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CAPITOLO I ORIGINE ED EVOLUZIONE

1. Le privatizzazioni delle imprese pubbliche negli ann

1.6. La trasformazione degli enti pubblici economici e

pubbliche

Uno dei massimi esperti delle partecipazioni statali, Pasquale Saraceno, già nel 1965 bene inquadrava il problema delle privatizzazioni nei seguenti termini: «le dimensioni del sistema delle partecipazioni statali, oltre che aumentare per l’espansione delle imprese e per acquisizione dal capitale privato, possono diminuire per effetto di smobilizzi o privatizzazioni, come

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Sono le parole di G.AMATO, Economia, politica e istituzioni in Italia, op. cit., pp. 111- 112. Più in generale sullo stesso tema cfr. G.AMATO,(a cura di), Il governo dell’industria

in Italia, Bologna, il Mulino, 1972.

vengono denominate le cessioni a privati di partecipazioni statali. Poiché […] una impresa è a partecipazione statale non in conseguenza di un impiego di capitale effettuato dallo Stato per dare incremento alle entrate fiscali, ma per raggiungere finalità di interesse generale, ove il perseguimento di tali finalità non richieda più l’utilizzo dello strumento «impresa», la partecipazione deve essere ceduta, s’intende se le condizioni, cui la cessione può avere luogo, sono giudicate convenienti. È coerente con il sistema di pensiero sul quale poggia una economia di mercato l’affermazione che lo smobilizzo di partecipazioni non richieste dall’azione pubblica deve, e non solo può, essere effettuato; se ciò non avvenisse l’azione pubblica che si rivolge per mezzo del sistema delle partecipazioni statali avrebbe come fine anche la riduzione dell’area dell’impresa privata. […] Si deve allora concludere che in un Paese ad economia di mercato è il «non» smobilizzo che va politicamente giustificato e non lo smobilizzo»50. L’analisi delle procedure di privatizzazione degli enti di gestione e degli enti economici dimostra, tuttavia, come il legislatore abbia costantemente concepito gli smobilizzi non come uno strumento di perseguimento di interesse pubblico, bensì come mezzo per migliorare lo stato dei conti pubblici.

Le disposizioni da cui prendere le mosse in relazione al tema della trasformazione degli enti pubblici economici sono quelle contenute nel d.l. 5 dicembre 1991, n. 386 (“Trasformazione degli enti pubblici economici, dismissione delle partecipazioni statali ed alienazione di beni patrimoniali suscettibili di gestione economica”), convertito dalla l. 29 gennaio 1992, n. 35 e nel d.l. 11 luglio 1992, n. 333 (“Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica”), convertito con modificazioni dalla l. 8 agosto 1992, n. 359.

Per quanto riguarda il primo testo normativo citato, esso risultava molto scarno ed essenziale, essendo composto solo da tre disposizioni. L’art. 1, 1° c., fissava il principio della privatizzazione formale, recitando quanto segue: «gli enti di gestione delle partecipazioni statali e gli altri enti pubblici

50 P.S

economici, nonché le aziende autonome statali, possono essere trasformati in società per azioni». Questo dato letterale già di per sé non chiariva a sufficienza se la trasformazione in questione fosse oggetto di una facoltà oppure di un obbligo; e, nel caso in cui si fosse optato per la seconda scelta, come in effetti è avvenuto, non si spiegava quale soggetto fosse gravato da tale obbligo51.

L’art. 1, 5° c. enunciava un principio generale, secondo il quale «le società di cui al comma 1 sono sottoposte alla normativa generale vigente per le società per azioni; è fatta salva la disposizione di cui all'articolo 14 della legge 12 agosto 1977, n. 675, in materia di revisione dei bilanci d'esercizio». Apparentemente, dunque, il legislatore sembrava prendere una posizione esplicitamente contraria al sistema delle società legali, sembrava volere cioè superare il sistema derogatorio del diritto comune proprio delle società partecipate. Tuttavia il decreto conteneva altre regole che contrastavano nettamente con la precedente enunciazione generale52: l’approvazione, con decreto del Ministro del bilancio e della programmazione economica, di concerto con il Ministro del Tesoro e con i Ministri competenti, delle delibere relative alle trasformazioni e all’esercizio del diritto di voto (art. 1, 4° c.); la soggezione delle società agli interessi di carattere generale (ai sensi dell’art. 1, 7° c.); la previsione di condizioni e indirizzi per le alienazioni di partecipazioni (art. 1, 9° c.).

La legge, inoltre, non si curava di descrivere il procedimento che si sarebbe dovuto seguire in concreto per le trasformazioni in questione: si prevedeva infatti un intervento del Cipe per la determinazione dei criteri, seguito da una delibera di trasformazione da parte degli organi degli enti, infine l’approvazione della deliberazione da parte del ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, di concerto con il ministro del Tesoro e i

51

Lo rammentano P. G. JAEGER, Privatizzazioni (profili generali), in Enc. giur., XXIV, Roma, 1995, p. 2 e R. GAROFOLI, La privatizzazione degli enti dell’economia, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 180 e 181.

52 Come osservato da P. S

CHLESINGER, La legge sulla privatizzazione degli enti pubblici

ministri competenti. Il fatto che la procedura non fosse scolpita in un testo legislativo ma fosse delegata all’amministrazione ha poi comportato che il Cipe, nella delibera del 25 marzo 199253 che definiva il quadro generale di politica economica nel quale inserire le singole decisioni di privatizzazione formale, individuasse criteri non del tutto in sintonia con le previsioni di legge e che si desse avvio, nel giugno del 1992, alla trasformazione delle Ferrovie dello Stato e dell’Eni sulla base della delibera fissata dal Cipe, ma non del tutto coerente con la legge54.

La delibera del Comitato Interministeriale sanciva che «tutti gli enti di gestione delle partecipazioni statali, le aziende autonome statali, gli enti fieristici, nonché i seguenti altri enti: Enel, Ente Ferrovie dello Stato, Ice, Ina, Sace, Siae sono tenuti a predisporre un programma per la trasformazione in società per azioni». In sostanza il Cipe, con propria delibera, invitava gli enti oggetto di trasformazione a partecipare al procedimento della definizione dei criteri e delle modalità della trasformazione stessa: in altre parole, gli enti pubblici economici dovevano essere artefici della loro trasformazione. Non c’è dubbio che proprio questa voluta e prevista partecipazione degli enti abbia rappresentato da subito l’anello debole nella catena delle privatizzazioni, a tal proposito è stato osservato che «le maggiori difficoltà sono derivate proprio dalla condotta tenuta dagli enti interessati, che in larga parte hanno omesso di presentare i programmi di trasformazione, alcuni evidenziando le obiettive difficoltà, sul piano tecnico-procedurale, di una loro trasformazione societaria e

53 Pubblicata in G. U. 2 aprile 1992, n. 78. 54 Sul punto cfr. L. A

MMANNATI, Le privatizzazioni in Italia: alla ricerca di un progetto, in L. AMMANNATI (a cura di), Le privatizzazioni delle imprese pubbliche in Italia, Milano, Giuffrè, 1995, la quale osserva che passaggi legislativi e amministrativi di questo tipo «fanno riflettere sulla incapacità del legislatore a coordinare in un unico disegno i vari processi e sulla completa mancanza di chiarezza riguardo gli obiettivi e i risultati possibili delle privatizzazioni, come dimostra la generica individuazione dei potenziali destinatari delle norme e la evidente disattenzione per le procedure» e ancora «la politica delle privatizzazioni procede senza regole individuando di volta in volta per ogni singolo caso criteri e formule eccezionali» (p. 16).

prospettando la tecnica dello sdoppiamento dell’ente o, meglio, della conservazione dell’ente pubblico per l’espletamento delle funzioni di stampo squisitamente pubblicistico, con costituzione di un nuovo soggetto giuridico, avente veste societaria, cui affidare l’esercizio dell’attività propriamente imprenditoriale; altri, ancora, sottolineando i disagi derivanti dall’omessa disciplina legislativa di taluni profili inscindibilmente connessi al passaggio dalla forma pubblica a quella societaria, tra cui, in specie, quello afferente alla sorte dei rapporti di concessione»55.

Il decreto 386/1991 e la legge di conversione 35/1992 hanno quindi rappresentato un fallimento di natura politica ed economica, nonché una prima battuta d’arresto nel processo di privatizzazione delle imprese pubbliche, con conseguenze certamente di non poco conto che avrebbero influenzato in maniera decisiva il successivo arretramento dello Stato imprenditore: «l’effetto puramente proclamatorio e velleitario della legge n. 35 contribuisce a provocare quella ulteriore crisi di credibilità della politica economica nazionale che determina, nel corso dell’estate, la fuoriuscita dallo SME e la pesante svalutazione della lira»56.

Successivamente, complice anche l’avvicendamento a livello dell’esecutivo57

, si cercò di perseguire più direttamente e incisivamente lo scopo della privatizzazione con il citato d.l. 333/1992.

La norma fondamentale di questo testo normativo si ricava dall’art. 15, 1° c., che sanciva che «l'Istituto nazionale per la ricostruzione industriale - IRI, l'Ente nazionale idrocarburi ENI, l'Istituto nazionale assicurazioni - INA e l'Ente nazionale energia elettrica - ENEL sono trasformati in società per azioni con effetto dalla data di entrata in vigore del presente decreto».

55

R.GAROFOLI, La privatizzazione degli enti dell’economia, op. cit., pp. 184 e 185. 56

G.DI GASPARE, Privatizzazioni (privatizzazione delle imprese pubbliche), in Enc. giur., XXIV, Roma, 1995, p. 7.

57

Il VII Governo Andreotti (12 aprile 1991 – 24 aprile 1992), l’ultimo della X Legislatura (2 luglio 1987 - 2 febbraio 1992) lasciò infatti spazio al I Governo Amato (28 giugno 1992 – 28 aprile 1993), il primo governo della XI Legislatura (23 aprile 1992 - 16 gennaio 1994).

L’immediata trasformazione di enti pubblici in società per azioni poneva subito due problemi rilevanti: in primo luogo era necessario individuare il capitale e gli azionisti di queste nuove società; in secondo luogo bisognava comprendere a quale sorte fossero destinate le funzioni attribuite per legge ai precedenti enti pubblici economici, ossia bisognava capire se le società potessero continuare a svolgere le attività che avevano sempre svolto sulla base di una concessione pubblica58.

Le risposte al primo problema erano contenute all’art. 15, 2° e 3° c., che disponevano l’accertamento del capitale iniziale delle società per azioni derivanti dalla trasformazione «con decreto del Ministro del tesoro in base al netto patrimoniale risultante dai rispettivi ultimi bilanci»59 e attribuivano la totalità delle azioni delle predette società al Ministero del Tesoro, il quale era chiamato a esercitare i diritti dell’azionista, secondo le direttive del presidente del Consiglio dei Ministri, di intesa con il ministro del Bilancio e della Programmazione Economica e con il ministro dell’Industria, del Commercio e dell’artigianato. Si rende opportuno specificare che il capitale sociale iniziale così individuato era considerato solo provvisorio e doveva essere successivamente «accertato in via definitiva» da una società designata dal ministro del Tesoro. Tale soluzione ha dato luogo a non poche perplessità60.

Al secondo problema, ossia l’individuazione delle attività delle nuove società, dava risposte l’art. 14 del decreto, che stabiliva che le attività

58 Ad esempio l’Eni era affidatario per legge della ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi nella pianura Padana e l’Enel era investito per legge delle attività di produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica.

59 È quanto recita l’art. 15, 2° c., a seguito della modifica operata dal d.l. 21 giugno 1993, n. 198 (“Norme urgenti sull'accertamento definitivo del capitale iniziale degli enti pubblici trasformati in società per azioni, ai sensi del capo III del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359”), convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 1993, n. 292.

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Su queste perplessità si rinvia più nel dettaglio a P. G.JAEGER, Privatizzazioni (profili

generali), op. cit., p. 3, secondo il quale questa previsione poco felice sarebbe «frutto di un

riservate per legge agli enti pubblici restassero attribuite a titolo di concessione alle società per azioni, per una durata non inferiore a venti anni. È evidente che questa soluzione contrastava non poco con il principio della concorrenza, che avrebbe imposto di affidare le concessioni per mezzo di una gara, determinando la durata delle stesse sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie61.

Il d.l. 333/1992, oltre a trasformare direttamente gli enti pubblici elencati specificamente, prevedeva, come il precedente intervento legislativo del 1991, una procedura di trasformazione delegata al Cipe e fissata all’art. 18: «previa comunicazione da inviare alle Camere con un anticipo di almeno quindici giorni, il CIPE potrà deliberare la trasformazione in società per azioni di enti pubblici economici, qualunque sia il loro settore di attività. La deliberazione del CIPE produce i medesimi effetti di cui al presente decreto». Ed è proprio sulla base di questa previsione che si è portata a termine la privatizzazione formale delle Ferrovie dello Stato iniziata per effetto del precedente decreto del 1991.

Così operando è vero, da un lato, che il Parlamento, convertendo il d.l. 333/1992, ha trasformato di imperio due enti di gestione e altrettanti enti economici, ma è anche vero, dall’altro lato, che esso si è del tutto privato sia di qualsiasi potestà decisionale in ordine alla privatizzazione formale di altri enti pubblici economici, sia di ogni facoltà di controllo sulle deliberazioni adottato dal comitato, rimettendo in tal modo a quest’ultimo la scelta di strutturare strategiche presenze imprenditoriali dello Stato nell’economia. Provando a schematizzare le procedure delineate dai vari testi normativi fino ad ora esaminati, nell’ottica di cercare un coordinamento tra discipline che rischierebbero una sovrapposizione, si può constatare che per la privatizzazione delle aziende autonome doveva applicarsi il d.l. 386/1991, come successivamente convertito in legge, mentre per la privatizzazione degli enti pubblici economici trovava applicazione esclusivamente la disciplina sopravvenuta del d.l. 333/1992, come poi convertito.

61 Cfr. sul punto E. F

RENI, Le privatizzazioni, in S. CASSESE (a cura di), La nuova

Si possono ora enucleare le ragioni che hanno spinto il legislatore italiano verso la privatizzazione degli enti pubblici economici. Le finalità e gli scopi della grande stagione delle privatizzazioni degli anni Novanta sono riassunte all’art. 16 del d.l. 333/1992. Il primo comma prevedeva, tra l’altro, che «il programma di riordino delle partecipazioni […] è finalizzato alla valorizzazione delle partecipazioni stesse, anche attraverso la previsione di cessioni di attività e di rami di aziende, scambi di partecipazioni, fusioni, incorporazioni ed ogni altro atto necessario per il riordino».

Il secondo comma aggiungeva che tale programma di riordino «deve prevedere la quotazione delle società partecipate derivanti dal riordino delle attuali partecipazioni e l'ammontare dei ricavi da destinare alla riduzione del debito pubblico».

Tutta la politica di privatizzazioni di questi anni è sintetizzata nelle poche righe dell’art. 16. Sotto la pressione della crisi di finanza pubblica, lo scopo è da una parte la riduzione dell’indebitamento pubblico62, come preteso dai vincoli comunitari63, dall’altra il ridimensionamento delle imprese pubbliche, nella prospettiva di un miglioramento dell’efficienza.

62 Molto critico su questo F. C

AVAZZUTI, Privatizzazioni, imprenditori e mercati, op. cit., p. 21: «rimane il fatto che […] le imprese da privatizzare (Enel, Eni, Imi, Ina, Crediop) vennero individuate non tanto in base a una strategia che potesse rafforzare il tessuto finanziario e industriale italiano, ma soltanto per il contributo che esse potevano dare al risanamento del bilancio pubblico o a quello del gruppo di appartenenza». Critiche, a dire la verità, che risultano fuori da ogni considerazione storica e, come è noto, volenti o nolenti, dalla realtà storica non si può prescindere. La realtà italiana dell’epoca era quella di una crisi economica e politica che aveva sfiorato un punto di non ritorno: il fatto che non vi sia stata una molto ponderata politica di privatizzazioni non deriva dal fatto che le imprese da privatizzare furono scelte per fare cassa, scelta obbligata e dovuta alla necessità della salvezza dell’economia nazionale, ma dipende dall’assenza di una seria politica finanziaria che aveva caratterizzato l’Italia dalla fine del boom economico fino agli inizi degli anni Novanta e che aveva fatto paurosamente crescere debito e deficit pubblici.

63

Sul punto si riporta un’interessante osservazione di P. PIRAS, Le privatizzazioni tra

aspirazioni all’efficienza e costi sociali, op. cit., pp. 73-74: «Il programma di

privatizzazioni intrapreso nel 1992, ma non ancora concluso, grazie alla graduale dismissione delle partecipazioni dello Stato o attraverso le operazioni di vendita gestite

Sintomatico dello scopo dell’abbattimento del debito pubblico è il fatto che dominus dei programmi di riordino della partecipazioni e dei programmi di privatizzazione e cessione fosse individuato nel ministro del Tesoro, anziché nei tradizionali organi collegiali di governo dell’economia o nel ministro delle Partecipazioni Statali: è dunque questo ministro il responsabile principale del risanamento finanziario, per perseguire il quale le privatizzazioni risultano prioritariamente finalizzate. Così da un lato, la vendita ai privati di beni e di quote di enti pubblici doveva produrre risorse finanziarie da destinare al ripianamento del debito pubblico, dall’altro ci si attendeva che la riduzione degli enti pubblici comportasse un alleggerimento della spesa pubblica destinata al loro funzionamento.

Per quanto riguarda lo scopo dell’implementazione dell’efficienza e della competitività delle ex imprese pubbliche, si può rammentare che negli interventi di privatizzazione non sono state trascurate le esigenze di migliorare la qualità delle attività prestate e dei servizi erogati a consumatori e utenti. Opinione diffusa in quel frangente storico era che la sostituzione dell’ente pubblico con la persona giuridica privata potesse garantire maggiori livelli di efficienza, una migliore qualità dei servizi e minori costi per la collettività64.

direttamente dal Tesoro, o da società da questo controllate, ha contribuito, in via indiretta, all’ingresso del nostro paese nell’Unione Economica e Monetaria e ha fatto sì che la Commissione Europea abbia, per così dire, “promosso” l’Italia per le grandi privatizzazioni realizzate. In realtà, però, benché negli anni dal 1992 al 2003 le cessioni di quote di aziende pubbliche abbiano determinato introiti, comparati al PIL, superiori rispetto a quelli degli altri paesi europei, se oggi si guarda alle privatizzazioni “effettive”, il nostro Paese ha la maggiore differenza, in termini di PIL, tra il valore delle dismissioni effettuate e quelle effettive collocandosi, conseguentemente, al penultimo posto rispetto agli altri partner europei».

64

Sul punto cfr. E.FRENI, Privatizzazioni, in S.CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto

pubblico, V, Milano, 2006, pp. 4502 ss. Il passaggio da ente pubblico a ente privato

consentiva anche di sancire la ritirata della politica dall’economia pubblica: «la transizione degli enti pubblici verso il diritto privato assolve alla funzione di strumento di separazione della politica dalla gestione» (p. 4503).

Per quanto attiene al programma di riordino elaborato dal ministro del Tesoro, questo indicava in modo sommario l’oggetto degli interventi: dismissione da parte dell’Iri delle partecipazioni bancarie, nonché della Sme; dismissioni da parte dell’Eni del Nuovo Pignone e di alcune aziende minori; quotazione in borsa dell’Eni e delle due più importanti aziende da essa controllate, Snam e Agip; quotazione ufficiale dell’Enel; ristrutturazione dell’Ina, tramite separazione delle attività di interesse pubblico da quelle di interesse privato; ricapitalizzazione della Bnl; dismissione da parte del Tesoro della partecipazione nell’Imi65

.

Una volta trasformati gli enti pubblici in società per azioni con partecipazione statale, occorreva stabilire norme per la vendita delle azioni in mano pubblica, anche perché «un programma di privatizzazione ha successo se appare credibile agli occhi degli investitori, nazionali ed internazionali; se pare cioè destinato a trasferire al settore privato, in modo completo e permanente, la proprietà e il controllo delle imprese»66.

A questo risultato si è giunti con il d.l. 31 maggio 1994, n. 332 (“Norme per l'accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e

65 Così commenta il programma di riordino A. T

AGARELLI, Le procedure delle

privatizzazioni, in L. AMMANNATI (a cura di), Le privatizzazioni delle imprese pubbliche in

Italia, Milano, Giuffrè, 1995, p. 106: «Di fatto la necessità che le operazioni di

privatizzazione riscuotessero una buona accoglienza sul mercato ha portato a favorire la dismissione di imprese solide dal punto di vista patrimoniale, con buoni livelli di profittabilità, così che i loro titoli potessero suscitare l’interesse dei risparmiatori e degli investitori». Anche P. SCHLESINGER, La legge sulla privatizzazione degli enti pubblici

economici, op.cit., p. 126 ricorda la «previsione, inserita nella legge finanziaria per il 1992,

di ricavi per ben 15.000 miliardi da conseguire tramite lo smobilizzo di partecipazioni». 66 D. S

INISCALCO – B.BORTOLOTTI – M.FANTINI – S.VITALINI, Privatizzazioni difficili, Bologna, il Mulino, 1999, p. 61. Gli autori proseguono spiegando che «un risparmiatore, un intermediario specializzato, un investitore straniero impiega i propri risparmi in attività profittevoli, dato un profilo di rischio desiderato. Il rendimento dell’investimento in una società privatizzata è influenzato da fattori transitori, come gli sconti al momento del collocamento, ma dipende essenzialmente dalla bontà della sua gestione, che deve essere sottratta all’influenza della politica e ai rischi di esproprio, presenti non soltanto nelle economie in transizione e nei paesi emergenti».

degli enti pubblici in società per azioni”), convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 1994, n. 474.

Il decreto contiene una disciplina generale per le alienazioni e la disposizione di interesse risulta l’art. 1, 2° c., che stabilisce che «l'alienazione delle partecipazioni […] è effettuata con modalità trasparenti e non discriminatorie, finalizzate anche alla diffusione dell'azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali. Dette modalità di