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La quarta rivoluzione industriale e l'impatto dell'automazione sull'occupazione nei paesi avanzati

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Academic year: 2021

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La Quarta Rivoluzione Industriale e L'impatto

Dell'automazione Sull'occupazione Nei Paesi

Avanzati

INDICE

Introduzione

1) Gli effetti della globalizzazione e della tecnologia sul lavoro

1.1) La globalizzazione

1.2) Le fasi e gli strumenti della globalizzazione 1.3) Vantaggi comparati e tecnologia

1.4) Il rapporto tra la globalizzazione e la tecnologia 1.5) Globalizzazione e tecnologia: effetti sul lavoro

2) Progresso tecnologico: storia economica delle rivoluzioni

industriali

2.1) L’innovazione

2.2) Prima rivoluzione industriale 2.3) Seconda rivoluzione industriale 2.4) Quadro storico

2.5) Terza rivoluzione industriale

3) Forme di tecnologia ed innovazione della quarta rivoluzione

industriale

3.1) La rivoluzione digitale (tecnologie emergenti)

3.2) L’industria 4.0 e la quarta rivoluzione industriale (tecnologie emergenti) 3.3) I rischi e l’opportunità dell’automazione

3.4) Gli effetti recenti dell’innovazione tecnologica: alcune evidenze empiriche 3.5) Ostacoli all’adozione dell’automazione e della robotica

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4) Nuove tecnologie e posti di lavoro, un’analisi sulla base della

letteratura esistente ed alcune estensioni

4.1) Principali metodi di analisi dell’impatto dell’automazione

sull’occupazione (occupational-based approach vs task-based appro 4.2) Metodologie di ricerca 4.3) Risultati e commenti 4.4) Valutazioni finali

Conclusioni

BIBLIOGRAFIA

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Introduzione

La tesi tratta il tema delle nuove tecnologie e il loro impatto sul fenomeno occupazionale. Nel corso del primo capitolo vengono discussi i temi riguardanti la globalizzazione e la tecnologia, illustrando il loro impatto sul lavoro. Effetto sul lavoro diverso, anzi quasi opposto, ma simile sul piano della perdita di posti di lavoro. Tali fenomeni hanno anche stravolto la percezione dello spazio e del tempo, accorciando le distanze e senza più vincoli temporali si è concretizzato un mondo di opportunità come di cambiamenti. Inoltre i due fenomeni sono reciprocamente legati, lo sviluppo di uno porta alla crescita dell’altro e viceversa.

Il secondo capitolo illustra il significato di innovazione e cosa si intende come tale, e successivamente analizza le tre rivoluzioni industriali. L’approfondimento delle rivoluzioni mette in luce le tecnologie da esse apportate ed il cambiamento e l’evoluzione di alcuni settori lavorativi.

Il capitolo centrale, inizia mettendo in evidenza le tecnologie emergenti (Big Data,

Internet of Things, Intelligenza Artificiale, robotica). Successivamente l’accento viene

posto sui rischi ed sulle opportunità che l’automazione può apportare all’interno del mercato lavorativo. Risultati sostenuti dall’apporto di alcuni studi. Vengono, in seguito, specificati i “colli di bottiglia” (bottlenecks) dell’automazione, ovvero le aree non ancora automatizzabili. Infine, la riflessione volge sull’ambito lavorativo e sulla maniera, nuova, a causa dell’automazione, con la quale l’uomo deve rapportarsi con il lavoro.

Nel capitolo finale vengono discusse le due principali metodologie, ad oggi utilizzate, per la stima dell’impatto dell’automazione sull’occupazione. In seguito, vengono spiegati i modi attraverso il quale partendo dai dati presi da due studi (Frey ed Osborne 2017, McKinsey Global Institute 2017), si arrivi ai risultati presenti nella tesi. Risultati che

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vengono esposti e commentati, ispirando poi delle riflessioni sull’automazione e sulla nuova accelerazione tecnologica in divenire.

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CAPITOLO 1

Gli effetti della globalizzazione e della tecnologia sul lavoro

In questo capitolo verrà trattato l’argomento della globalizzazione, in quanto questo fenomeno, presenta un rapporto di reciprocità con la tecnologia. Infatti, se da un lato lo sviluppo delle tecnologie ha favorito la globalizzazione, dall’altro quest’ultima ha implementato la diffusione mondiale dell’avanzamento tecnologico, esteso anche alla produzione. Sarà successivamente analizzata la differenza dell’effetto sul lavoro determinato dalla tecnologia rispetto a quello definito dalla globalizzazione.

1.1 La globalizzazione

Il termine globalizzazione è stato coniato intorno agli anni quaranta del ventesimo secolo1, il processo ha cominciato a consolidarsi intorno agli anni ottanta, divenendo un trend tecno-economico ed un termine di uso comune a partire dagli anni novanta. La globalizzazione è un fenomeno che riguarda la progressiva apertura dei mercati, e che condiziona tutte le economie nazionali. Globalizzazione è un termine adoperato, di fatto, per indicare un insieme assai ampio di aspetti, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo.2 È, però, difficile dare una definizione unica e completa della locuzione globalizzazione, in quanto, trasversalmente, coinvolge ed influenza moltissimi ambiti, cambiando anche la concezione sia di tempo sia di spazio e la percezione di quest’ultimi in tutto il globo. Una delle possibili

1 "Globalization" viene utlizzato per la prima volta in una pubblicazione del 1930, intitolata "Towards New Education", dove denotava una visione olistica dell'esperienza educativa umana, Zhou, B. L. (2011).

2 Theodore Levitt, già professore di Harvard è stato il primo ad utilizzare la parola "globalizzazione"

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definizioni della globalizzazione è: “la tendenza dell’economia ad assumere una dimensione globale” (De Benedictis ed Helg, 2002 citati da Della Posta, 2007). Il fenomeno funge da mezzo di connessione tra ambiente globale e spazio locale (glocalizzazione), ovvero, denota un rafforzamento delle interazioni sociali e delle relazioni a livello globale, tale per cui, eventi che interessano aree geograficamente remote hanno riflessi nel contesto a livello locale e viceversa. Questo concetto rappresenta quindi, una reinterpretazione della scala dei rapporti sociali, dalla sfera economica a quella della sicurezza, che vengono proiettati in una dimensione transnazionale e transcontinentale; si tratta di una dilatazione delle attività sociali, politiche ed economiche che travalicano le frontiere spazio-temporali (Manfred B. S., 2016). Inoltre, la globalizzazione fa emergere, un’intensificazione delle interconnessioni commerciali, economiche, sociali ed ecologiche, ma anche, una accelerazione dei processi transfrontalieri, in riferimento non solo al movimento di notizie, idee, merci, informazioni, ma anche allo spostamento di capitali e tecnologie, da una parte all’altra del pianeta. Alcuni dei principali elementi caratteristici relativi al tema in questione sono:

• La creazione di nuove reti sociali (moltissime per quanto riguarda il settore del commercio);

• L’espansione ed estensione di relazioni pubbliche e private;

• L’intensificazione e l’accelerazione degli scambi ed anche delle attività di ogni tipo;

• Il coinvolgimento sia di macrostrutture, tipiche di una comunità globale, sia di microstrutture;

• La nascita della “personalità globale”, che supera i confini dello spazio e del tempo, facendo riferimento sia all’aspetto oggettivo sia a quello soggettivo.

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Con questo processo si assiste, quindi, ad un’interazione globale nei campi culturali e comunicazionali, economici e finanziari, tecnici e scientifici. Secondo Manfred B. Steger3 (2016), si tratta di un processo ineguale che rimanda ad aspetti quali il dinamismo, lo sviluppo e la trasformazione (lenta o veloce che sia), che però si manifestano in modo diverso in ogni parte del mondo. La globalizzazione pur avendo grandi potenzialità, ha aumentato il divario tra i paesi industrializzati e non del globo. (Steger, 2016).

1.2 Le fasi e gli strumenti della globalizzazione

Dopo aver fornito un quadro generale rispetto a caratteristiche e definizioni della globalizzazione, sarà tracciato il percorso di questo fenomeno (fasi) e verrà descritto il modo in cui le nuove istituzioni si son adattate ed hanno reagito, fino a soffermarci sugli accordi creati e affermatisi nel tempo, fino ad oggi.

È possibile definire il periodo odierno, come una fase della globalizzazione, essa però può essere schematizzata e sintetizzata in tre fasi distinte (Della Posta, 2007).

La prima fase si può fare risalire alla fine del XIX secolo e concludere prima della Grande Guerra. Durante questo periodo il fenomeno è caratterizzato da:

• Scambi commerciali tra Nord e Sud del mondo, riguardanti i paesi industriali e le loro colonie;

• Ingenti movimenti migratori, si consideri infatti che in questa fase circa il 10% della popolazione mondiale si è spostata;

• Investimenti di capitali verso l’estero a lungo periodo, soprattutto verso settori quali l’agricoltura, le estrazioni, e anche verso l’industria ferroviaria.

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La seconda fase, inizia alla fine della Secondo Guerra Mondiale e termina negli anni ’70 (periodo nel quale si definisce poi la terza fase). Gli elementi caratterizzanti sono:

• Scambi commerciali tra i paesi industrializzati (Nord-Nord), il rapporto tra esportazioni e Pil cresce dal 5,5% del 1950 al 10,5% del 1973;

• Riduzione dei movimenti migratori, che però ancora persistono ma verso direzioni intra-europee;

• Assenza di movimenti di capitale.

L’ultima fase, quella odierna, è iniziata negli anni ’80 del secolo scorso. Gli aspetti da prendere in considerazione sono:

• Un aumento degli scambi commerciali tra i paesi industrializzati e anche con i paesi asiatici di nuova industrializzazione (sud-est asiatico, Cina, India), la quota di esportazione dei paesi asiatici più che quadruplica in quarant’anni fino ad arrivare al 32.2% nel 1998, ed a livello mondiale, nello stesso anni, il rapporto tra esportazioni e PIL è del 17.2%;

• Una netta restrizione dei movimenti migratori;

• La liberalizzazione dei movimenti di capitale, che avvengono soprattutto a breve termine, aumentano gli scambi valutari e crescono gli investimenti diretti verso l’estero (rapporto investimenti-PIL nel 2000 è 7,6% contro lo 0,9% del 1982). La Globalizzazione indica il passaggio da un mondo composto da stati nazionali distinti ma interdipendenti, ad uno inteso come spazio sociale, politico, economico, culturale condiviso. Antecedentemente a questo processo, infatti, i mercati erano nazionali e soggetti, da parte degli stati, al protezionismo. Con l’internazionalizzazione, invece, i rapporti tra le varie nazioni si intensificano e si assiste ad una liberalizzazione dei mercati, ovvero ad un’unificazione di questi a livello globale. Lo stato infatti perde il ruolo di

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regolatore economico, dato che le frontiere si vanno dissolvendo. La globalizzazione economica, quindi, porta come conseguenza anche un globalismo giuridico, che si contrappone alla perdita di sovranità da parte degli stati, che non hanno potere legislativo al di fuori dei propri confini.

Con l’avvento della globalizzazione, e principalmente negli ultimi venticinque anni, ci sono stati dei cospicui potenziamenti delle regolamentazioni ultra nazionali e delle discipline transazionali (con particolare riferimento al commercio internazionale ed al mercato finanziario). Sono stati creati organi di competenza rilevanti in materia economica come il FMI (Fondo Monetario Internazionale), il World Trade Organization (WTO o OMC che è un vero e proprio ordinamento giuridico) e la Banca Mondiale. Vi sono anche degli organismi sovranazionali come l’UE in Europa, il NAFTA in Nord America, ed il Mercosur (o Mercosul) in Sud America, per citare i più importanti. L’insieme di tutte le misure, private e pubbliche, quali regolatori o decisori nazionali che operano in contesti ultra nazionali, regolatori di diverse nazioni, entità ibride composte da soggetti pubblici e privati, costituisce, quello che può dirsi: il diritto globale dell’economia. Con il WTO l’estensione del commercio globalizzato viene condizionata dalla liberalizzazione dei movimenti dei capitali, lo spostamento dei capitali, quindi è libero, e la strumentalità della circolazione monetaria rispetto a quella delle merci e dei servizi viene formalmente rimossa. Il WTO costituisce il punto culminante di un processo di “transnazionalizzazione”4 del commercio globale (privatizzazione delle attività

economiche in mano pubblica).

Nel 1994 la globalizzazione finanziaria si estende ulteriormente, e nel 2001 anche la Cina entra nel WTO. Così, però, emerge una globalizzazione a strati differenziata nel grado di

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integrazione tra le varie aree. Infatti, non tutti accettano “le stesse regole del gioco”, come la Cina, che vieta la distribuzione commerciale delle multinazionali sul suolo del paese, e comunque non accetta la globalizzazione dei servizi finanziari. Costituiscono elementi di novità anche i TRIPs (Trade Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), con i quali gli stati occidentali ed il Giappone estendono, su scala globale, i diritti di sfruttamento economico (royalties) della proprietà intellettuale. Essi sono posti all’interno dell’accordo WTO, quindi il non rispetto può portare a misure di ritorsione (sanzioni).

La globalizzazione ha spostato il fulcro delle negoziazioni in ambiti operativi sempre più lontani dall’economia reale, sino, alla dematerializzazione dei mercati. Infatti, grazie alle reti telematiche, è possibile spostare capitale, acquisire o vendere titoli, effettuare azioni speculative, in pochi istanti (semplicemente cliccando qualche tasto dei propri dispositivi). Il mercato dei titoli a rendimento differito o tecnologici (dot.com) rimane, ancora un mercato vecchio stile, legato all’economia reale. Quando le prospettive non si concretizzano, infatti, gli investitori sono chiamati a “pagare il conto”.

Nonostante le misure prese in campo giurisdizionale, per far fronte alla globalizzazione economica che sta modificando non solo l’idea di frontiera, ma anche la regolazione nell’economia, il ruolo dell’attore regolativo per eccellenza, lo Stato, nei confronti dell’economia globale, è sempre più impotente. Il potere contrattuale risulta, infatti, di dominio delle imprese, Multinazionali, ovvero imprese che “senza eccessivi costi sono in grado di allocare capitali e impianti nei punti di massima convenienza sullo scenario mondiale” (De Luca, 2010, citato da Perulli A., 2011).

Ciò ha consolidato la tesi di una nuova convergenza mondiale dei sistemi di relazioni industriali secondo delle linee di un ridimensionamento complessivo lungo i due assi: l’asse della deregolazione e l’asse del decentramento (Negrelli S., 2005). Quanto al

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primo, relativo alla deregolazione competitiva, la globalizzazione coincide con il passaggio di potere dagli stati ai mercati, e questa sovranità dei mercati (del “mercato totale”, direbbe Alain Supiot5) si esprime nel potere delle multinazionali di esportare i

posti di lavoro là dove i costi e le condizioni di lavoro sono più convenienti. Il processo in atto determina una nuova forma di concorrenza non solo tra sistemi giuridici e sociali, ma anche fra gli stessi lavoratori (Rigaux, 2009, Citato da Perulli A., 2011).

Inoltre, il decentramento dei sistemi contrattuali è una tendenza che interessa molti paesi europei. Ciò avviene quando si trasferisce il nodo centrale della struttura negoziale di settore economico e di categoria, dai livelli nazionali, ai livelli aziendali. Anche in questo caso, è l’impresa ad emergere quale baricentro di un sistema sempre più condizionato dagli imperativi di flessibilità e soprattutto di competitività. La costruzione di un sistema centrato su un solo contratto aziendale, considerato di primo livello, e lo sganciamento dal sistema di contrattazione collettiva articolato su due livelli, comporta non solo delle questioni giuridico-tecniche che possono essere avanzate anche sul piano giudiziario, ma anche di fatto, una drastica semplificazione del modello di relazioni industriali nazionale. Non si tratta semplicemente di una decentralizzazione legata a ragioni funzionali-interne ad un dato sistema di relazioni industriali (nazionale), ma di una prospettiva collegata oggettivamente all’aumentato potere economico dell’impresa, tesa a svincolarla sempre più da costrizioni normative che non siano coincidenti con la razionalità organizzativa e produttiva espressa dalla singola realtà imprenditoriale (Perulli A., 2011). Il decentramento contrattuale (il quale rappresenta il secondo asse del ridimensionamento) si accompagna, quindi, alla centralità dell’impresa e del suo management, grazie a scelte strategiche che segnano l’inarrestabile declino della contrattazione di categoria in tutti i paesi, sia in quelli già decentrati (Regno Unito) sia in quelli più centralizzati (Svezia,

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Italia, Germania, Australia) (NegrelliS., 2005). Sotto questo profilo si deve tenere conto sia delle innegabili tendenze alla decentralizzazione e aziendalizzazione dei rapporti collettivi, sia del complessivo effetto di empowerment (conferimento di poteri), prodotto dalla globalizzazione, a favore delle imprese. Infatti, come affermano le tesi prevalenti, il decentramento e la semplificazione della struttura contrattuale rappresentano una risposta irreversibile alle dinamiche dei mercati competitivi, del progresso tecnologico e delle relative esigenze di flessibilità funzionale e gestionale.

1.3 Vantaggi comparati e tecnologia

A supporto del libero scambio, viene introdotto il modello ricardiano. Da tale teoria emerge un rapporto positivo e direttamente proporzionale tra tecnologia e produttività che, a sua volta, genera un vantaggio comparato. Ciò però, come verrà evidenziato, lascia aperte alcune questioni.

Il modello ricardiano è stato concepito, nel diciannovesimo secolo, dall’economista inglese David Ricardo. Esso spiega le dinamiche del commercio internazionale e la sua modularità rispetto al diverso sviluppo tecnologico dei vari paesi. Inoltre, il modello espone il concetto di scambio commerciale, considerando anche il grado di avanzamento della tecnologia, quindi può ben essere integrato al tema dell’elaborato: lo sviluppo tecnologico, filo conduttore di questa tesi.

Il modello ricardiano si poggia su sei ipotesi fondamentali: 1. Il lavoro è l’unica risorsa necessaria alla produzione;

2. La produttività del lavoro differisce da paese a paese, in generale, a causa delle differenze tecnologiche;

3. La produttività è costante in ciascun paese, poiché non dipende dalla quantità prodotta;

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5. La concorrenza fa in modo che ai lavoratori venga pagato un salario “competitivo”, in funzione della loro produttività e del prezzo del bene che essi producono, e consente anche ai lavoratori di venire impiegati nel settore che offre i salari più alti;

6. Considera solo due paesi, A e B.

Le differenze tra stati nelle dotazioni relative al lavoro, al capitale fisico, alle risorse naturali e soprattutto alle tecnologie, costituiscono vantaggi produttivi e competitivi per i singoli Paesi, incidendo in modo netto sull'interesse degli stati allo scambio di questi fattori. Ovviamente, tali scambi avvengono tra coloro che hanno una produttività minore e coloro che ne hanno una maggiore. La tecnologia, ed il suo utilizzo nella produzione, genera conseguentemente un enorme vantaggio produttivo, che annulla talvolta, il valore delle altre dotazioni dei paese concorrenti che non presentano tecnologie o che le utilizzano in modo inferiore o marginale.

Il modello di Ricardo6 si basa sui due concetti basilari: quello di costo opportunità, e quello di vantaggio comparato (Krugman P.R., Melitz M.J., Obstfeld M., 2012). Il primo concetto si può spiegare come la misura del costo di tutto ciò che si rinuncia a produrre, perché si realizzano altri beni e servizi. Un Paese fronteggia sempre "costi opportunità" quando impiega risorse per produrre alcuni beni e servizi, invece che altri. Ciò indica che la produzione di un prodotto implica la cessazione della realizzazione dell’altro o viceversa, in quanto si considera che tutti i lavoratori siano impegnati nella produzione del bene scelto.

Il secondo elemento, cioè il "vantaggio comparato", si verifica quando, nella produzione di un bene, il "costo opportunità" di produzione per un paese di quel determinato bene è

6 Concetti, esempi ed equazioni sono estrapolate dalle spiegazioni di Krugman P.R., Melitz M.J., Obstfeld

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inferiore rispetto ad altri paesi. Uno stato con un vantaggio comparato nella produzione di un bene, usa le sue risorse nel modo più efficiente quando produce quel determinato bene rispetto a quando ne produce altri. Quando una nazione si specializza nella produzione di un bene specifico in cui ha vantaggio comparato, riesce, complessivamente, a produrre e consumare più beni e servizi comparati (Krugman P.R., Melitz M.J., Obstfeld, 2012). Nonostante un paese sia il produttore più (o meno) efficiente di tutti i beni, può trarre benefici anche dagli scambi commerciali con altri paesi. Senza il commercio, un paese deve allocare le risorse disponibili, nella produzione di tutti i beni che desidera, mentre con gli scambi i paesi possono specializzarsi nella produzione di un bene, dove appunto hanno un vantaggio comparato, e commerciare il bene con altri prodotti che desidera. Con il commercio la produzione aumenta, ogni nazione si specializza e le possibilità di consumo crescono. Per quanto riguarda i salari relativi dei lavoratori, cioè ciò che un lavoratore di un paese riceve per un’ora di lavoro, rispetto ad un lavoratore di un altro paese, il modello ricardiano prevede, da un lato, che i prezzi relativi dei due paesi, con scambi commerciali, siano uguali, ma che i salari reali, invece, siano diversi. Inoltre, se ogni paese producesse tutti i beni internamente, realizzerebbe beni con una bassa produttività, dissipando le risorse. I vantaggi di costo, infine, sono di dominio sia dei paesi con alti salari, che hanno una produttività molto alta, sia dei paesi con bassa produttività che hanno dei bassi salari.

Il modello ricardiano quindi prevede, una specializzazione produttiva completa da parte dei paesi. Nella realtà però, ciò usualmente non succede, poiché vi è la presenza di vari fattori, che riduce la tendenza alla specializzazione completa; fattori produttivi, protezionismo, costi di trasporto che impediscono o riducono il commercio, e che quindi, inducono gli stati, a produrre al proprio interno anche beni con bassa produttività.

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Come detto inizialmente il modello ricardiano considera lo sviluppo tecnologico di un paese. Infatti maggiore è il livello di evoluzione tecnologica, migliore è anche il livello di produttività di uno stato. Quindi, lo sviluppo tecnologico, risulta essere al primo posto come variabile da tenere in considerazione circa la produttività, poiché questa risulta essere legata alla tecnologia in maniera direttamente proporzionale. Come conseguenza dello sviluppo tecnologico, e dell’utilizzo di questo fattore nella produzione, si considera l’introduzione della robotica e dei robot all’interno del processo produttivo.

Rimangono aperte alcune questioni, legate all’impiego della tecnologia, tra cui la perdita del lavoro umano e la non competitività del lavoro artigianale di beni di utilizzo comune. Nei prossimi capitoli saranno descritte le dinamiche che scaturiscono dall’utilizzo di tecnologie sempre più evolute ed automatizzate, e si guarderà ai possibili risvolti futuri già percepibili all’orizzonte.

1.4 Il rapporto tra la globalizzazione e la tecnologia

Con l’avvento della rivoluzione digitale, sono diventati di fondamentale importanza: la connessione alla rete ed i dati. La connessione ad una rete unica (Internet) si è sviluppata a livello capillare in tutti i paesi industrializzati, ed è accessibile anche da dispositivi portatili (PC, smartphone). La grandissima mole di dati disponibili in tempo reale (Big Data), viene analizzata dalle imprese per aggiornarsi e rimanere competitiva nel proprio settore.

Si sviluppano, nel periodo di riferimento, anche i rapporti macchina-macchina. Gli apparecchi elettronici o automatizzati, comunicano tra loro tramite la rete (Internet of

Things), e permettono all’uomo un controllo dello spazio e dell’operatività, anche a

distanza, sia a livello aziendale sia a livello personale di vita privata.

Gli strumenti tecnologici (inizialmente, con lo sviluppo della maggiore celerità e il costo via via minore dei mezzi di trasporto, e successivamente, con il progresso della

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comunicazione a distanza e della Rete), hanno dapprima, permesso il fenomeno della globalizzazione, che a sua volta, ha velocizzato e diffuso gli elementi della tecnologia. Lo spirito d’impresa, il mercato e la concorrenza, spingono al progresso materiale, tecnico e tecnologico, e quindi si pongono alla base dello sviluppo economico. Le tecnologie, progredendo, ci forniscono, oggi, reti di comunicazione flessibili e mondializzate, creando reazioni sempre più rapide e interazioni più frequenti. Sotto il loro stimolo, la globalizzazione si addentra in tutti gli ambiti. Le imprese sono organizzazioni che varcano simultaneamente tutte le soglie della globalizzazione (dimensionale, temporale, di complessità, comunicazionale e informazionale). Il processo di sviluppo delle aziende, non solo include in maniera centrale la tecnologia, ma anche l’ambiente commerciale e politico. Questo tipo di andamento, però è spinto anche dall’impresa stessa che rilancia la sfida concorrenziale grazie all’innovazione (procedurale e tecnologica). Infatti, l’azienda crea vantaggi competitivi, rispetto alle altre, proprio grazie allo sviluppo tecnologico. La concorrenza, si basa sempre più su una lotta tecnologica, rivolta a soppiantare i prodotti dei concorrenti con prodotti nuovi, in quanto più tecnologici equivale ad essere più funzionali7. Il progresso tecnologico aumenta la crescita di coloro che lo gestiscono e ne beneficiano; mentre il ritmo del cambiamento tecnico-economico, si velocizza sotto l’effetto della concorrenza globale.

Con la globalizzazione, dunque, si assiste anche ad uno sviluppo tecnologico senza precedenti, che si intensifica ancora di più negli anni duemila (2000), creando le basi per la rivoluzione informatica e digitale, con conseguenze, non solo a livello di comunicazione, ma anche a livello commerciale e mondiale, trasformando l’azienda, l’intera economia globale, la finanza ed il lavoro umano.

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1.5 Globalizzazione e tecnologia: effetti sul lavoro

La globalizzazione sembra abbia avuto effetti sul lavoro diametralmente opposti da quelli che ha avuto e che avrà la tecnologia.

Il primo fenomeno, ha generato una delocalizzazione produttiva (offshoring)8, ovvero la chiusura delle fabbriche nei paesi di origine, il trasferimento degli stabilimenti in nazioni con un minore costo del lavoro e con condizioni contrattuali e normative più favorevoli alle imprese. Inoltre, la mondializzazione dei mercati, presenta anche un’altra modalità organizzativa: l’esternalizzazione9 (outsourcing). Questo processo si basa sull’utilizzo di

una fonte produttiva esterna (un’altra azienda), per lo svolgimento di una o più specifiche funzioni, quali: l’organizzazione aziendale, l’attività commerciale e persino, in alcuni casi, la manodopera. Ciò permette all’impresa, che si serve dell’outsourcing, di ridurre i costi operativi interni ed anche i rischi di gestione. A volte i motivi che spingono le grandi imprese alla delocalizzazione, sono le agevolazioni derivanti dagli incentivi legati a politiche di sviluppo messe in atto da governi locali e nazionali per attirare investimenti esteri. La scelta di delocalizzare, può anche essere spinta dalla possibilità di sfruttare i benefici che derivano dalla prossimità fisica a mercati più dinamici e/o ampi, oppure dall’opportunità di migliorare l’accesso a reti di fornitura.

Il processo, sopra descritto, è notevolmente aumentato con l’avvento del fenomeno di globalizzazione, e quindi con la globalizzazione economica. Le nuove tecnologie comunicative, ma non solo, hanno permesso alle aziende un contatto più diretto e un maggiore controllo sulle sedi denazionalizzate, persino in altri continenti. La delocalizzazione è un fenomeno economico attuato soprattutto dalle multinazionali, esso determina, la chiusura o il ridimensionamento di un sito produttivo nel paese di

8 Perulli A., 2011

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appartenenza, e il suo trasferimento in una nazione estera, dove l’azienda potrà beneficiare sia di una manodopera meno costosa, come già detto precedentemente, sia di sistemi giuridici più vantaggiosi. I processi di delocalizzazione, che entrano sulla scena della produzione di beni e servizi principalmente, successivamente sfruttano anche l’entrata nel mercato del paese estero dove avviene la produzione, creando in esso dapprima fabbriche, e dopo punti di vendita. I meccanismi di delocalizzazione, quindi, non sono solamente focalizzati sull’atto economico di gestione dell’impresa, ma riflettono anche un cambiamento radicale nei rapporti tra norma e luogo. Nel paese d’origine questo tipo di processi, determina una riduzione della domanda di lavoro, a svantaggio soprattutto dei lavoratori meno qualificati, data la propensione a dislocare fasi del processo produttivo a basso valore aggiunto. Al contrario, nel paese di destinazione si può osservare un aumento dell’occupazione. In entrambi i casi si assiste ad una crescente differenza tra il salario di un lavoro qualificato ed il salario di un lavoro che non richiede qualifiche.

La tecnologia, offre, invece, la possibilità di reinternalizzare (reshoring)10 i processi produttivi (la manodopera), evitando di ricorrere alla delocalizzazione. Il reshoring può verificarsi, nel caso in cui i robot sostituiscano il lavoro umano abbattendo ulteriormente i costi. Il processo permette anche una ricostituzione di posti di lavoro per la direzione e l’organizzazione delle aziende, dei robot, dei vari processi organizzativi e di tutte le varie funzioni per la quale gli umani sono ancora indispensabili (approfondimento paragrafo 3.4). Uno studio della Reshoring Initiative del 2015, stima che, dal 2010, sono stati reintrodotti negli USA 250mila posti di lavoro. Il reshoring può offrire molti vantaggi a livello nazionale, ha il potenziale per l’ampliamento della domanda in altri settori e

10 The Impact of Robots on Productivity, Employment and Jobs. Paper dell’ International Federation of

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permette l’accumulo di know-how specializzato, fondamentale per due elementi: la competitività e l’espansione delle attività aziendali nazionali. Inoltre, l’automazione permetterebbe un minor costo della manodopera ed una maggiore produttività. Secondo degli studi condotti in vari settori lavorativi dal McKinsey Global Institute (2017) la robotizzazione comporterebbe la riduzione di errori ed incidenti sul lavoro, ma anche una maggiore velocità, qualità ed un rilevante miglioramento prestazionale di molte attività. In alcuni casi quindi, la tecnologia supera la funzionalità umana, e potrebbe attuare meccanismi di aumento del PIL e del PIL pro capite.

Se da un lato il reshoring crea dei vantaggi, dall’altro potrebbe avere però un effetto anche peggiore della delocalizzazione, eliminando posti di lavoro, senza nemmeno crearli in altri paesi.

L’utilizzo della tecnologia, e la globalizzazione generano fenomeni opposti, ma il loro effetto sul lavoro è simile, ovvero la possibile perdita di posti di lavoro.

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CAPITOLO 2

Il progresso tecnologico: storia economica delle rivoluzioni

industriali

Prima di iniziare con l’analisi di ciò che hanno apportato, e in termini di innovazioni tecnologiche e in termini di modalità lavorative, e anche in termini di condizioni di vita umana, le rivoluzioni industriali fino ad oggi, innanzitutto è bene spiegare cosa è l’innovazione.

2.1 L’innovazione

L’innovazione può avere differenti classificazioni ed essere misurata con altrettanti metodi. Inizialmente, essa può essere definita come: “un atto creativo che richiede conoscenze ed immaginazione” (Pellegrini F., Tiberi A., 2016). L’abbondanza delle

tipologie presenti nella letteratura economica porta a chiamare con lo stesso nome differenti tipi di innovazione, e la stessa innovazione è classificata sotto differenti tipologie. Questa ambiguità di classificazione rende difficile ed a volte non possibile la comparazione fra i vari studi. Inoltre l’elevata numerosità di denominazioni esistenti in letteratura per definire l’innovazione, ha anche rallentato, almeno inizialmente, lo sviluppo della conoscenza in e di queste aree.

Affinché si possa meglio studiare il cambiamento tecnologico bisogna individuare i principali fattori che influenzano la propagazione dell’innovazione, che sono:

− Il fattore endogeno, che rappresenta i mutamenti che subisce l’innovazione nel tragitto di diffusione, a seguito delle sue proprietà funzionali, e delle forze

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socio-economiche che alterano la topografia dello spazio economico (Sahal, 1985 citato da Coccia M., 2016);

− Il fattore ambientale, che è legato alle condizioni geo-economiche dove l’innovazione si diffonde;

− Il fattore sociale, che è rappresentato dal livello culturale della popolazione che recepisce l’evento come innovativo.

L’obiettivo primario, comunque, è quello di misurare l’innovazione tecnologica. Ciò viene effettuato, prendendo in considerazione le variabili che catturano l’innovazione, che sono molte ma non sempre rappresentano l’attività innovativa, quindi la misurazione può quindi risultare incompleta (Pellegrini F. Tiberi A., 2016). Nonostante sia uno dei maggiori scogli per gli economisti, non si può fare a meno di una misurazione delle novità apportate dalla tecnologia per prendere decisioni a riguardo di essa e per comprenderla. In primo luogo la valutazione dell’innovazione cambia a seconda dell’approccio verso quest’ultima. L’approccio può essere di tipo neoclassico o evolutivo. Il primo metodo, pone l’attenzione sull’equilibrio del sistema economico, mentre il secondo non si preoccupa di esso, ma valuta la fase di transizione per arrivare all’equilibrio. È possibile misurare l’innovazione tramite input, che sono: investimenti in ricerca e sviluppo, introduzione di tecnologie avanzate nella produzione, adozione di innovazioni organizzative, presenza di impiegati con competenze tecnico-scientifiche in ricerca o progettazione. Le misure di input hanno certamente dei vantaggi, infatti: presentano dati specifici, sono precise nella misurazione, presentano una buona proxy dello sforzo tecnologico (R&S), hanno una buona comparabilità (Pellegrini F. Tiberi A., 2016). D’altro canto presentano anche degli svantaggi, poiché non sempre catturano le capacità innovative o l’innovazione presentatasi nel periodo di misurazione, inoltre, possono

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22 presentare effetti di spillover, ed ancora, non valutano le innovazioni se non sono immesse come spese di ricerca e sviluppo. È possibile affidarsi anche alle misure di output per misurare l’innovazione. Queste misure sono: immissione di nuovi prodotti sul mercato, indicatori bibliometrici, brevetti. I vantaggi sono molteplici nella misura dei brevetti, infatti, essi sono rilasciati per tecnologie che abbiano una rilevanza commerciale, i dati sono facili da valutare, gratuiti, coprono lunghe serie storiche, e danno informazioni sulle altre innovazioni apportate per realizzare la tecnologia da brevettare.

La misurazione del valore che le innovazioni possono apportare, risulta più complessa, perché non sono presenti misure dirette di valutazione e perché le misure indirette esistenti (produttività, profittabilità), reagiscono lentamente. Un insieme di indicatori, costituito da dati sulle survey e variabili che catturano l’innovazione, è utile per la comparazione di innovazione tra paesi. In Europa l’insieme utilizzato, è costituito da 25 indicatori ed è chiamato Innovation Union Scoreboard (IUS) da quanto è stata lanciata la strategia Horizon 2020 (Pellegrini F., Tiberi A.,2016). Questo insieme riesce ad analizzare tramite i suoi indicatori, i fattori facilitanti (enablers), le attività interne innovative dell’impresa (firm activities), ed i risultati dell’innovazione (output). I dati, essendo un insieme di indicatori ufficiale, sono affidabili e certi, sono presi difatti da Eurostat o altre fonti internazionali attendibili. Inoltre è possibili affidarsi ad alcuni indicatori quantitativi: il valore azionario dell’impresa ed il valore dei brevetti posseduti da essa. Vi sono altri indicatori quantitativi, racchiusi nella tabella 1.

(23)

23

TABELLA 1

Fonte:ISTAT

Dopo aver affrontato il tema della misurazione dell’innovazione e del suo valore, è importante distinguere i diversi tipi di innovazione e gli effetti che essa può generare. Per quanto riguarda il tipo, l’innovazione può quindi essere: di processo, o di prodotto. La prima, crea solitamente un miglioramento dell’efficienza con la conseguente diminuzione del costo di produzione e quindi a parità di output porta ad eliminare un numero di lavoratori. L’effetto principale sul mercato del lavoro e quindi chiamato effetto di sostituzione, dove le macchine vengono impiegate al posto dei lavoratori. L’innovazione di prodotto invece permette di insinuarsi in nuovi segmenti del mercato o di migliorare la quota di un’azienda nei segmenti in cui già è presente, questo può quindi portare anche ad un aumento del numero di lavoratori all’interno dell’azienda. Per quanto riguarda gli

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24 effetti, l’effetto principale è chiamato di compensazione, dove l’aumento della produzione produce un aumento della domanda di lavoro. Un terzo tipo di innovazione è poi quella organizzativa che avviene in una fase successiva, causata dall’effetto aggregato delle prime due (Pellegrini F. Tiberi A., 2016). L’effetto principale di quest’ultimo tipo, è quello di abbassare l’impego di ore lavorative. Nel breve periodo l’effetto dell’innovazione tecnologica è solitamente condizionato dalla fase espansiva o recessiva del mercato, quindi di fatto l’innovazione influisce poco. Nel lungo periodo invece considerando i dati storici, l’occupazione tende ad aumentare, e aumentano anche la produttività e la qualità del lavoro. In un secondo periodo, l’effetto si riflette anche sui salari, innalzandoli.

Dopo avere elencato i modi attraverso i quali può essere misurata l’innovazione, è importante stabilire un comune denominatore per i differenti tipi di innovazione. Questo denominatore, ha l’obiettivo di riorganizzare la graduazione del cambiamento tecnologico in una scala che abbia un’applicazione universale. Una scala da poter prendere in considerazione può essere la SIIN (Scala dell’Intensità dell’Innovazione), che è quella utilizzata da M. Coccia (2016), e sembra pertanto essere una metodologia utile allo scopo prefissato. La scala ordina le innovazioni sulla base e del numero dei fruitori dell’innovazione e dell’impatto economico, quest’ultimo è misurato con una tipologia simile alla magnitudo (che solitamente è utilizzata per valutare il grado dei terremoti). La graduatoria dell’intensità innovativa come illustrato nella Figura 1, mostra come le diverse classificazioni presenti nella letteratura economica (da Mensh, 1979, a Darroch e Jardine, 2002, citati da Coccia M., 2016), sono sintetizzate dalla SIIN, che, inoltre, facilita i confronti fra le diverse tipologie di innovazione. L’utilizzo della teoria degli insiemi

aiuta a comprendere come vi siano (nell’ambiente) innovazioni di differente intensità e di diverso impatto economico. Ovviamente le innovazioni, a differenza dei terremoti,

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25 possono avere cause eterogenee, ma l’impatto generato sull’ambiente geo-economico, dovrebbe poter essere comparato al fenomeno naturale citato precedentemente ed essere similarmente a questo lo stesso nello spazio e nel tempo. Hägerstrand (1960) osserva come l’intensità innovativa, dal punto di vista spaziale, è massima nelle aree dove l’innovazione è ampiamente adottata anche per la circolazione della cosiddetta conoscenza localizzata (Antonelli, 1995; 2000, citato da Coccia M., 2016). Infatti, la diminuzione dell’intensità è caratterizzata dalla riduzione degli effetti e dei cambiamenti nell’ambiente. Il minore impatto a livello economico-ambientale dipende: dalla distanza della sorgente innovativa dalla ricettività ambientale, ed anche dalla dimensione delle città.

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FIGURA 1

Tassonomia del Cambiamento Tecnologico: la Scala dell’intensità innovativa Fonte M.Coccia, “Analisi economica dell’impatto tecnologico, Ceris-Cnr Moncalieri, 2016.

EFFETTI DEL CAMBIAMENTO TECNOLOGICO

Grado dell’innovazione Intensità Alcune differenti denominazioni

di innovazioni esistenti in letteratura

Impatto economico

I Leggerissima • Elementare o micro-incrementale (Freeman, 1984).

• Incrementale (Freeman et al., 1982; Priest e Hill, 1980); Market Pull (Dosi, 1988); Regolare (Aber- II Leggera

III Moderata

nathy e Clark, 1985); Continua (Freeman et al., 1982); Minore (Archibugi e Santarelli, 1989);

Migliorativa (Mensch, 1979).

• Maggiore (Archibugi e Santarelli, 1989; Rycroft e Kash, 2002); Non drastica (Gilbert e Newbery, 1982); Really new (Garcia e Calantone, 2002).

IV Discreta

• Micro-radicale (Durand, 1992); Creazione di nic-

chia (Abernathy e Clark, 1985).

V Forte

• Radicale (Freeman et al., 1982); Technology push (Dosi, 1988); Drastica (Gilbert e Newbery, 1982); Discrete (Priest e Hill, 1980); Fondamentali (Mensch, 1979); Discontinua (Archibugi e Santarelli, 1989); di

base (Mensch, 1979); Architetturale (Abernathy e

Clark, 1985).

VI Fortissima

• Nuovi sistemi tecnologici (Freeman et al., 1982);

Sistemi di innovazioni (Sahal, 1981).

VII Rivoluzionaria

• Rivoluzioni tecnologiche (Freeman et al., 1982; Freeman, 1984); Rivoluzionaria (Abernathy e Clark, 1985); Cambiamenti dei paradigmi

tecnolo- gici (Dosi, 1982); Cambiamenti dei paradigmi tecnoeconomici (Freeman et al.,

1982); Regimi tecnologici (Nelson e Winter, 1982); Grappoli di nuovi sistemi tecnologici (Coccia, 2016); Genaral purpose technologies (Bresnahan e Trajtenberg, 1995). 3 a 2 a 1 a F a s c i a F a s c i a F a s c i a A l t o M e d i o B a s s o

(27)

27

2.2 La prima rivoluzione industriale

Avendo quindi, descritto l’innovazione e fornito un possibile di misurazione, prima di analizzare il percorso delle innovazioni a noi più vicine e quindi le tecnologie odierne e quelle, che possibilmente saranno presenti in futuro11, è bene dare spazio ai precedenti eventi di industrializzazione, ovvero: la prima, la seconda, e la terza rivoluzione industriale. Quest’ultima comprende solitamente anche la rivoluzione digitale, però per una maggiore facilità di analisi si preferisce in questo caso una separazione ed un’analisi distinta.

Per quanto riguarda le valutazioni che verranno affrontate, esse si interesseranno soprattutto ai cambiamenti sulle tipologie e sulle modalità lavorative, causate dalle innovazioni. Offrendo, di fatto, un quadro storico economico, senza soffermarsi troppo marcatamente ad un analisi delle cause dell’avanzamento tecnologico, soprattutto in passato.

La prima rivoluzione industriale, è un evento che, avviene tra il 1760 ed il 1830 secondo T.S. Ashton, per convenzione però ricopre circa un centinaio di anni, ovvero, la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà del secolo successivo. Durante questi anni la crescita tecnologica del tempo ha avuto il suo picco, ed ha prodotto i migliori risultati prima della successiva rivoluzione intorno al 1870. Infatti una rivoluzione industriale non si può definire non correlata col tempo, ma è un periodo durante il quale viene accelerato il flusso delle innovazioni adottate nelle attività economiche. Il fenomeno dell’industrializzazione ha il suo baricentro e punto di inizio in Inghilterra, che si appresta a divenire la prima potenza mondiale, e poco dopo si manifesta anche in Europa (principalmente Francia e attuale Germania, Paesi Bassi e Belgio), Stati Uniti e Giappone.

11Dalla rivoluzione digitale che è in essere ancora oggi, per continuare col processo di continuo

avanzamento delle tecnologie che avviene ed è in accelerazione e che permette di concludere, proiettando le riflessioni e le analisi ad una possibile quarta rivoluzione industriale, ad un’industria 4.0, che sarà visibile nei prossimi anni

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28 In questi paesi l’industrializzazione procede ad una velocità più elevata ma sulla scia di quella inglese, che ha avuto l’impatto pioneristico. Durante questo periodo si passa da un sistema prettamente agricolo-artigianale ad uno più industriale caratterizzato dalla presenza di macchine inanimate, che svolgono parte dei compiti precedentemente svolti muscolarmente da uomini e animali (Ashton, Barbone, Sinha, 1953). La rivoluzione industriale apporta delle importanti innovazioni per l’epoca. Le nuove tecnologie che rivoluzionano il lavoro dalla seconda metà del XVIII secolo sono: il procedimento della fusione del metallo ferroso tramite carbon coke e non più legna (o carbone e legna), e l’introduzione della macchina a vapore (Hudson P., 1995). L’introduzione del carbon coke permette un grande sviluppo dell’industria siderurgica, concomitante con quella tessile (telai meccanici 1787). Le macchine invece migliorano i trasporti, aiutano i braccianti nei campi, e l’energia termica usata appunto nel processo delle macchine a vapore soppianta od inizia ad essere maggiormente utilizzata rispetto all’energia idraulica e a quella, come suddetto, animale.

Nelle campagne dove globalmente la maggior parte delle persone viveva e lavorava vengono introdotte le enclosures (recinzioni), inizialmente su iniziativa dei privati, per poi avere un vero e proprio sviluppo seguendo i dettami delle leggi inglesi che incentivavano il processo (Hudson P., 1995). Questo fenomeno favoriva l’accorpamento delle terre (non più campi aperti), proprietà di un unico grande proprietario terriero, dove non lavoravano più i contadini, bensì i braccianti con un proprio salario. Il resto della manodopera (abbandonando anche l’industria domestica campagnola), si trasferiva nei borghi urbani, che divennero vere e proprie città, per lavorare nelle fabbriche. Il progresso tecnologico permise di sfruttare meglio gli appezzamenti terrieri, infatti venne introdotta la rotazione continua (con periodi di pascolo per ri-fertilizzare il terreno), ma anche strumenti come aratro e seminatrice (Fohlen C., 1976).

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29 Altro fenomeno del periodo è stata una crescita demografica senza precedenti, in Europa si passò da circa 115 milioni di persone a 190 milioni nel ‘700 (Klingeder F. D. 1972). Le cause di ciò sono da ricercare nell’aumento delle natalità, ma anche nella diminuzione della mortalità infantile, forse per un miglioramento della medicina o delle condizioni igieniche, anche se l’impianto fognario inizierà a nascere a Londra solo dopo il 1820 con l’introduzione nell’edilizia del cemento Portland e del mattone al posto della legna. Anche il commercio ha avuto un forte sviluppo nel periodo; gli scambi internazionali dell’Inghilterra con l’Africa e la colonia Indiana, con l’Europa e gli Stati Uniti, portarono Londra a diventare il centro degli scambi mondiali, e le esportazioni di lana e cotone e gli scambi di questi materiali tessili (addirittura con preziosi come ora e avorio in Africa) portarono profitti ai commercianti inglesi (Battilossi S., 2002). Il surplus, finanziò l’espansione agricola e ancor di più quella industriale. Proprio durante la seconda meta del 1700 si impose l’industria del cotone, più facile da lavorare rispetto alla lana e a prezzo minore (Battilossi S., 2002). Il cotone diveniva un bene di massa, labour intensive, e molte innovazioni furono apportate ai telai per velocizzarne la produzione (dalla spola volante al telaio meccanico in ultimo). Il commercio fu favorito anche dallo sviluppo dei trasporti navali (motori a vapore ed eliche). I trasporti in generale migliorarono in Gran Bretagna grazie al miglioramento delle strade (permesso dal pagamento di pedaggi), dei canali, importanti per il trasporto di materiali nel paese anglofono per la loro diramazione, ed della costruzione di binari ferrati e nella seconda fase del periodo di rivoluzione (entro il 1850) dell’introduzione di fondamentali linee ferroviarie.

Per quanto riguarda le industrie molto sviluppo ha avuto quella siderurgica (grazie alle alte temperature che si potevano raggiungere con il carbon coke). La produzione di ghisa fu quadruplicata, aumentava e diveniva qualitativamente migliore quella di ferro e

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30 acciaio, grazie ad altre innovazioni, come il patting ed il pudellaggio ma anche come la laminazione con o al posto delle martellate (Ashton, Barbone, Sinha, 1953).

In ultimo grazie alle banche, Banca d’Inghilterra e altre banche locali, il mercato, quello inglese, soddisfaceva tutte le richieste di moneta (parità aurea in uso circa dal 1770 ed istituita ufficialmente dal 1816 soppiantando quella argentea), e di credito. Questo attirò molti investimenti anche dall’estero, e Londra divenne anche il centro finanziario mondiale, affermandosi in questo periodo come una delle città più grandi ed industrializzate del mondo.

Nasceva anche la Borghesia inglese, dedita al profitto, e costituita dai grandi proprietari terrieri e dai proprietari delle industrie, ma almeno inizialmente le condizioni di vita della massa, non hanno avuto una miglioria ma anzi il contrario (Williams R. 1972). La giornata lavorativa all’interno delle fabbriche durava tra le dodici e le sedici ore giornaliere, anche le donne e i bambini piccoli erano impiegati e pagati meno degli uomini (Landes D., Liberato P., 2000). Il salario degli uomini adulti era bastevole alla sussistenza, ma in Inghilterra il salario concesso non era di certo inferiore al resto d’Europa (Detti T, Gozzini G., 2009). I locali lavorativi erano sovraffollati e malsani, e per le ore di riposo, che erano di fatto solamente quelle di sonno, dato che anche i pasti erano consumati in fabbrica, nelle città erano presenti dei sobborghi adibiti a dormitori per le famiglie proletarie. Nacque in questo periodo il Luddismo e la seguente distruzione appunto per protesta dei luoghi di lavoro e delle macchine al loro interno, un sabotaggio industriale (Hudson P., 1995). Dal 1825 anno dell’abolizione della legge contro le associazioni, le

trade unions si affermarono per rivendicazioni in ambito lavorativo. La qualità della vita

quindi nel primo periodo dell’industrializzazione degenerò sia nel breve periodo sia nel medio. Solo dal 1840 in poi si hanno prove di un miglioramento effettivo delle condizioni umane della massa, con un aumento del reddito reale e di quello pro-capite, ma anche con

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31 la diminuzione delle ore lavorative a dieci giornaliere12. Durante lo stesso periodo il PIL inglese aveva raggiunto il suo apice grazie allo sviluppo tecnologico e all’industrializzazione.

2.3 La seconda rivoluzione industriale

Quello susseguente l’industrializzazione ed antecedente la Grande Guerra, è un periodo di grande sviluppo. La seconda rivoluzione industriale per la mole e l’importanza delle innovazioni apportate dagli anni settanta del ‘800, è più comunemente compresa tra la fine del XIX secolo e l’inizio del ‘900. Il termine della seconda industrializzazione quindi, tende a coincidere con l’inizio della guerra, che però è stato un periodo durante il quale vi è stata, una spinta tecnologica non solo dal punto di vista bellico (aereo). Durante la seconda rivoluzione industriale il ruolo della scienza diventava centrale e fondamentale per il progresso tecnologico, e per lo sviluppo dell’economia e della produzione ed era correlata con la tecnologia (Landes D., Liberato P., 2000). Se durante la prima rivoluzione le innovazioni partivano da processi empirici, durante la seconda, questo non accadeva. In quest’ultimo periodo infatti, la ricerca antecedeva la pratica, la scienza veniva applicata ai problemi. Le innovazioni apportate dal secondo periodo di industrializzazione, sono sicuramente più complesse rispetto a quelle precedenti (Fontana R., 2013).

Una delle più grandi invenzioni della seconda rivoluzione industriale è stata senz’altro il motore a scoppio (Otto 1876) e le sue evoluzioni: il motore alimentato a benzina, il carburatore e l’iniezione (1893), il motore diesel (1897), che permetteranno, agli inizi del novecento, lo sviluppo delle industrie automobilistiche, la Ford in primis, che negli anni pre-guerra vendeva circa duecentocinquantamila auto l’anno. Altre innovazioni nel campo dei trasporti sono state l’aereo (il primo prototipo nel 1903), ed i primissimi voli

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32 commerciali attorno al 1910, essi diventeranno poi frequenti nel dopo guerra (Fontana R., 2013).

Nel secondo step d’industrializzazione planetaria, si è sviluppato un fenomeno detto “gigantismo industriale”, ovvero grandi imprese e industrie. Le grandi imprese hanno il vantaggio di poter diversificare i prodotti, di avere una maggiore rapidità di produzione (poiché tutto il processo si può svolgere nello stesso luogo), e soprattutto hanno una maggiore profittabilità grazie alle economie di scala. Ciò darà il via alla nascita delle prime multinazionali, le imprese automobilistiche sono state le prime che iniziarono a delocalizzare la loro produzione ed ad infrangere le barriere statali: Ford in Gran Bretagna, Fiat in America Latina e Russia. Nelle grandi fabbriche prese piede la teoria del Taylorismo, organizzazione scientifica del lavoro. Gli obbiettivi dell’idea dell’ingegnere statunitense Taylor erano: in primo luogo l’accentramento dell’autorità all’interno dell’impresa, aumentare il rendimento degli operai d’industria e anche la produzione di quest’ultima, inoltre, perseguire la scienza per avvalorare le innovazioni. Caposaldo del Taylorismo è la “one best way”, ovvero: la sicurezza che vi sia solamente un'unica maniera, migliore delle altre, per ciascuna determinata produzione o risoluzione di problema. In breve, la teoria impone di dividere la produzione in piccole fasi, semplici e controllabili, per eliminare spechi di tempo ed energia e massimizzare la produzione data la ripetitività della stessa azione, ed anche poter controllare e minimizzare i costi del processo produttivo (Fontana R., 2013). Il metodo di Taylor migliora in maniera netta l’efficienza, ma va a discapito degli operai. Con il termine Fordismo invece si descrive l’applicazione del Taylorismo (nell’industria Ford), e l’evoluzione pratica di questa. Un altro principio importante del metodo di Henry Ford, era la spinta alla meccanizzazione (Ling, Peter J.,1992), con conseguente semplificazione del lavoro dell’operaio, che svolgeva quindi in maniera ripetitiva sempre lo stesso compito e lo stesso procedimento,

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33 effettuando gli stessi movimenti in continuazione. Elemento innovativo, nelle fabbriche Ford, era l’introduzione della catena di montaggio, attraverso la quale venivano separate le varie fasi dettate da Taylor ed inoltre, veniva ridotto nettamente il tempo di produzione (da 20 ore ad un’ora e mezza circa per la produzione della Ford T). Non inizialmente, ma solo in seguito a licenziamenti e proteste da parte degli operai, il proprietario dell’industria automobilistica, decise l’introduzione di salari più alti ed altri incentivi di tipo materiale agli operai, per garantire la massima efficienza durante le ore lavorative (Fontana R., 2013).

Dal punto di vista agricolo, la seconda rivoluzione industriale, portava i trattori a vapore, le mietitrici e le trebbiatrici. Queste erano invenzioni della prima rivoluzione industriale ma si erano diffuse e venivano utilizzate, perché affinate durante la seconda. Il progresso in questo campo era però costituito dall’avanzamento di una nuova industria quella chimica. Quest’ultima apportava fertilizzanti chimici, ma anche pesticidi, che da un lato accrescevano la produttività del terreno e dall’altro lato, debellavano i parassiti ma anche i funghi ed altri agenti, rendendo più efficiente la produzione (De Simone E., 2014). La crescita demografica è stata ancora superiore a quella precedente, la popolazione mondiale cresce di cinquecento milioni di persone, quella europea arrivava a toccare i 460 milioni con un incremento del 27% (precedentemente 20%). Il progresso medico, i vaccini, i disinfettanti (industria farmaceutica), fecero crollare il tasso di mortalità ed aumentare la vita media fino a cinquant’anni. Nel periodo ha inizio l’emigrazione della popolazione per cercare migliori condizioni di vita. Le mete predilette dagli emigranti erano soprattutto USA ma anche America Latina, Canada e Oceania. (Pollard S., 2004). I flussi migratori avvenivano anche internamente all’Europa da Sud ed Est verso rispettivamente Nord e Ovest (Detti T., Gozzini C., 2009). Per i paesi di emigrazione lo svantaggio era perdere forza lavoro ma allo stesso tempo alleggerirsi dalla pressione

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34 demografica, al contrario i paesi verso il quale la gente si sposta, ricevevano risorse umane già formate, ma almeno inizialmente riscontravano problemi di integrazione e quindi non potevano sfruttare di questa forza.

Lo spostamento della popolazione era favorito dal miglioramento dei sistemi di trasporto, che diventavano meno onerosi e più veloci. Ciò aveva favorito molto anche il commercio. Le linee ferroviarie erano state costruite rapidamente e migliorate dove già presenti. La costruzione del canale di Suez e di quello panamense permettevano (e ancora oggi) una riduzione dello spazio da percorrere immenso per alcune linee di navigazione. Gli stessi mezzi divenivano più veloci (locomotiva Rocket ed elica a pale), inoltre, sono stati sviluppati, nell’ambito navale, nuovi porti più grandi e attrezzati, navi di ferro e/o acciaio e senza per forza un itinerario fisso, ed anche venivano costituite delle società di navigazione.

Sul campo industriale poi si sono sviluppati come sopra citato (2.3), altri settori di grande importanza, il settore chimico e quello farmaceutico. Dall’unione dei due settori sono le innovazione di prodotti come anestetici e antisettici oltre ai disinfettanti e altri medicinali. Questo faceva aumentare le aspettative di vita, ed anche diminuire la percentuale delle morti da parto e di mortalità natale. Anche nel campo della siderurgia si è avuto un grande sviluppo, infatti si riesce a produrre acciaio in maniera molto più rapida e a basso costo (nuove tecniche di produzione), rispetto al passato. Inoltre venivano alla luce nuovi prodotti come il nichel o l’alluminio. Grande importanza sempre in campo dell’industria siderurgica riveste, durante questo periodo, l’introduzione del rame, eccellente conduttore, per la trasmissione di energia elettrica ed anche elemento fondamentale per lo sviluppo delle pile. Le nuove tecniche di produzione siderurgica e l’introduzione delle sostanze farmaceutiche dovevano il loro progresso alle innovazioni in campo chimico. La conoscenza chimica produceva, inoltre, altri nuovi prodotti come i fertilizzanti,

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35 l’esplosivo (utilizzato negli scavi), la produzione di plastica (che diventerà di uso comune successivamente), ma anche la produzione della gomma (1888, primo pneumatico, Dunlop).

L’ industrializzazione fece crescere nettamente anche la produttività del lavoro, grazie alle innovazioni tecnologiche che apportarono (innovazioni di prodotto e di processo). La tabella 2, illustra come sia aumentata l’efficienza nella produzione di energia elettrica durante la seconda rivoluzione industriale (da quando è incominciata ad essere di uso comune) fino al 1930, considerando così anche il periodo della Grande Guerra che ha migliorato ulteriormente l’efficienza rispetto agli anni pre-guerra.

TABELLA 2

Efficienza

1890

1900

1930

Kg di carbone equivalenti per 1 kwh di energia

I sei paesi più

industrializzati

3,50

3,20

0,70

La media dei paesi

industrializzati

3,60

3,40

1,05

% della massima efficienza teorica

I sei paesi più

industrializzati

3,50

3,80

17,50

La media dei paesi

industrializzati

3,40

3,60

11,70

Fonte: Coccia M., 2016 elaborazione su dati Maddison A. (2006)

Quello riguardante l’energia è stato, infatti, un altro punto focale della seconda fase di industrializzazione.

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36 Se nella prima rivoluzione si era passati dalla forza muscolare e idraulica a quella termica, nella seconda si raggiungeva l’energia elettrica13, ed il petrolio sostituiva (in seguito) il carbone nella produzione di energia termica.

Per quanto riguardava il sistema bancario, esso si era sviluppato in tutti i paesi industrializzati. Nascevano, infatti, gli Istituti di Emissione (poi Banche Centrali), che avevano la funzione di emettere le monete legali (banconote) che soppiantarono nel ventesimo secolo le monete metalliche, benché sempre legate alla valutazione aurea. Si svilupparono anche le casse di risparmio e gli istituti fondiari, che accoglievano i risparmi dei piccoli risparmiatori, e ancora altri tipi di banche come quelle commerciali e cooperative. Inizialmente vi erano due modelli quello Anglosassone che prediligeva la banca pura, e quello Continentale, che invece, era preferita la banca mista.

Durante l’arco temporale, preso in considerazione, si possono comunque distinguere, sostanzialmente tre periodi (De Simone, 2014), due di espansione (1850-1873, 1896-1914) ed uno di depressione (1874-1895).

Nel 1850, sebbene si esauriva l’accelerazione tecnologica della prima rivoluzione industriale, si entrava in un periodo di espansione di circa un ventennio. Durante questo periodo, quindi, venivano evidenziati gli effetti positivi dell’industrializzazione. Grazie a libero scambio infatti non solo crescevano i prezzi della merce, quindi i profitti per gli imprenditori, e i susseguenti investimenti, ma miglioravano le condizioni di vita anche dei proletari, infatti anche il loro salario medio aumentava. Durante il periodo di espansione la borghesia acquisiva potere economico, ma anche politico, sostituendosi all’aristocrazia anche in quest’ambito.

13Dagli anni ottanta dell’800, l’elettricità inizia ad essere applicata all’industria e ai trasporti, essa forniva

illuminazione (nelle città, nei luoghi di lavoro, nei mezzi di trasporto) ed era la fonte di energia per alcuni macchinari industriali. L’elettricità veniva creata tramite le centrali idroelettriche o tramite petrolio o carbone (energia termica), inoltre anche l’energia meccanica poteva essere trasformata in energia elettrica tramite la dinamo.

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37 Venivano inoltre, nel periodo di espansione, scoperti nuovi giacimenti aurei, importanti per la successiva introduzione del Gold Standard anche negli altri paesi (già adottato in Gran Bretagna). Inoltre veniva istituita una clausola: la cosiddetta “della Nazione Favorita”14. Questo permetteva un aumento del commercio e delle relazioni tra gli stati. Durante la fase di relativa depressione successiva (1874-1896) i prezzi si abbassavano, questo per l’inondazione del mercato da parte delle derrate agricole americane e russe (che sfruttavano anche il minor costo dei trasporti), inoltre di conseguenza si riducevano i profitti degli imprenditori e anche i salari medi risultavano inferiori. In questo periodo quindi iniziava a prendere piede nuovamente il protezionismo tra gli stati, e anche il colonialismo, principalmente verso l’Africa, l’Asia e l’Oceania. Il periodo antecedente quello della Prima Guerra Mondiale è detto in Francia “Belle Epoque”, sostanzialmente è un periodo dove affiorano i benefici della seconda rivoluzione industriale, di espansione industriale e di prodotti derivanti dall’industria, di altri tipi di energia (elettrica ed anche petrolifera), e dove vengono scoperti nuovi bacini aurei in Canada ed Alaska.

Col chiudersi dell’epoca vittoriana (1837-1901), si assiste ad un lento declino dell’Inghilterra, che non era più né la prima potenza mondiale né il paese più industrializzato, anche se la nazione manteneva il primato nel commercio internazionale, grazie alle colonie con cui, a differenza degli altri stati, conservava dei rapporti preferenziali (Williams R., 1972). Le cause del declino inglese sono da ricercarsi nel calo di crescita dell’industria manifatturiera, e anche negli svantaggi del “il first comer” nel campo dell’industrializzazione (Ceccarelli G. M., 2006) Infatti la Gran Bretagna aveva agevolato la strada alle altre nazioni che si stavano industrializzando, già durante la prima rivoluzione industriale paesi come gli Stati Uniti e la Germania crescevano più

14Questa clausola faceva sì che i paesi contraenti dovessero estendere reciprocamente il trattamento più

favorevole possibile, in una determinata materia (navigazione, commercio), stabilendolo con le altre nazioni all’interni del trattato (Rota M.,2013).

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38 velocemente (durante la seconda fase) della madre patria industriale. Inoltre, un’ulteriore, e probabilmente la maggiore causa del declino è da ricercare anche nella lentezza dell’innovazione nel Regno Unito. Infatti parte delle tecnologie industriali inglesi, erano diventate obsolete ma gli imprenditori rimanevano restii ad innovarle perché comunque non subivano sostanziali danni, almeno inizialmente, grazie ai vantaggi commerciali che avevano con le proprie colonie (De Simone E., 2014). Paesi come la Francia, la Germania, gli USA e anche il Giappone, anche se in ritardo durante la prima rivoluzione, continuarono la loro crescita durante la seconda industrializzazione, in maniera diversa ma efficacie, soprattutto gli Stati Uniti, i quali si apprestavano a diventare la prima potenza mondiale. La Russia e L’Italia invece stavano iniziando la loro innovazione, ma erano in netto ritardo rispetto ai paesi sopra citati (3.3), la prima era ancora arretrata, la seconda presentava un netto squilibrio tra il Nord ed il Sud del paese (Vasta M., 1999). Il mondo lavorativo, quindi, cambiava con l’introduzione del Taylorismo, spiegato precedentemente (2.3). Nuove figure nascevano, figure come quelle appartenenti allo staff dirigenziale, ma anche i manager che controllavano le sezioni delle catene di montaggio, ed anche gli operai specializzati. Queste figure erano quindi figure con alti livelli di istruzione, e quindi che ricevevano alti salari. L’introduzione dei macchinari permetteva ai lavoratori un minore sforzo, quella invece del modello scientifico, una riduzione delle ore lavorative fino ad otto ore giornaliere, malgrado la ripetitività delle loro mansioni.

È possibile fornire qualche dato riguardante il PIL pro capite di alcuni paesi durante il periodo industriale, più precisamente a partire dal 1820. Nella figura 2, si può osservare l’andamento dei PIL di due paesi occidentali, della Cina, e dell’area Europa. Il periodo preso in considerazione è ampio, ma è importante ai fini di quest’analisi, osservare quanto l’incidenza del PIL di Europa e USA su quello mondiale, era salita durante le rivoluzioni

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39 industriali, dal 1750 agli anni pre-guerra. Di contro il PIL cinese ha progressivamente perso incidenza in termini percentuali sul PIL mondiale. Infatti, il PIL della Cina, si è sviluppato solo successivamente (seconda metà del XX secolo), (Maddison A., 2006). Questo può fare capire la grande crescita che il PIL delle aree più industrializzate ha avuto durante le prime due rivoluzioni.

FIGURA 2

Fonte: Coccia M., 2016 elaborazione su dati Maddison A.(2006)

Tutto ciò indica quindi lo sviluppo economico apportato dalle rivoluzioni industriali nei paesi Occidentali. Le tecnologie e le innovazioni introdotte in questi paesi durante i periodi di industrializzazione hanno permesso un notevole aumento del PIL e del PIL pro capite in queste aree del mondo. È quindi importante sottolineare la correlazione tra lo sviluppo tecnologico e l’aumento di indicatori come il PIL (Maddison A., 2006). Tra il 1820 ed il 1990, vi è stato un incremento dei consumi di energia e lo sviluppo del PIL pro capite sono aumentati notevolmente. Infatti, il PIL pro capite è aumentato globalmente 14 volte ed il consumo di energia di 7. Quindi, nei quasi due secoli presi in

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