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La solidarietà sociale nel pensiero di Duguit

Un primo risultato dell’analisi sin qui sviluppata è che la solidarietà, categoria concettuale assai meno unitaria di quanto il suo uso comune lasci intendere, si costituisce come interna alla sfera normativa se non

considerata come ideale. In questo senso, piuttosto, può essere avvicina- ta alla carità, una delle “virtù teologali” nella dottrina della Chiesa, ma non è però per questa via che si positivizza scientificamente. Essa assur- ge, invece, a categoria della scienza del diritto, e, quindi, oggetto di in- dagine sociologica, a patto di essere intesa sotto un profilo fattuale, sen- za risolversi nella sfera dell’essere: è nella misura in cui non è assimilata ad un valore, ad un ideale, tale che ne derivino obblighi di natura mora- le, che acquista il primato in quanto significante, in grado di organizzare quel campo discorsivo che ha caratterizzato, così significativamente, il terreno ideologico mitteleuropeo a cavallo tra la fine ‘800 e i primi de- cenni del ‘900.

In definitiva, si può parlare di solidarietà solo se intesa in senso fat- tuale, come base sociologica su cui fondare una normatività non derivan- te da principi, o, comunque, una regola sociale in grado di costruire i presupposti di un relativo adeguamento tra fatto sociale e norma giuri- dica: abbiamo visto, seppur nelle grandi linee, come questo sia il tipo di approccio adottato dai solidaristi, e, in particolare, Fouillée, Secretàn, Bouglé ma anche dallo stesso Bourgeois.

Se la problematica della solidarietà è affrontata da Duguit in un sen- so molto diverso da quello degli altri teorici che promuovono, negli stes- si anni, questo stesso significante, inteso come costitutivo di formazioni discorsive, in cui si intrecciano diritto, morale e politica, è da intendersi in una linea che è quella di un’entità fattuale, non senza, però che da sif- fatta considerazione derivino conseguenze nella sfera normativa. Nell’approccio di Duguit, la solidarietà si caratterizza per il fatto che non diventa oggetto scientificamente significativo in quanto valore, non costituendo, in sé, fonte di obblighi o di comportamenti rilevanti e, in questo senso va distinta, tanto dalla fraternità repubblicana quanto dalla carità cristiana, che si costituiscono, invece, alla stregua di valori, di comportamenti eticamente auspicabili, traducibili in norme legislative o comandamenti religiosi, che si danno, in entrambi i casi, nella forma dell’imperativo. Né si tratta di derivare giudizi di valore da giudizi di fat- to: in campo non vi è una possibile filosofia del valore, intesa in senso neo-kantiano, filosofia cui pure il giurista si rivela molto interessato, sen- za però acquisirne né i risultati né la metodologia118. Dall’altro, si rivela

118 La posizione di Duguit sulle “filosofie del valore” che imperano in quegli anni,

insieme al sostanziale diniego delle stesse, sono oggetto dell’attenta disamina di Roger BONNARD (Les idées de Léon Duguit sur les valeurs sociales (avec des inédits de Duguit),

in «Archives de philosophie du droit et de sociologie juridique», 1932, pp. 7-19), che riporta anche una serie di appunti manoscritti del giuspubblicista sull’argomento.

strumento epistemologicamente rilevante, per il cui tramite superare l’individualismo metodologico che caratterizza il pensiero degli altri esponenti di questa scuola (si pensi, come si è visto, alle teorie dell’”organismo contrattuale” in Fouillée o al “quasi contratto” di Bour- geois). La linea di demarcazione netta tra il giuspubblicista bordolese e gli studiosi che l’hanno preceduto nel definire la solidarietà come feno- meno sociale consiste, invece, nell’elaborazione di una teoria che, esclu- dendo del tutto, almeno inizialmente, il primato della dimensione ideale, opera metodologicamente ‘purgando’ quest’elaborazione da ogni ele- mento di natura individualistica.

Se la solidarietà è fondamento di una regola di condotta generale, lo è solo indirettamente, in quanto entità squisitamente fattuale: «La soli- darité n’est pas une règle de conduite: elle est un fait, le fait fondamental de toute société humaine. Elle n’est pas un impératif pour l’homme; mais, si l’homme veut vivre, comme il ne peut vivre qu’en société, il doit conformer ses actes à la solidarité sociale»119.

Il giurista transalpino assume, almeno in parte, come si è detto, i ri- sultati della ricerca di Durkheim, alla cui scuola pure si è formato e che, tra l’altro, ha conosciuto e frequentato direttamente negli anni in cui l’autore de La divisione del lavoro sociale insegna a Bordeaux.

La solidarietà, intesa come pivot dell’organizzazione sociale è total- mente iscritta nella dimensione fattuale, inclusiva, a tutti gli effetti, della componente normativa. Ubi societas, ibi ius: essere e dover essere, socie- tà e diritto non sono considerati fenomeni essenzialmente eterogenei: il diritto, naturalisticamente inteso, come parte di un progetto di positiviz- zazione del sapere giuridico, è oggetto di null’altro che di una costata- zione di un fatto, vertente su un’area che è a tutti gli effetti un’intersezione tra sfera sociale e sfera normativa: il gruppo sociale ten- de a sanzionare atti o fatti non conformi alla propria struttura sociale, per cui il diritto, formalmente inteso, da un lato istituzionalizza la re- pressione di quei comportamenti contrari ai vincoli solidaristici, nella rappresentazione che i singoli se ne fanno, in quanto membri di un de- terminato gruppo, d’altro, però, in maniera esattamente speculare, le stesse norme, per essere valide nel senso dell’efficacia, devono essere percepite come tali, e, quindi, non devono essere oggetto di riprovazione sociale. Due corollari a quest’argomento: da un lato, la riprovazione so- ciale ad un determinato comportamento non è altro che un ‘sintomo’

119 Per una disamina del fondamento socioligico delle idee di Duguit, cfr.: A.

FRAGUEIRO, Il fondamento sociologico del diritto nel pensiero di Léon Duguit, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1929, pp. 361-75.

della non-adeguatezza di un determinato comportamento allo stato og- gettivo dei costumi; dall’altro, nel dispositivo solidaristico che Duguit mutua da Durkheim, la sanzione non è altro, se non una forma di ripro- vazione sociale, istituzionalizzata.

Quest’approccio, agito retroattivamente, cioè ribaltato sul diritto che è stato vigente, implica che la normatività storicamente efficace è da considerarsi espressione di un diritto sostanzialmente legittimo sul piano materiale, nel senso della sua rispondenza a quelle condizioni sociali, di cui la solidarietà è espressione paradigmatica.

In questa cornice teorica, pensare il rapporto tra solidarietà e norma- tività significa situarsi oltre il diritto scritto, per pensare organicamente non solo, sulla scorta dell’insegnamento di Durkheim, il nesso tra socia- lità e sanzione, quant’anche, in maniera del tutto conseguente, quello tra solidarietà e diritto formalmente inteso. Le dimensioni della validità e dell’efficacia sono connesse organicamente, nel senso che bisogna pensa- re il diritto storicamente consolidato necessariamente rispondente a condizioni socialmente oggettive; da qui, la subordinazione strutturale della validità del diritto alla sua efficacia, intesa, lo si ribadisce, come congruenza a condizioni sociali oggettive. Non tutto il diritto è scritto, e non tutto il diritto che è prodotto formalisticamente dalle fonti formali è da considerarsi valido in senso sostanziale. Al tempo stesso, in virtù di questo stesso ragionamento, il diritto che ha avuto effetti in un gruppo o società determinata, è da considerarsi effettivo in virtù della sua capacità di tradurre normativamente istanze solidaristiche.

Ora, come si è detto, le stesse norme di diritto possono essere ogget- to di riprovazione sociale, ma è importante notare come non esista, a ca- rico delle fonti formali e della scienza giuridica, un vero e proprio impe- rativo che prescriva loro di dover essere ‘adatte’ al contesto sociale cui vanno a riferirsi. In questo senso, per Duguit, esiste una perfetta simme- tria tra il modo in cui è costruito il modello teorico della norma e il mo- do in cui si pensa la scienza giuridica: in entrambi i casi si assiste ad una riduzione del dover essere all’essere, del Sollen al Sein, dell’imperativo all’indicativo: se vorranno essere efficaci, ossia adeguate al contesto che vanno a disciplinare, le norme saranno costruite secondo determinate modalità piuttosto che su altre, ma non si dà un obbligo assoluto in que- sto senso.

Prima di addentrarci oltre, nelle questioni, assai delicate, relative al rapporto tra sfera sociale e sfera normativa, che saranno oggetto dei prossimi capitoli, si ricostruiranno i contenuti del pensiero duguista in materia di solidarietà: in questo senso, il punto di partenza è la sostan-

ziale riduzione della socialità al pensiero individuale. In questo senso, rispetto all’evoluzione del pensiero di Durkheim, il cui iniziale interesse per i “fatti sociali”, intesi come cose, è progressivamente sostituito da quelle formazioni al limite tra lo psichico e il sociale che egli stesso defi- nisce “rappresentazioni collettive”, segnando peraltro una certa caduta del tenore epistemologico del suo discorso, possiamo situare il pensiero di Duguit in una linea intermedia.

Da un lato, vi è la recisa negazione dell’esistenza di realtà quali le “rappresentazioni collettive”, che per il giurista avrebbero lo statuto di entità metafisiche non controllabili scientificamente; dall’altro, il fulcro della sua ricostruzione verte, per intero, rispetto all’individuo (conside- rato alla stregua di un’entità fattuale) e alla sua coscienza, i cui contenuti possono essere, essi stessi, sociali o individuali. Inoltre, mentre in Dur- kheim il riferimento a Descartes è di tipo metodologico, per cui ha senso fare riferimento alle “regole del metodo sociologico”, in Duguit la lezio- ne del filosofo è assunta in un senso diverso. Infatti, per Duguit, Descar- tes con il suo cogito non avrebbe fatto altro, se non formalizzare uno sta- to di fatto, e questo, dal momento che: «Oui, la seule chose qui puisse être affirmée et qui doit être à la base de toute étude sociale, c’est la pen- sée individuelle consciente d’elle même. Le fait irréductible, qui est au commencement de tous les phénomènes dont l’homme est le facteur, c’est la pensée individuelle consciente d’elle même»120. L’individualismo,

nella sua forma filosofica (il cogito cartesiano) e normativa (la Dichiara-

zione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’89), avrebbe, semplicemen-

te dato un’armatura formale di quello che sarebbe un semplice fatto. A rigore, non esisterebbero, allora, i “fatti sociali” di cui parla Dur- kheim, bensì, si darebbe un contenuto sociale della coscienza individua- le: la coscienza resta un fatto individuale, ma, quanto al suo contenuto, se ne deve evidenziare l’intrinseca socialità.

Per Duguit, l’unico accesso possibile alla nozione di “fatto sociale” è costituito dal contenuto sociale della coscienza individuale. È su questa base, sulla costatazione cioè di questo fatto, che il giurista costruisce quella che è la teoria dell’atto giuridico. La più semplice delle osserva- zioni conduce alla conclusione che la coscienza tende ‘naturalmente’ ad esteriorizzarsi e che l’individuo si rivolgerebbe ‘in-tenzionalmente’ verso il mondo. Questa tendenza è tanto più forte quanto più i contenuti della coscienza si danno in una forma che è chiara (essa stessa cartesiana): Duguit definisce la volontà non come un’entità pulsionale, ma come la

120 L. D

tendenza cosciente del pensiero (questo è un punto che va sottolineato) ad agire verso l’esterno. Volontà è, inoltre, la manifestazione esterna di questa tendenza come azione, azione peraltro volta necessariamente ad un fine.

A questo punto, è chiaro come sia bandita ogni tentazione avente per oggetto la definizione ontologica delle categorie di volontà, azione e scopo, che restano pure entità materiali. In aperta polemica con quanto sostenuto sull’asse Rousseau-Kant, come si vedrà a breve, si afferma che non si danno mai le condizioni a-priori perché la volontà di ciascuno si possa costituire come entità ‘razionale’, e, quindi, legiferante universal- mente. La volontà è e resta un’entità psicologica, che va considerata (contro ogni approccio metafisico, a partire da quello di Aristotele) sulla base di una concezione immanente per molti versi assai vicina a quella di von Jhering, teleologicamente.

La volontà è considerata facoltà che non ha la capacità di trasfigurar- si in entità razionale, in grado di imporsi assolutamente, sulla base di presupposti formali, producendo un imperativo categorico, e in questo filtra, seppur attraverso Jhering, la critica di Schopenhauer a Kant, e la stessa finalità non è da intendersi in senso metafisico, ma empirico. Se la coscienza individuale è un fatto, se il suo contenuto è sociale, e se, anco- ra, questo contenuto varia a seconda storicamente, qualcosa di simile si può dire per la vita associata: essa si costituisce su uno sfondo generale, che è la solidarietà come forma del legame sociale, con contenuti che va- riano storicamente, coincidendo con l’insieme di regole che un determi- nato gruppo conferisce a se stesso, per regolarsi, ossia, per esistere ra- zionalmente, ossia, per situare la morte fuori dal perimetro (simbolico) della propria esistenza. Si tratta di questioni che saranno riprese a pro- posito della struttura dell’atto giuridico: quello che per il momento rile- va è che ogni volizione, per essere efficace, deve essere congruente con l’assetto oggettivo, identificato con i contenuti del vincolo solidaristico, che pertiene ad un gruppo sociale in un determinato momento storico.

Ma che cos’è, per Duguit, la solidarietà? Pur negandosi anche in questo caso ad ogni definizione ontologica dei termini in questione, il giurista bordolese definisce, in perfetta consonanza con quel positivismo sociologico di cui si dichiara alfiere, quell’organizzazione sociale fondata sulla solidarietà, come l’estensione che la vita dà a se stessa per arginare la morte. La solidarietà, dunque, è definita come il ‘proprio’ della strut- tura sociale, per il cui tramite l’individuo, seppur inconsciamente, tenta di porre un argine, un baluardo, a quel malessere, che diventa intellegi- bile solo nel cono d’ombra dell’accettazione della sofferenza, se non del-

la morte, come ambito in cui iscrivere l’esperienza: in questo senso, posi- tivismo e solidarismo si contraddistinguono per la centralità del tema, già spinoziano, del conatus sese conservandi, ossia della conservazione razionale del vivente, come baluardo contro la dimensione psichica e materiale della morte. Per Duguit: «Il nous apparaît surtout comme cette aspiration constante de l’homme à diminuer la somme de souf- frances qui l’atteint, à réaliser le moindre mal, non pas, à vrai dire, à chercher le bonheur (les philosophes ont peut-être raison: parler de bonheur c’est parler de quelque chose d’absolu et qu’on ne peut con- naître), mais à diminuer la douleur du moment»121. Il solidarismo gene-

ra, dunque, un approccio al legame sociale che privilegia, nella forma e nei contenuti, la dimensione della possibile “conservazione in vita” del gruppo sociale di riferimento, valore che si realizza con il massimo ab- bassamento delle tensioni conflittuali, e, in particolare, del livello del do- lore. Approccio che si costituisce, al tempo stesso, come normativo: rea- lizzare la solidarietà come ‘valore’ vuol dire, allora, porre in essere le condizioni normative affinché la società conservi se stessa razionalmente, ossia secondo le stesse ragioni che la strutturano fenomenicamente.

In definitiva, possiamo dire, solidaristico è quell’approccio che esclude radicalmente dal suo orizzonte la “pulsione di morte”: conse- guentemente, la finalità in virtù della quale si dà un ‘obbligo’ a derivare una regola di condotta dalla constatazione della solidarietà, è quello di conservare allontanare il più possibile la dissoluzione, la morte, intesa come limite esterno del legame sociale. Per un dato gruppo sociale, par- lare di preservazione del vivente contro la morte equivale, semplicemen- te, a predicare la conservazione razionale del gruppo stesso.

Il legame sociale, dunque, si conserverà razionalmente se la normati- vità che ne regola l’esistenza risulta conforme ai vincoli di solidarietà che strutturano un determinato gruppo: non esiste, però, un vero e proprio vincolo in tal senso.

Se quanto all’organicità del rapporto tra solidarietà e normatività Duguit recepisce integralmente la lezione di Durkheim, il quale, come visto nel paragrafo precedente, considera solidarietà e normatività stret- tamente connesse, non si può dire lo stesso per il primato che il giuspubblicista di Bordeaux attribuisce all’individuo, che nella sua ri- flessione, ha un valore primario. Se per Durkheim c’è un primato del co-

gito cartesiano sul versante del metodo, ma poi al livello dell’oggetto del-

la ricostruzione sociologica il primato è della dimensione simbolica e

della solidarietà (meccanica o organica), con il risultato che l’individuo è nella sua lettura un effetto della ‘legge’ della progressiva affermazione della solidarietà “per divisione del lavoro”, per Duguit la questione si pone diversamente. Per il giuspubblicista, l’individuo è la realtà empiri- ca che fa da supporto ad entrambe le forme di solidarietà, tanto alla so- lidarietà tramite identificazione, quanto alla solidarietà tramite divisione del lavoro, che altro non sarebbero se non due possibili declinazioni so- ciali del rapporto tra individuo e società. Che l’individuo sia un essere sociale e che come tale debba essere considerato, non vi è dubbio, ma è altrettanto certo che per Duguit la socialità è, come già si è detto “ricer- ca in comune del benessere individuale”.

Che quella dell’individuo sia una “natura sociale”, non impedisce che il gruppo sia considerato logicamente successivo all’individuo, la cui esistenza è sociale e individuale al tempo stesso, ma che resta il pivot, l’asse su cui si struttura ogni considerazione relativa alla natura dei rap- porti tra società e normatività: è nella misura in cui ciò il singolo è mosso dal suo stesso voloir vivre, volontà di rimuovere la negatività dal tessuto del vivente, l’uomo rende sempre più intensa la vita sociale, intensifi- cando i nessi associativi. È nella misura in cui, per motivi diversi come la coabitazione, le credenze religiose, i pericoli, le sofferenze, le malattie, la gestione dei bisogni materiali, si creano processi psicologici di identifi- cazione, e, soprattutto, nella misura in cui è chiara la percezione che de- terminate necessità possono essere assolte meglio in comune, che la co- munità dei pensieri individuali entra «dans la conscience des membres du groupe»122.

Alla base dei sentimenti di solidarietà, dunque, vi sarebbe il bisogno dell’uomo di diminuire la sofferenza individuale, bisogno che si traduce nella coscienza della misura in cui la vita in comune può rendere il lega- me sociale cogente: resta il fatto, che questa percezione è e resta indivi- duale. È al livello della coscienza individuale, allora, che la socialità si istalla: al livello del gruppo, per Duguit, non vi è nessuna possibile rap- presentazione comune, è, ancora, al livello della coscienza individuale che l’uomo percepisce la possibilità che la messa in comune di certe fun- zioni allevi le difficoltà della vita: l’affermazione della necessità dei vin- coli sociali e la loro sempre più stretta configurazione vengono colte sempre e comunque da una coscienza che è e resta individuale. L’individuazione di una comunità di bisogni, la coscienza che la loro ge- stione comune li rende più facilmente gestibili sono comunque realtà il

cui soggetto è solo ed esclusivamente l’individuo. Individualizzazione e socializzazione, nella lettura di Duguit, procedono di pari passo, nel sen- so che la coscienza della socializzazione dei bisogni accresce la coscienza individuale, quale coscienza di sé.

L’individuo è più strettamente tale nella misura in cui percepisce il suo legame con altri, sia in quanto membro dell’umanità, sia in quanto appartenente ad un gruppo determinato, e la sua coscienza individuale si accresce quanto più i suoi contenuti si socializzano. Rispetto alle facoltà psichiche, questa riflessione sulla solidarietà si basa su una concezione essenzialmente monista: intelletto, volontà e azione non sono facoltà qualitativamente distinte, che possono armonizzarsi unitariamente nell’individuo: piuttosto, la volontà non è altro che un’esteriorizzazione dell’intelletto e, a sua volta, l’azione non è se non esteriorizzazione della volontà; così: «Si l’homme comprend plus de choses, s’il les comprend mieux, il voudra plus de choses, il les voudra plus fortement, et son ac- tion externe sera plus intense. Dès que l’homme a compris qu’il avait les