Forme di tecnologia ed innovazioni della quarta rivoluzione industriale
3.1 La rivoluzione digitale (tecnologie emergenti)
Parlando della globalizzazione (1.1), si è già in parte discusso del grande sviluppo tecnologico ma anche digitale che ha originato, e che si è diffuso tramite questo
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fenomeno. Come effetto culminante di questi sviluppi, si può parlare di rivoluzione digitale, che ha il suo vero e proprio punto di inizio nel 2011 in Germania17, ma affonda le radici già nei primi anni duemila18. La nascita di alcune di queste tecnologie risale alla fine degli anni ’50, con i primi computer e memorie digitali. Con il termine rivoluzione digitale o informatica, in senso stretto, si intende il passaggio dalla meccanica ed elettronica analogica, all’elettronica digitale (Saggio A., 2007). Il digitale permette una rappresentazione numerica dei dati e di poter operare con essi tramite computer, PC, smartphone. Inoltre la digitalizzazione permette oggi un accesso all’informazione con apparecchiature a basso costo. All’inizio del XXI secolo risale la nascita e lo sviluppo della cosiddetta New Economy (Kelly, 1998), che si appoggia appunto sullo sviluppo informatico. La caratteristica principale è quindi l’informazione (Grinin L.,2006). Con la New Economy ci si distacca dall’economia prettamente industriale e legata alle sedi fisiche ed al lavoro manuale o tradizionale, e si passa ad un mercato globale e virtuale (possibile grazie alla rete) ed ad un lavoro informativo, che richiede anche nuove competenze (Rifkin J., 2000). Vi è, quindi, il passaggio da un’economia basata sul patrimonio industriale-produttivo e quindi sulla produzione manifatturiera, ad un’economia dei servizi (immateriale). Quest’ultima si basa sull’informatizzazione dei processi di produzione e scambio, su di una forza lavoro altamente qualificata, e sull’e- commerce possibile grazie a piattaforme informatiche e digitali (Anderson C., 2009). Grazie alle nuove tecnologie, nascono nuove frontiere di commercializzazione e si sviluppa un nuovo settore economico, quello dell’informazione (informatica e telecomunicazioni) (Castells M., 2006).
17 Fonte dati: Licini G., “Ocse L’Italia in Coda nell’Economia Digitale”. Il sole 24 ore,11/10/2017. 18 L’inizio dell’era digitale è indicato convenzionalmente dal 2002, anno in cui la quantità di informazioni
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Dalla grande quantità di dati ed informazioni resi disponibili dalla rivoluzione digitale e dalla possibilità di ogni soggetto, dotato di apposita tecnologia, di poterli sfruttare per crescere ed affermarsi nel proprio business, prendono forma i cosiddetti Big Data. Questi sono: un patrimonio informativo di elevato volume, grande velocità e varietà, che richiede forme innovative ed efficienti di interpretazione dei dati, per poter dare un valido contributo ai processi decisionali e all’automazione dei processi19. Quando si parla di
rivoluzione dei Big Data, infatti, non ci si riferisce alla sola messa a disposizione di questi dati, quanto alla capacità di saper utilizzare queste informazioni. Questo significa: raccoglierle, saperle interpretare, analizzarle ed implementarle nel modo opportuno all’interno della propria realtà aziendale (Bankewitz M., Aberg C., Teuchert C., 2016). I Big Data hanno varie caratteristiche (Bankewitz M., Aberg C., Teuchert C., 2016 citati da Papini D., 2017):
• Il volume: ovvero la grande mole di dati disponibili in rete, e in questo caso parliamo di un effetto puramente quantitativo;
• La velocità: con tale termine ci riferiamo alla rapidità con la quale vengono generati nuovi dati. Il XXI secolo, forza le aziende ad operare con un elevato livello di tempestività, ponendo particolare attenzione alle funzioni di analisi e raccolta delle informazioni, inoltre, le imprese, devono dimostrarsi capaci di assimilare questi dati in tempo reale;
• La varietà: rappresenta la diversa provenienza dei dati, interni all’azienda e facilmente interpretabili, oppure esterni, che risultano senza alcun dubbio, di più difficoltosa interpretazione;
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• La variabilità: l’alta volatilità del flusso informativo, infatti, si assiste ad un’ampia irregolarità dei trend dei dati, in cui a periodi con elevato flusso di informazioni si susseguono intervalli negativi con bassa circolazione dei dati;
• La viralità: considera la rapidità con la quale i Big Data riescono a diffondersi all’interno della Rete. Infatti, attraverso Internet un fenomeno riesce a circolare ad una velocità straordinaria, prendendo così il termine di “virale” e creando conseguenze all’interno della Rete (si pensi, ad esempio, ai video o ai commenti sui social);
• La complessità: la grande variabilità e quantità dei dati, non aumenta solo la difficoltà di raccolta, ma anche quella di gestione di questi. Le diverse tipologie di dati devono passare attraverso un processo di omologazione per poter essere utilizzate, e tutto questo si traduce in una maggiore complicazione nelle funzioni di interpretazione, conversione e implementazione (Bhardwaj A. El Sawy O.A., Pavlov P.A., Venkatraman N., 2013);
• La veridicità: un dato per poter essere correttamente utilizzato deve soddisfare determinati criteri di attendibilità. Prima di poter implementare le informazioni all’interno dell’organizzazione è necessario ricercare garanzie sulla qualità di queste.
Se ben organizzato, però, lo sfruttamento dei Big Data rappresenta un’opportunità fondamentale per ottenere nuovi vantaggi sia in ambito strategico sia in ambito logistico con una notevole diminuzione dei costi.
Con l’implementazione digitale, è nato anche il termine Internet of Things (IoT), attraverso il quale ci si riferisce alla possibilità di collegare qualsiasi congegno, macchinario e apparecchio elettronico alla rete, permettendogli di comunicare e scambiare informazioni, in entrata ed in uscita, con qualsiasi altro dispositivo connesso
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alla rete (Bhardwaj A. El Sawy O.A., Pavlov P.A., Venkatraman N., 2013 citato da Papini D., 2017). Il collegamento tra questi oggetti è reso possibile dall’installazione di apparecchi (sensori), la cui abilità consta nel raccogliere tutte le informazioni su essi e sull’ambiente che li circonda e nel saperle trasferire prontamente ai soggetti interessati. Era impossibile raccogliere questo tipo di informazioni prima della nascita dell’IoT. Si assiste quindi allo sviluppo di nuove forme di interazione attraverso rapporti uomo- macchina più complessi e, attraverso gli ancor più innovativi, rapporti macchina- macchina, capaci di trasformare le diverse fasi della catena in un unico processo produttivo continuo. Fondamentale per la realizzazione dell’IoT, è la possibilità di utilizzo di reti wireless a banda larga e ad alta velocità, senza le quali un collegamento sarebbe impensabile o radicalmente circoscritto ad un’area ridotta. Ad esempio, ogni cliente, avendo la possibilità di comunicare i propri dati ed opinioni tramite i propri dispositivi, obbliga i produttori a sviluppare importanti iniziative di CRM (Customer Relationship Management), ponendo questi al centro di ogni azione ed in ogni fase del processo. Assumono, dunque, un’importanza vitale le strategie di differenziazione, in quanto la progettazione deve essere programmata in base ai gusti dei consumatori; la distribuzione di questi prodotti deve soddisfare requisiti logistici, spesso arrivando a sviluppare anche pratiche di consegne a domicilio; e necessaria risulta la funzione marketing, che dovrà riuscire a creare campagne pubblicitarie mirate e tempestive. I benefici derivanti dall’IoT sono molti, oltre al ruolo del consumatore, come già detto, che risulta rafforzato, vi sono vantaggi legati alla possibilità di poter usare le connessioni tra gli apparecchi nella quotidianità di ogni soggetto (ad esempio, coordinamento degli elettrodomestici pur non essendo fisicamente nel luogo dove questi si trovano), e nelle attività come il controllo del traffico in una città, dell’energia in un’azienda, dell’inquinamento nelle megalopoli. Vi sono però anche aspetti di criticità, oltre a quelli
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legati alla connessione di rete, infatti si rilevano grandi rischi per quanto riguarda gli aspetti legati alla sicurezza dei dispositivi. Questo perché essi sono connessi alla rete, e quindi soggetti anche ad atti di manomissione (hackeraggio). Ulteriore rischio è quello legato alla tutela dei dati personali e della privacy, e quindi all’uso improprio di questi dati da parte di terzi. Questi sono i rischi legati alla cybersecurity, sul cui tema, però, non si entra in merito.
Tra tutti i campi in cui è possibile implementare una tecnologia IoT, quello che è stato maggiormente investito da tale fenomeno e con il più ampio margine di innovazione è sicuramente quello industriale (Papini D., 2017). Con il termine Smart Manufacturing (produzione intelligente) si può intendere l’adozione di tecnologie digitali, le quali sono capaci di aumentare la cooperazione ed il collegamento e delle risorse usate nei processi operativi-industriali, e quelle distribuite lungo la value chain (catena di valore) e quelle interne alla fabbrica. Questa cooperazione dovrebbe permettere alle imprese di ottimizzare tutti i processi interni ed ottenere vantaggi in termini di efficienza produttiva aumentando la produttività e riducendo costi e scarti di produzione. Per poter ottenere tali vantaggi è necessario riuscire a sfruttare non solo la grande quantità di dati oggi a disposizione sulla rete ma anche, in modo tempestivo, tutte le informazioni interne riguardanti ogni fase (Bankewitz M., Aberg C., Teuchert C., 2016).
Per portare un esempio, in ogni fase aziendale dovranno essere presenti macchinari che, grazie alla presenza di sensori installati su ognuno di essi, saranno capaci di acquisire ogni tipo di dato e comunicare con ogni tipo di dispositivo. Inoltre i macchinari dovranno sapere analizzare i dati rilevati per poter estrapolare informazioni utili e, se necessario, essere capaci di apportare anche modifiche.
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La trasformazione interna, che potrebbe essere apportata dalle nuove tecnologie abilitanti, è accompagnata da una nuova visione strategica, sempre alla ricerca di una maggiore flessibilità. La possibilità di tenere sotto controllo il ciclo di vita dei macchinari, insieme ad una migliore gestione del personale, permetterebbe di ridurre eventuali guasti ed ottimizzare le scorte ed i tempi di inattività. Questo dovrebbe essere integrato anche con una migliore gestione dei processi decisionali. La maggiore velocità, legata ad una buona funzione di marketing, darebbe la possibilità ai produttori di sfruttare un più ampio ventaglio di possibilità, creando strategie mirate sui consumatori e rendendo così più forte la propria immagine.
L’ingresso della tecnologia Smart nelle aziende però non è semplice, deve affrontare degli ostacoli di varia natura, come l’insufficiente livello di competenze digitali all’interno (determinato da variabili socio-culturali). Ed ancora la scarsità di infrastrutture e di impianti adatti alle nuove esigenze, e, soprattutto, la mancanza di budget per poter effettuare investimenti in questo campo e colmare, così, tali lacune.
Volendo contestualizzare la diffusione e lo sviluppo della tecnologia a livello nazionale, sussistono alcuni fattori negativi da tenere in considerazione. Infatti, oltre alla Germania, che ha dettato gli standard della rivoluzione, è possibile stilare una classifica, tra i paesi che hanno intrapreso una rivoluzione digitale. USA e Paesi nord europei si posizionano ai primi posti20, subito dietro i Paesi asiatici in via di sviluppo (Cina e India su tutti), mentre l’Italia si colloca solo al venticinquesimo posto. Per poter implementare ogni tipo di supporto digitale, è vitale una connessione alla rete internet, veloce e a banda larga, e purtroppo ancora una volta, l’Italia denota una carenza di queste strutture, posizionandosi tra gli ultimi posti, in Europa, in merito a questi requisiti. Dai dati Ocse del 2017
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emergono situazioni che denotano ancora un certo ritardo per quanto riguarda un vero e proprio sviluppo digitale e tecnologico italiano. Infatti, gran parte delle imprese italiane investono risorse in R&S (Ricerca e Sviluppo) pari allo 0,76% del PIL, contro ad esempio il 2% delle concorrenti tedesche, o il 3,6% delle aziende di Israele, che guidano la graduatoria davanti a Corea e Giappone. Le imprese italiane dedicano, inoltre, all'ICT Iinformation and Comunication Technology) solo il 14% della spesa totale in R&S, contro il 75% della Cina, il 53% della Corea, il 45% di Israele e il 35% degli Usa. La posizione della Penisola scende ulteriormente in 'classifica', se si considera il valore aggiunto del settore ICT rispetto al valore aggiunto totale, che nel 2015 era pari al 3,6%, e, quindi, in calo rispetto al 4,1% del 2008 ante-crisi, e inferiore alla media Ocse del 5,4% (la Corea, prima della graduatoria, ha un valore pari al 10,3%). Anche sul fronte dell'occupazione, l'ICT italiano è sotto la media Ocse (2,5% del totale contro il 3% circa), valore che si è mantenuto comunque stabile rispetto al periodo pre-crisi; ciò dimostra la resilienza del settore in tempi difficili. L'impatto della recessione si è, invece, avvertito nell'export di servizi ICT, dove la quota italiana è scesa dal 2,54% del totale mondiale del 2008 all'1,9% del 2016. L'Italia recupera qualche posizione, però, se si considerano esclusivamente le telecomunicazioni: gli investimenti nel settore nel corso del 2015 erano pari al 23% degli introiti, in crescita dal 17% del 2013 e sopra la media Ocse (16%). I sottoscrittori della banda larga fissa sono sotto la media Ocse. Tornando all’ambito delle imprese, il campo digitale resta per una congrua parte un terreno poco praticato, anche se non mancano i progressi: solo il 71% delle aziende italiane nel 2016 aveva un sito web o una home page (il 69% nel caso delle piccole aziende) contro la media Ocse del 77% e contro valori attorno o superiori al 90% degli altri big occidentali (Finlandia 95% e Germania 89%). Nel 2010, comunque, la percentuale si fermava al 61%. L'Italia è decisamente a fondo classifica tra i Paesi industrializzati nell'utilizzo di internet: naviga
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in Rete meno del 69% della popolazione contro la media Ocse dell'84%, con percentuali inferiori agli altri Paesi anche tra i più giovani (il 90% tra i 16-24enni contro il 96,5% Ocse) si tratta di un divario ancor più evidente nella fascia d'età più avanzata (42% tra i 55-74enni contro il 63% Ocse). Soltanto Messico, Turchia e Brasile hanno percentuali inferiori. L'e-government resta, poi, quasi un miraggio rispetto ad altri Paesi: solo un cittadino italiano su 4 se ne avvale contro, ad esempio, l'88% dei danesi, il 66% dei francesi e il 49% de greci. E solo il 12% ha usato l'e-government per inviare formulari compilati a differenza, ad esempio, del 23% della Turchia. L'Italia si posiziona negli ultimi posti, tra i maggiori Paesi, riguardo l'uso quotidiano di internet al lavoro, per l’invio o la ricezione della posta elettronica o per le ricerche sul web.