipare attivamente al governo degli affari pubblici. Allo stesso tempo la rappresentanza politica così intesa era la rappresentanza della Nazione una e indivisibile, cioè una rappresentanza che non poteva più essere divisa fra gli ordini e gli Stati su cui si fondava il vecchio ordine: unità, quindi, in ragione della distruzione di differenze e privilegi, in funzione dell’eguaglianza. Era un’eguaglianza però, come si è detto, limitata all’interno di una sola classe, quella borghese.

rappresentanti e rappresentati 168.

La stessa rappresentanza della Nazione, all’interno delle Costituzioni dell’epoca, non è prerogativa del popolo tout court ma, semmai, della “sanior

pars” del popolo – alla luce dei rigidi limiti ancora imposti al suffragio elettorale

– e del Monarca – secondo un impianto fondamentalmente “dualistico” che troverà ampia diffusione nelle Costituzioni liberali ottocentesche.

Nonostante il ruolo del Sovrano abbia ancora una valenza fondamentale all’interno delle monarchie costituzionali di epoca liberale, tuttavia, è il Parlamento a divenire sempre più il vero centro della rappresentanza politica, quale sede istituzionale nella quale prende forma la stessa volontà nazionale – secondo il modello del c.d. government by discussion 169 – ormai nettamente

separato dal tessuto pluralistico della società 170.

1.3.7. L’eclissi dello Stato monoclasse: verso le nuove forme della