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Pubbliche amministrazioni in forma societaria: ircocervo o possibile nuovo assetto dei poteri pubblici?

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di giurisprudenza

Corso di laurea magistrale in giurisprudenza

TESI DI LAUREA

Pubbliche amministrazioni in forma societaria: ircocervo o

possibile nuovo assetto dei poteri pubblici?

RELATORE CANDIDATO Chiar.mo prof. Paolo Carrozza Giorgio Mocavini

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INDICE

INTRODUZIONE ... 8

CAPITOLO I - ORIGINE ED EVOLUZIONE

DEGLI ENTI PUBBLICI IN FORMA DI SOCIETÀ

PER AZIONI ………...……….. 14

1. Le privatizzazioni delle imprese pubbliche negli anni

Novanta e la formazione delle società per azioni pubbliche ... 14

1.1. L’inesistente contrapposizione tra Stato e mercato ...……….. 15

1.2. Le tipologie di privatizzazioni ...………...………... 18

1.3. Le ragioni di fondo delle privatizzazioni ... 19

1.4. La nozione di «impresa pubblica» ... 23

1.5. (segue) Il sistema delle partecipazioni statali ... 27

1.6. La trasformazione degli enti pubblici economici e le prime società per azioni pubbliche ... 32

1.7. Le società «legali» derivate dalla trasformazione di altri enti pubblici ... 42

1.7.1. Anas S.p.A. ... 42

1.7.2. Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. ... 44

1.7.3. Enav S.p.A. ... 50

1.7.4. Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A. ... 51

(4)

2. Le società pubbliche istituite ex novo per legge ... 53

2.1. Agecontrol S.p.A. ... 53

2.2. Arcus S.p.A. ... 56

2.3. Coni Servizi S.p.A. ... 58

2.4. Consip S.p.A. ... 59

2.5. Equitalia S.p.A. ... 60

2.6. Italia Lavoro S.p.A. ... 61

2.7. Patrimonio dello Stato S.p.A. ... 63

3. Sulla configurabilità degli enti pubblici

in forma societaria ... 65

3.1. La «neutralizzazione» della forma organizzativa della società per azioni ... 66

3.2. L’«amministrazione per società» ... 68

CAPITOLO II – L’ORGANIZZAZIONE DELLE

SOCIETÀ PER AZIONI PUBBLICHE ... 71

1. Il sistema europeo dei conti pubblici

e gli elenchi annuali dell’Istat ... 71

1.1. Dal SEC 95 al SEC 2010 ... 72

1.2. Gli elenchi dell’Istat ... 74

2. Il sistema dei controlli sulle società

a partecipazione pubblica ... 78

2.1. La disciplina privatistica del controllo nelle società per azioni ... 78

(5)

2.1.2. I poteri degli organi di controllo ... 82 2.1.3. La revisione contabile ... 85 2.2. Il controllo della magistratura contabile

sulle società in mano pubblica ... 86 2.3. Osservazioni conclusive sul sistema

dei controlli nelle società in mano pubblica ... 90

3. Della disciplina relativa ai vertici

dirigenziali delle società pubbliche ... 93

3.1. La facoltà di nomina degli amministratori attribuita al socio pubblico: evoluzione storica

e attuale configurazione della fattispecie ... 93 3.1.1. Potere di nomina ... 94 3.1.2. Potere di revoca ... 97 3.1.3. Le censure del diritto comunitario e

la recente riforma dell’art. 2449 c.c. ... 99 3.2. Ambito di operatività e limiti dello spoil system

nelle società pubbliche ... 104 3.3. Cause di ineleggibilità e

di decadenza dalla carica di amministratore ... 108 3.4. Osservazioni conclusive sulla disciplina relativa

ai vertici dirigenziali delle società pubbliche ... 116

4. La disciplina dei compensi degli

amministratori nelle società partecipate ... 118

4.1. La disciplina di diritto comune

dei compensi degli amministratori di società per azioni ... 119 4.2. La spending review e i limiti ai compensi

degli amministratori delle società partecipate ... 120 4.3. Osservazioni conclusive sui limiti alle retribuzioni

(6)

CAPITOLO III - L’ATTIVITÀ DELLE SOCIETÀ

PER AZIONI PUBBLICHE ... 129

1. Poteri speciali dello Stato e

limitazioni della concorrenza ... 129

1.1. La golden share ... 129 1.2. La golden power ... 131

2. La disciplina dell’accesso

agli atti delle società in mano pubblica ... 133

2.1. Il diritto di accesso agli atti: l’ambito di

applicazione soggettivo individuato dalla legge ... 134 2.2. Il diritto di accesso agli atti: l’ambito di applicazione

soggettivo nella riflessione della giurisprudenza ... 135 2.3. L’accesso agli atti dei concessionari di

servizi pubblici e degli organismi di diritto pubblico ... 139 2.4. Osservazioni conclusive in materia di

diritto di accesso e società per azioni pubbliche ... 142

3. Il regime di responsabilità

degli amministratori delle società pubbliche ... 146

3.1. La scarna disciplina legislativa e l’estensione giurisprudenziale

dei confini della responsabilità amministrativa ... 146 3.2. Responsabilità amministrativa e responsabilità

societaria: diversità di soggetti e di interessi da tutelare ... 151 3.3. L’intervento legislativo del 2007 in tema di esclusione

(7)

3.4. Gli indirizzi della Cassazione sulla responsabilità

amministrativa nelle società partecipate dallo Stato dopo il 2007 ... 156

3.5. Osservazioni conclusive sulla responsabilità amministrativa nelle società in mano pubblica ... 159

CAPITOLO IV - LA SOCIETÀ PER AZIONI

COME

UNO

DEI

MOLTEPLICI

MODULI

ORGANIZZATIVI DEI POTERI PUBBLICI ... 164

1. Una, nessuna e centomila pubbliche amministrazioni ... 164

1.1. La pubblica amministrazione nello Stato liberale monoclasse ... 166

1.2. Lo Stato pluriclasse e la moltiplicazione degli enti pubblici ... 168

1.3. Il polimorfismo della pubblica amministrazione ... 170

1.4. La nozione comunitaria di «pubblica amministrazione» ... 170

2. Società imprese e società para-amministrazioni ... 174

2.1. Sulla corretta applicazione della nozione di «società pubblica» alle sole società imprese ... 175

2.2. Sull’opportunità degli enti pubblici societari ... 177

(8)

INTRODUZIONE

«È certo causa di amarezza constatare che lo Stato non sa di se stesso ciò che il più semplice imprenditore sa della propria impresa»: così scriveva M. S. Giannini nel suo Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, datato 16 novembre 19791.

Conoscere le dimensioni e i livelli di produttività delle proprie imprese è certamente comune per un imprenditore, ma altrettanto non si può dire per lo Stato, dato che nel 2014 sono rimbalzate diverse notizie, non molto accurate, relative al fenomeno delle società pubbliche: nel piano di tagli alla spesa pubblica, che il nostro Paese ha ormai avviato da qualche anno per fare fronte alla crisi del debito, attenzione particolare è stata rivolta al dimagrimento delle «partecipate»2. Logica vorrebbe che si sappia che cosa e quanto ridurre, invece basta leggere qualche pagina di giornale per rendersi conto che il numero delle società pubbliche è ignoto all’amministrazione statale ed è talmente imprecisato che se ne può tentare solo una stima3. Se ne deduce che l’amministrazione dello Stato non ha materialmente la possibilità e gli strumenti per procedere, se non proprio a un censimento, almeno a una mappatura della galassia delle società pubbliche. Questa impossibilità non è certamente dovuta a carenze tecniche del personale

1 Cfr. M.S.G

IANNINI, Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, in Foro it., 1979, V, cc. 298 ss.

2 Come dimostra la lettura del piano di riduzione della spesa redatto dal Commissario straordinario per la revisione della spesa e intitolato Proposte per una revisione della spesa

pubblica (2014-16).

3

Sugli organi di stampa le stime si sono rincorse per mesi e non si ha timore di sostenere che, ad un certo punto, si siano letteralmente dati i numeri: in alcuni casi il totale delle società partecipate ammontava a ottomila, in altri a settemila, in altri perfino a quattromila; in alcuni casi esponenti politici sostenevano la necessità di ridurre queste società a duemila, in altri a mille; in alcuni casi i risparmi, derivanti dai possibili tagli, erano calcolati in milioni di euro, in altri addirittura in miliardi.

(9)

amministrativo dello Stato, ma dipende dalla configurazione assunta e dalla posizione occupata dalle società pubbliche nel nostro ordinamento.

Di quelle partecipate direttamente dallo Stato, per il tramite del Ministero dell’Economia e delle Finanze, si conosce praticamente tutto; i problemi sorgono quando dal livello nazionale si scende al livello locale per approdare sulla costa delle società municipalizzate, delle quali non esiste ancora un elenco.

Riassumendo si può affermare quanto segue: vincoli di economia e finanza pubblica, fin troppo noti, impongono allo Stato di ridurre la spesa pubblica; lo Stato pensa bene di recuperare risorse dalle società partecipate; lo Stato non sa quante siano le società partecipate e non sa nemmeno con precisione quali siano le funzioni da queste svolte. Con queste riflessioni non si vuole certamente condannare un tentativo fin troppo necessario di razionalizzazione della spesa pubblica, ma si vorrebbe attirare l’attenzione sul rischio di tagli completamente arbitrari, rischio abbastanza elevato dato che si conosce solo superficialmente il settore nel quale si intende intervenire. Non è sufficiente un buco di bilancio per potere affermare l’inutilità di una società: bisogna verificare se quella società sia in perdita perché svolge funzioni e assicura servizi che forse potrebbero essere offerti direttamente dalla pubblica amministrazione in un contesto esterno al mercato. Di conseguenza l’auspicio è che prima si pervenga a una conoscenza profonda del fenomeno e che solo successivamente si proceda all’eliminazione di alcune, o della maggior parte, delle società partecipate. Questi brevi riferimenti alla politica economica italiana servono soltanto per spiegare quanto sia attuale il fenomeno delle società partecipate. Un fenomeno che certamente caratterizza il quadro economico contemporaneo, ma che in realtà affonda le proprie radici molto lontano nella storia4.

4

Il fenomeno delle società pubbliche, come si avrà modo di meglio illustrare in seguito, è strettamente connesso con i trascorsi dello Stato imprenditore, che nasce negli anni Venti del secolo scorso, ma è anche indissolubilmente legato alla stagione delle privatizzazioni degli ultimi dieci/venti anni del Novecento. Sul punto cfr. G.MELIS, Amministrazione e

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A ben vedere, inoltre, la rilevanza del tema si apprezza non soltanto sotto il profilo dell’economia politica, ma anche sotto quello del diritto, e specialmente del diritto amministrativo.

Agli occhi del giurista, infatti, i problemi che si pongono in relazione alle società pubbliche sono molti: innanzitutto bisogna capire come sia possibile che determinate società per azioni si trovino soggette a istituti che sono chiaramente di diritto pubblico; in secondo luogo bisogna verificare se abbia ancora un senso parlare di società per azioni per indicare una tipologia di figura organizzativa commerciale o se, nell’ambito del diritto pubblico, la forma societaria possa essere una delle tante strumentali all’esercizio del potere pubblico; infine bisogna capire se sia possibile configurare determinate società come vere e proprie pubbliche amministrazioni.

Il giurista di altri tempi, che accedesse all’impostazione tradizionale secondo la quale vi deve essere una netta distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, tra persona giuridica pubblica e persona giuridica privata, non avrebbe timore di bollare l’idea di una società-amministrazione nello stesso modo in cui Benedetto Croce aveva salutato l’idea politica del liberalsocialismo proposta da Guido Calogero: un ircocervo5.

D’altro canto si potrebbe sostenere che l’organizzazione amministrativa ha già vissuto innumerevoli trasformazioni e mutamenti, i quali certamente non solo non si sono esauriti, ma, al contrario, sembrano caratterizzare anche il periodo storico attuale e acuire le tensioni tra il diritto amministrativo e il diritto privato6.

dirigismo economico: una storia lunga, in D.FELSINI (a cura di), Inseparabili: lo Stato, il

mercato e l’ombra di Colbert, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 175 ss.

5 Si vuole rievocare la polemica scoppiata tra Guido Calogero, che sostenne l’idea di una conciliazione tra il mondo politico liberale e quello socialista nel suo Manifesto del

liberalsocialismo, e Benedetto Croce, che liquidò l’idea del collega nel modo ricordato

all’interno dell’articolo Scopritori di contraddizioni, in La critica, 20 gennaio 1942. 6

A questo proposito si rinvia a G.NAPOLITANO, Espansione o riduzione dello Stato? I

poteri pubblici di fronte alla crisi, in G. NAPOLITANO (a cura di), Uscire dalla crisi, Bologna, il Mulino, 2012, soprattutto pp. 481 ss. L’autore, infatti, spiega come la crisi del 2008 abbia determinato un’estensione della sfera di competenza dello Stato, costretto a

(11)

Di fronte a questa aporia si può valutare a pieno non solo la grande attualità del tema relativo alle società pubbliche, ma anche la sua grande rilevanza nel mosaico del diritto amministrativo, perché, in definitiva, interrogarsi sulle società pubbliche significa porre una domanda molto risalente, che suona banalmente nel seguente modo: che cosa è la pubblica amministrazione? Per rispondere al quesito non ci si potrà limitare a una analisi astratta della nozione di pubblica amministrazione o di ente pubblico, ma si dovrà in concreto prendere in esame lo svolgimento storico dell’organizzazione amministrativa, dallo Stato monoclasse a quello contemporaneo.

Chiariti i motivi che rendono il tema delle società pubbliche appetibile sotto il profilo della rilevanza scientifica e sotto quello dell’attualità, sulla base della convinzione che solo ciò che è in qualche misura attuale è anche rilevante, non resta altro che illustrare gli obiettivi della presente trattazione. Il lavoro è dunque suddiviso in quattro capitoli.

Nel primo si prende in esame la nozione di «impresa pubblica» e si analizzano le tipologie, le cause e le modalità delle privatizzazioni7. Si procede dunque a una disamina del sistema degli enti di gestione e delle partecipazioni statali, dal primo dopoguerra alla fine degli anni Novanta del Novecento8. Affrontare questi argomenti si rende necessario perché le prime intervenire per salvare banche o imprese strategiche dal rischio del fallimento, tanto che «in alcuni ordinamenti cresce [...] il conflitto tra diritto amministrativo che regola il comportamento dell’azionista pubblico e il diritto comune che disciplina le società commerciali» (p. 481).

7 Non sono oggetto di studio, perché non funzionali alla presente trattazione, il tema della regolamentazione delle attività imprenditoriali a seguito delle politiche di privatizzazione e il tema, coevo alle privatizzazioni, della c.d. deregulation. Sul punto si preferisce rinviare a G.MAJONE –A.LA SPINA, «Deregulation» e privatizzazione: differenze e convergenze, in

Stato mer., 1992, n. 35, pp. 249 ss.

8

Per avere fin da subito un’idea di massima del sistema delle partecipazioni statali può essere utile rinviare a A.GAGLIARDI, I ministeri economici negli anni Trenta, in G.MELIS (a cura di), Lo Stato negli anni Trenta, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 149 ss. e C.GIORGI,

Gli enti pubblici di Beneduce nel sistema istituzionale fascista, in G.MELIS (a cura di), Lo

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società pubbliche sono sorte proprio per effetto delle politiche di privatizzazione delle imprese pubbliche. A questa prima serie di società pubbliche è poi seguito un secondo gruppo di società, che possono essere definite anche «legali», perché istituite per legge e per legge partecipate esclusivamente dallo Stato o da qualche altro ente pubblico. In chiusura del primo capitolo si evidenziano le analogie e differenze tra le due tipologie di società pubbliche individuate prima facie prendendo in considerazione il solo momento genetico.

Nel secondo capitolo si esaminano gli istituti di diritto pubblico che possono influire sull'organizzazione delle società in mano pubblica. Si tratta di argomenti come: i vincoli di bilancio dovuti al rispetto del regolamento europeo dei conti pubblici, che sembrerebbe comportare l’immediata pubblicizzazione di determinate società per soddisfare criteri ci contabilità pubblica9; le procedure di reclutamento del personale e le procedure di selezione, nomina e revoca dei dirigenti; le cause di ineleggibilità e decadenza degli amministratori e i limiti retributivi imposti agli stessi per effetto dei più recenti interventi normativi. Queste singole tematiche presentano difficoltà sia dal punto di vista descrittivo sia dal punto di vista ricostruttivo: l’obiettivo è trovare spunti per superare tali ostacoli.

Nel terzo capitolo lo scopo è quello di verificare l'applicazione di alcuni istituti di diritto pubblico ai profili inerenti l'attività delle società pubbliche.

9

È quanto ha recentemente sostenuto, sebbene con riferimento alla nozione di organismo di diritto pubblico, F.MERUSI, La legalità amministrativa, Bologna, il Mulino, 2012, p. 52: «consapevole delle varietà organizzative della Pubblica Amministrazione presenti nei vari Stati e degli espedienti formali messi in atto per sfuggire alla normativa comunitaria e alla disciplina tipicizzante della Pubblica Amministrazione, il legislatore comunitario ha fatto ricorso ad una nozione sostanziale fondata su indici predeterminati di identificazione, la nozione di organismo di diritto pubblico. Se ci sono gli indici richiesti l’organismo di diritto pubblico è una pubblica amministrazione, qualunque sia la forma giuridica dichiarata, e i suoi atti sono atti amministrativi. Né tale nozione sostanziale può essere valida solo in correlazione con la normativa comunitaria sugli appalti nella quale la figura dell’organismo di diritto pubblico è stata originariamente introdotta [...]. Se vale l’indice sostanziale di identificazione, semel publica administratio, semper publica administratio».

(13)

Ci si chiede, cioè, quali poteri speciali possa legittimamente esercitare lo Stato per limitare la concorrenza nei confronti di queste società. Ci si domanda se la disciplina dell'accesso agli atti possa valere anche per le società pubbliche ed è chiaro che la risposta dipende dalla possibilità di qualificare gli enti societari come pubbliche amministrazioni, che sono le sole figure soggettive nei confronti delle quali si applica l’istituto dell’accesso agli atti, corollario del principio della trasparenza nell’agire amministrativo. Infine si deve valutare l’applicabilità della responsabilità amministrativa ai dipendenti e agli amministratori delle società in questione, responsabilità che può valere, come è noto, solo in presenza di un presupposto tipicamente amministrativo: il rapporto di servizio tra il funzionario e la pubblica amministrazione. Ma l’amministratore può essere trattato alla stregua di un funzionario o dirigente pubblico?

Il quarto capitolo, in conclusione, si pone nella prospettiva di descrivere l’evoluzione del concetto di «pubblica amministrazione» e cerca di ricostruire, a fronte dei diversi istituti esaminati nei precedenti capitoli, il quadro di insieme della disciplina applicabile alle società pubbliche, proponendo una classificazione delle stesse e distinguendo tra società pubbliche che operano nel mercato e che devono essere considerate a tutti gli effetti come enti privati, parzialmente disciplinati dal diritto pubblico, e società pubbliche che, al contrario, svolgono funzioni di para-amministrazione e potrebbero dunque essere considerate dei veri e propri enti pubblici in forma societaria.

Poiché «bisogna [...] evitare di scrivere troppo: ogni parola non necessaria è sbagliata»10, non si ritiene di aggiungere altro in via introduttiva se non una breve avvertenza: si è cercato di restare fedeli il più possibile all’indicazione di Ludwig Wittgenstein, secondo il quale tutto ciò che si può dire può essere detto chiaramente. Siano dunque perdonati eventuali punti oscuri o criptici che si dovessero riscontrare nel corso della trattazione: di essi si rammarica innanzitutto chi scrive. Che la caccia all’ircocervo abbia inizio.

10 G. N

APOLITANO (a cura di), Le avventure del giovane giurista, Napoli, Editoriale Scientifica, 2014, p. 31.

(14)

CAPITOLO I

ORIGINE ED EVOLUZIONE DEGLI

ENTI PUBBLICI IN FORMA DI

SOCIETÀ PER AZIONI

1.

Le

privatizzazioni

delle

imprese

pubbliche negli anni Novanta e la

formazione

delle

società

per

azioni

pubbliche

Il titolo di questo paragrafo riassume tre tematiche di entità smisurata, le quali saranno analizzate solo in funzione di ciò che possono offrire per meglio comprendere l’attuale sistemazione delle società pubbliche. Le tre questioni alle quali si allude sono: la nozione di «privatizzazione», la nozione di «impresa pubblica» e la declinazione storica, in Italia, delle privatizzazioni delle imprese pubbliche.

L’esame di queste problematiche non è secondario ai fini di una piena consapevolezza di come si siano originati gli attuali assetti delle società partecipate dallo Stato. Bisogna risalire alla vecchia configurazione dei pubblici poteri nell’economia per potere apprezzare le ragioni in virtù delle quali oggi determinate discipline pubblicistiche trovano applicazione nei confronti di società per azioni, bisogna accennare all’elaborazione teorica della dottrina e della giurisprudenza nell’inquadrare le imprese pubbliche e le partecipazioni statali per comprendere perché la Corte dei Conti debba esercitare un controllo su alcune società e non su altre o perché un amministratore di una società possa essere bersaglio della responsabilità

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amministrativa, infine bisogna esaminare le varie riforme che agli inizi degli anni Novanta hanno posto al centro delle politiche pubbliche la questione dell’arretramento dello Stato dall’economia per capire perché alcuni settori sono stati solo formalmente abbandonati dal pubblico, mentre altri lo sono stati anche in via sostanziale.

In questo paragrafo, dunque, si cercherà, in primo luogo, di indagare sulla polisemia della nozione di «privatizzazione», di individuare quali siano le tipologie di privatizzazioni e quali siano le ragioni a fondamento del moto privatizzatore.

In secondo luogo si tenterà di meglio chiarire la nozione di «impresa pubblica», che è l’oggetto delle privatizzazioni che interessano in questo studio.

Infine si dovrà compiere un’analisi storica delle misure in concreto varate negli anni Novanta per giungere alla privatizzazione delle imprese pubbliche e si renderà necessario tracciare un bilancio delle misure normative e amministrative messe in campo per mutare il ruolo dello Stato nell’economia.

1.1. L’inesistente contrapposizione tra Stato e

mercato

Con il termine «privatizzazioni» si è soliti riferirsi, in maniera approssimativa e sintetica, ad una serie di riforme che contribuirebbero al trasferimento di numerose attività economiche dall’industria di Stato all’industria privata.

Alla prova di una analisi non meramente superficiale, si evince in modo chiaro come la stagione delle grandi privatizzazioni di imprese e banche pubbliche debba essere riletta alla luce di alcune considerazioni preliminari: innanzitutto è impossibile rilevare un significato univoco e preciso del concetto di privatizzazione, tanto che è lecito dubitare tout court della validità scientifica della nozione medesima; in secondo luogo l’esigenza di ripristinare una dicotomia tra Stato e mercato, che sarebbe venuta meno a

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causa di uno sfrenato e quanto mai inopportuno interventismo statale nell’economia, non trova alcuna giustificazione sul piano razionale a suo sostegno.

Partendo dalla prima osservazione, ci si rende immediatamente conto che la tenuta, sia sul piano teorico, sia sul piano storico, di ogni ragionamento concernente le privatizzazioni dipende dalla convinzione che si possa tracciare una netta linea di demarcazione tra la sfera pubblica e la sfera privata. Come è già stato ampiamente dimostrato11, la distinzione tra pubblico e privato è storicamente variabile e molto frequenti sono gli ibridi, con contaminazioni e compenetrazioni continue tra i due mondi giuridici. Non è così banale la constatazione che «Stato e mercato non sono nozioni o concetti in senso proprio, ma sintesi verbali. La pluralità dei loro significati è tale che essi hanno bisogno di aggettivi qualificativi per essere usati con rigore. Si parlerà, allora, di ordinamento, di governo, di Stato-legislatore, di amministrazione statale. E, poi, di mercato puro, di mercato organizzato, di mercato concorrenziale, monopolistico, oligopolistico, ecc.»12.

Inoltre non mancano settori in cui lo Stato e il mercato, nelle loro diverse declinazioni, non sono nettamente separati, con la conseguenza che si viene

11 S. C

ASSESE, Le privatizzazioni: arretramento o riorganizzazione dello Stato?, in Riv. it.

dir. pubbl. com., 1996, pp. 579 e 580: si fa riferimento, tra le altre, alle attività di

organizzazione degli eserciti e di raccolta delle imposte, fino alla rivoluzione francese attribuite ai privati, e alle attività di produzione di armamenti, assunte dagli Stati nell’Ottocento e oggi di competenza di industrie private. Per un inquadramento più generale della problematica cfr. anche S. CASSESE, Le basi del diritto amministrativo, Milano, Garzanti, 1995 (I ed. 1989) e M.DE CECCO –A.PEDONE, Le istituzioni dell’economia, in , in R.ROMANELLI (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Roma, Donzelli, 1995, p. 253: «La vicenda dei rapporti tra Stato ed economia conosce, nella storia plurimillenaria delle società organizzate, fasi alterne di avvicinamento e allontanamento. Sarebbe troppo facile contrapporre intervento dello Stato e sviluppo della proprietà privata e dei mercati. Non sono infatti pochi i casi nei quali Stato e mercato crescono insieme e quelli nei quali, al decadere relativo del primo, corrisponde l’affievolirsi del secondo». 12 S.C

ASSESE, Stato e mercato dopo privatizzazioni e deregulation, in Riv. trim. dir. pubbl., 1991, p. 381.

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a creare una sorta di zona grigia, non totalmente pubblica, né totalmente privata. Ad esempio tradizionalmente si sono considerate «imprese pubbliche» tre tipi di strutture: quelle organizzate come organi dello Stato che svolgevano attività economiche; quelle organizzate nella forma di ente pubblico; infine quelle organizzate come società per azioni, nelle quali lo Stato o un altro ente pubblico avessero una partecipazione azionaria di controllo.

Si sono posti problemi e incertezze nella qualificazione soprattutto con riferimento alle due ultime strutture, perché gli enti pubblici, pur avendo un controllo pubblico, erano caratterizzati da un’amministrazione privata, mentre le società pubbliche erano a direzione pubblica ma sotto spoglie privatistiche, e come tali dovevano rispondere ad azionisti privati13.

Bisogna inoltre ricordare che la privatizzazione è un fenomeno che non può essere limitato e ridotto al solo ricollocamento del ruolo dello Stato in economia. A questo proposito non è mancato chi ha proposto di distinguere le privatizzazioni in funzione della garanzia dei diritti sociali14: si potrebbe cioè parlare di privatizzazione sia con riferimento ad una estremamente ampia contrazione delle attività assunte o qualificate come servizi pubblici, in virtù di principi neo-liberistici, cosa che finirebbe per compromettere l’intera impalcatura dello Stato sociale15

, sia avendo riguardo ad un insieme

13 Su questi “incontri ravvicinati” tra il pubblico e il privato cfr. S.C

ASSESE, Le imprese

pubbliche dopo le privatizzazioni, in Stato mer., 1992, n. 35, p. 237.

14

Si vuole fare riferimento al saggio di C.MARZUOLI, Le privatizzazioni fra pubblico come

soggetto e pubblico come regola, in Dir. pubbl., 1995, pp. 393 ss.

15 Pare opportuno richiamare le valutazioni di F. S

ALVIA, Il mercato e l’attività

amministrativa, in Dir. amm., 1994, pp. 524-525: «la situazione odierna – caratterizzata da

forti richiami per la deregulation, per un vistoso (e condivisibile) arretramento dello Stato-imprenditore, per un mercato concorrenziale o più semplicemente per un ripristino del «liberismo» - sembra a prima vista segnare un ritorno verso uno Stato agnostico o neutrale e verso un drastico ridimensionamento della «politica» e della «discrezionalità». Spesso, invero, l’enfatizzazione del «mercato» evoca l’idea propria del pensiero liberale ottocentesco di un luogo (in senso figurato) in cui gli operatori economici si muovono liberamente seguendo regole che affondano la loro origine in natura e che lo Stato si limita a garantire apprestando il suo apparato coercitivo. Se così fosse, in effetti, la politica

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di strumenti e istituti privatistici che potrebbero essere utilizzati dall’autorità pubblica per promuovere e tutelare i diritti dei cittadini16.

1.2. Le tipologie di privatizzazioni

Nell’elaborazione teorica e nella concreta realtà storica si può riscontrare una ricca varietà di tipologie di privatizzazioni.

Il più importante tipo di privatizzazione riguarda la soggezione della condotta finanziaria del governo al giudizio del mercato. Lo Stato, al fine di procurarsi tutte le risorse necessarie per finanziare la spesa e il debito pubblico, deve guadagnarsi la fiducia dei risparmiatori ed è quindi più o meno tenuto a rendere conto del proprio operato. Il fenomeno è largamente conosciuto in Italia, anzi è diventato popolare per via dell’attuale crisi economica. Sebbene non si tratti di una vera e propria privatizzazione, perché non si ravvisa una modificazione in senso stretto del regime giuridico, è certamente vero che la necessità di superare positivamente i giudizi del mercato costringe lo Stato a operare come un’impresa, attenta all’equilibrio dei conti e all’economicità dei propri interventi17

.

Un secondo tipo di adozione di moduli privatistici da parte dei poteri pubblici è rappresentato dalle c.d. «destatizzazioni», ossia dalla diffusione economica non avrebbe più ragion d’essere e il compito del potere pubblico nell’economia sarebbe unicamente quello di garantire il funzionamento di un meccanismo capace in tutto di autogestirsi».

16 In questa ottica non si può prescindere dalle riflessioni di C. M

ARZUOLI, Le

privatizzazioni fra pubblico come soggetto e pubblico come regola, op. cit., pp. 394-395:

«sono […] privatizzazioni: il ricorso (in via interpretativa e di prassi) alle norme ed agli istituti del codice civile e numerose recenti vicende legislative come la privatizzazione del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni […], la sostanzialmente generalizzata introduzione di modelli in tutto o in parte consensuali nell’azione amministrativa […], la disciplina dei servizi pubblici locali, con l’espressa previsione dell’uso della forma societaria […], la trasformazione degli enti pubblici di impresa in società per azioni». 17

S.CASSESE, Le privatizzazioni: arretramento o riorganizzazione dello Stato?, op. cit., p. 583. Sul punto cfr. anche L.ANSELMI (a cura di), Privatizzazioni: come e perché, Rimini, Maggioli, 1995.

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della costituzione di agenzie alle quali sono affidati compiti pubblici. La conseguenza è che i compiti una volta affidati solo alle amministrazioni pubbliche sono oggi svolti da organismi che operano secondo i criteri del diritto privato.

Un terzo tipo di privatizzazioni consiste nell’affidamento di funzioni pubbliche a privati, gestori o concessionari di servizi pubblici. Il regime che risulta da questa privatizzazione è caratterizzato dalla permanenza dei tratti e degli interessi pubblici delle funzioni, le quali tuttavia sono svolte da privati, secondo le regole del diritto privato.

L’ultimo tipo di privatizzazioni è quello che consiste principalmente nella trasformazione degli enti pubblici economici in una società per azioni e nella successiva alienazione delle azioni ai privati. All’interno di questa ultima categoria si possono poi distinguere le privatizzazioni formali, per effetto delle quali il potere pubblico autorizza, favorisce o impone il mutamento dalla forma giuridica pubblica a quella privata, e le privatizzazioni sostanziali, che consistono nella cessione ai privati di imprese pubbliche nella loro interezza o limitatamente ad alcune quote18. L’oggetto del presente studio è rappresentato proprio da questa ultima grande categoria di privatizzazioni e nei prossimi paragrafi si tenterà di isolare le ragioni di fondo che hanno spinto molti governi e molti Stati a intraprendere la via della dismissione degli enti economici.

1.3. Le ragioni di fondo delle privatizzazioni

I motivi dell’accentuazione del fenomeno di privatizzazione, a livello internazionale, transnazionale, europeo e nazionale, sono molteplici, ma se ne tenterà comunque una classificazione.

La prima ragione delle privatizzazioni può essere individuata nell’inadeguatezza del diritto pubblico nel fare fronte ai nuovi compiti

18

Sul punto cfr.C.IBBA, La tipologia delle privatizzazioni, in Giur. comm., 2001, I, pp. 464 ss. e F.GOISIS, Imprese pubbliche, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S.CASSESE, IV, Milano, 2006, pp. 2960 ss.

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affidati allo Stato. Il diritto pubblico presenterebbe un duplice inconveniente, l’eccessiva rigidità e la pluralità di statuti, che non offrirebbe la standardizzazione propria degli istituti di diritto privato19.

La seconda ragione giustificativa delle privatizzazione può essere rinvenuta nell’esigenza di superare l’inefficienza allocativa e tecnica delle strutture pubbliche, nonché l’inefficienza gestionale delle singole imprese pubbliche, causata dalla limitata pressione della concorrenza.

La terza ragione delle privatizzazioni può essere ricercata nel tentativo di porre un freno all’eccesso di politicizzazione dell’economia e nel bisogno di disancorare le imprese dal governo e dai partiti.20 La contiguità tra le imprese pubbliche e la politica aveva infatti a più riprese causato delle deviazioni dagli interesse pubblici, determinando la sostituzione degli obiettivi sociali con obiettivi prettamente politici, nonché ingerenze dirette dei politici nelle decisioni manageriali21. Inoltre nei Paesi occidentali il peso

19

S.CASSESE, Le privatizzazioni: arretramento o riorganizzazione dello Stato?, op. cit., p. 581.

20 Per comprendere meglio il precedente ruolo del pubblico in economia si ritiene opportuno riportare il seguente brano di S.CASSESE, Le privatizzazioni: arretramento o

riorganizzazione dello Stato?, op. cit., p. 582: «la costituzione di un settore pubblico

economico di grandi dimensioni ha dato luogo al seguente paradosso: da un lato, esso è stato sottoposto al patronato pubblico dei governi e dei partiti; dall’altro, il governo, pur potendo disporre a proprio piacimento delle imprese pubbliche, si è rivelato, poi, incapace di controllarle. Quindi, le imprese pubbliche hanno finito per essere, da un lato, eccessivamente soggette al potere politico; dall’altro, sottratte all’influenza dei governi». A conferma di quanto sostenuto dall’autore, non deve sorprendere se poi le maggiori resistenze alle privatizzazioni sono giunte dalla componente politica, come sostenuto da F. CAVAZZUTI, Privatizzazioni, imprenditori e mercati, Bologna, il Mulino, 1996, p. 7: «la principale responsabilità del maldestro esordio» delle privatizzazioni «va ricercata, ed equamente divisa, nei comportamenti dei governi e dei loro apparati burocratici, degli amministratori di banche e imprese pubbliche, dei partiti politici (soprattutto di governo), dei sindacati, ma anche dei privati capitalisti italiani. Tutti questi, per effetto delle privatizzazioni, temono di perdere alcune consolidate e ghiotte posizioni di potere (oltre che alcuni benefici elettorali) derivanti dagli intrecci tra politica ed economia».

21 Sul punto cfr. M.C

LARICH, Privatizzazioni e trasformazioni in atto nell’amministrazione

(21)

dello Stato imprenditore22 nell’economia aveva raggiunto negli ultimi anni del secolo scorso delle dimensioni esagerate e non più sostenibili, con una spesa pubblica oscillante ogni anno tra il 40 e il 45% del prodotto interno lordo23.

Un quarto motivo dell’ondata privatizzatrice degli anni Novanta può emergere, soprattutto con riferimento all’Italia, dalla necessità di finanziamento del Tesoro per fare fronte alla montagna del deficit e del debito pubblici.

Una quinta spinta alle privatizzazioni è poi indubbiamente venuta dal processo di integrazione europea. Bisogna chiarire che la Comunità Europea, prima, e l’Unione Europea, dopo, non hanno mai imposto le privatizzazioni direttamente, ma per il tramite di due fattori: l’obiettivo dell’integrazione dei mercati, che si può raggiungere solo implementando i «accanto alla teoria dei fallimenti di mercato ha preso corpo in anni recenti la teoria dei fallimenti dello Stato (o dell’economia pubblica) che è stata alla base della discussione teorica sulla necessità di un ritorno al mercato, cioè dell’avvio di politiche di privatizzazioni».

22 Per una consapevolezza della polisemia della nozione di «Stato imprenditore» e per una approfondita lettura sulle sue origini in Italia si rinvia al capitolo “Lo Stato si fa industriale” di S. CASSESE, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, il Mulino, 2014. Si possono inoltre citare S.CASSESE, Aspetti giuridici dello sviluppo economico, in Studi in

memoria di Angelo Gualandi, I, Urbino, Argalia, 1969, pp. 110 ss.; S.CASSESE, È ancora

attuale la legge bancaria del 1936?, Roma, La Nuova Italia, 1987 e più recentemente E.

CIANCI, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Lanciano, Carabba, 2009.

23 Le ragioni di una spesa pubblica così alta, specialmente in Italia, possono essere rinvenute nel ruolo assunto dallo Stato all’indomani del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Sul punto cfr. M. DE CECCO –A. PEDONE, Le istituzioni

dell’economia, op. cit., pp. 267-268: «La stasi dell’occupazione industriale, tra il 1964 e il

1968 […], ha indotto lo Stato a farsi datore di lavoro, direttamente o tramite le imprese a partecipazione statale. Se da un lato queste ultime hanno insistito nel voler invadere settori dove l’industria privata incontrava difficoltà a mantenere livelli produttivi esistenti, causando così forti risentimenti, dall’altro esse hanno conferito all’intervento pubblico quelle caratteristiche di keynesianismo bastardo che ha fino ad oggi conservato. Si è privilegiata, cioè, la dimensione dell’occupazione e dell’aumento dei consumi rispetto a quella di uso efficiente del denaro pubblico e della manodopera impiegata».

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regimi di concorrenza e limitando l’area dei diritti speciali ed esclusivi riservati agli Stati, nonché vietando gli aiuti di Stato; e il divieto di discriminazioni, che richiede un uguale trattamento tra attività economiche pubbliche e private24.

Se queste sopra enumerate sono le ragioni istituzionali che hanno condotto alle privatizzazioni, cioè sono le ragioni che hanno convinto i poteri pubblici a privatizzare, al fine di meglio perseguire gli interessi pubblici e quelli generali, è necessario ricordare che non sono state poche nemmeno le ragioni per le quali gli stessi privati hanno accolto con favore le privatizzazioni. Soprattutto in Italia, il sistema industriale e finanziario era fortemente ingessato nell’ultimo decennio del secolo scorso. I mali che affliggevano il mercato privato italiano dell’epoca erano numerosi.

Innanzitutto si segnalava una scarsa competitività del sistema industriale privato, «dovuta al fatto che quest’ultimo si era sviluppato, in molti casi, sotto la benevolente tutela delle imprese e delle banche pubbliche, oltre che del bilancio dello Stato»25.

In secondo luogo si avvertivano l’opportunità e l’urgenza di creare nuovi mercati e nuove imprese per accrescere la forza del sistema industriale e la sua capacità di competere stabilmente sui mercati internazionali.

Infine l’attività delle imprese pubbliche generava un eccesso di asimmetria informativa nel mercato con effetti dannosi per gli utenti26.

24 Sul punto cfr. E. M

OAVERO MILANESI, Privatizzazioni (diritto comunitario), in Enc.

giur., XXIV, Roma, 1995.

25 F.C

AVAZZUTI, Privatizzazioni, imprenditori e mercati, op. cit., p. 15. Si aggiunga che le pubblicizzazioni sono state tante e tali nel corso della storia economica italiana che possono esserne distinti diversi moduli: quello finanziario, proprietario, funzionale o regolamentare. Sul punto cfr. G.NAPOLITANO, I modelli di pubblicizzazione e le prospettive dello stato

amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2010, p. 662. In chiave di ricostruzione storia è

utile rinviare a A. PAPA, Classe politica e intervento pubblico nell’età giolittiana. La

nazionalizzazione delle ferrovie, Napoli, Guida Editori, 1973.

26 Sugli “interessi” dei privati alla riduzione del peso dello Stato in economia cfr. P.P IRAS,

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È chiaro come nelle ragioni, tanto dei poteri pubblici quanto degli interessi privati, che hanno condotto alla stagione delle privatizzazioni degli anni Novanta, fossero già insiti gli obiettivi che si voleva perseguire: ridurre la presenza di imprese pubbliche nell’economia italiana. Bisogna verificare se i risultati conseguiti siano stati all’altezza dei fini prefissati, occorre cioè comprendere se le politiche di privatizzazione, così come in concreto sviluppatesi nell’arco di dieci o quindici anni, siano state effettivamente efficaci, ma in via preliminare occorre esaminare le modalità attraverso le quali imprese pubbliche di ogni genere sono sorte e si sono radicate in Italia nel corso di quasi un secolo.

1.4. La nozione di «impresa pubblica»

Sebbene non proprio recente, si ritiene ancora valida la quadripartizione proposta da M. S. Giannini sulle attività pubbliche economiche. Secondo l’autore vi sarebbero: 1) attività terziarie gestite solo da pubblici poteri (come la previdenza e l’istruzione pubblica); 2) attività terziarie e secondarie, svolte da poteri pubblici, ma per il tramite di organizzazioni che presentano dominanti i caratteri dell’impresa; 3) attività nelle quali operano società di capitali che hanno come azionisti, di minoranza o di maggioranza, o talora come azionisti unici, i pubblici poteri, come lo Stato o gli «enti di gestione» dalla Stato appositamente istituiti, e che sono dette «società a partecipazione pubblica»; 4) infine esistono attività di produzione di beni o di servizi che sono sottratte all’impresa privata, assunte da pubblici poteri mediante «collettivizzazioni»27.

Le collettivizzazioni, a propria volta, possono essere di due tipi: A) la collettivizzazione può essere compiuta da un ente pubblico territoriale e si potranno perciò distinguere, a seconda del soggetto che collettivizza, le statizzazioni, le regionalizzazioni e le municipalizzazioni; B) si parla di

27 Per la quadripartizione si veda M. S.G

IANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, il Mulino, 1995 (I ed. 1977), pp. 129 ss.

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«nazionalizzazioni» quando a collettivizzare è un organismo centrale diverso dallo Stato, di solito un ente pubblico.

In ogni caso le attività collettivizzate sono in concreto esercitate da imprese pubbliche.

Le strutture organizzative racchiuse nella nozione di «impresa pubblica»28 sono tre e si sono sviluppate in tre periodi storici successivi l’uno con l’altro. Le tre formule organizzative hanno una caratteristica in comune: derivano dall’abbandono dell’ideologia del laissez-faire, il cui declino ha preso avvio alla fine dell’Ottocento, e da motivazioni di ordine sociale favorevoli a un diretto ingresso dello Stato e degli enti locali nel campo delle attività economiche29.

Il primo modulo organizzativo è rappresentato dall’«impresa-organo», che nasce in virtù della collettivizzazione sub A): si tratta di uno speciale organo di un ente pubblico territoriale strutturato secondo un modello astratto di impresa, ma adattato alle esigenze particolari della pubblica amministrazione (si pensi alle aziende o alle amministrazioni autonome dello Stato, oggi praticamente estinte)30. L’autonomia organizzativa è limitata e la possibilità di operare con strumenti privatistici è abbastanza

28 Per meglio comprendere l’evoluzione del concetto di impresa pubblica in chiave storica occorre rinviare a S.CASSESE, L’impresa pubblica: storia di un concetto, in Economia

pubblica, 1985, nn. 1-2 e a S.CASSESE, Stato ed economia in Italia, in Economia pubblica, 1989, nn. 7-8. Si ritiene di condividere le parole dell’autore scritte, come avvertenza per il lettore e lo studioso, nel primo dei saggi indicati: «la nozione in questione ha un valore prevalentemente conoscitivo e classificatorio. In questo senso, esso non è istituto o concetto giuridico, in quanto non è utile per individuare o riassumere una disciplina. Infatti, non può dirsi che, una volta riconosciuta l’esistenza dell’impresa pubblica, ad essi si applichino un dato ordine di controlli, o un certo tipo di responsabilità, o determinate regole gestorie. La nozione di impresa pubblica, dunque, non ha significato o portata prescrittiva e serve prevalentemente per il profilo scientifico dello studio del diritto».

29

Per una ricostruzione storica più accurata sul passaggio dal dominio ideologico del liberismo alle prime politiche di intervento statali cfr. G. TREVES, L’impresa pubblica, Torino, Giappichelli, 1950 e M. S.GIANNINI, Le imprese pubbliche in Italia, in Riv. soc., 1958, pp. 264 ss.

30 Sul punto cfr. M. S.G

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ristretta, dato che non ci si può sottrarre al regime giuridico della contabilità pubblica che irrigidisce i controlli sulle attività di produzione di beni e di erogazione di servizi31.

Il secondo modulo organizzativo nasce per effetto delle collettivizzazioni sub B) e si tratta dell’«impresa-ente pubblico» o «ente pubblico economico». Questo ente è modellato completamente sull’impresa privata e le origini di tale categoria di impresa pubblica merita una particolare attenzione. Il fenomeno dell’ente pubblico economico affonda le proprie radici in due esigenze distinte: da una parte si sentiva la necessità di superare i problemi organizzativi e di scarsa autonomia di cui avevano dato prova le aziende autonome (tanto che si è coniata l’espressione di «amministrazione per enti» o «amministrazione parallela»)32, dall’altra vi era il bisogno di reclutare personale non burocratico e altamente specializzato, secondo la formula dei «pochi ma ben pagati»33. La ricetta

31

Sul punto cfr. M.BERTOLISSI, Impresa pubblica, in Enc. giur., XVI, Roma, 1989, p. 2. 32

Sull’argomento non si possono trascurare alcuni scritti importanti come S.CASSESE –G. MELIS, I caratteri originali e gli sviluppi attuali dell’amministrazione pubblica italiana, in

Quad. cost., 1987, pp. 449 ss.; S. BAIETTI –G.FARESE (a cura di), Sergio Paronetto e il

formarsi della costituzione economica italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012 e G.

MELIS, L’amministrazione, in R. ROMANELLI (a cura di), Storia dello Stato italiano

dall’Unità a oggi, Roma, Donzelli, 1995, pp. 187 ss. In particolare, in quest’ultimo, si legge

a p. 204: «La nuova amministrazione «parallela» esprimeva insomma valori ed esigenze spesso in contrasto con l’anima dominante della burocrazia italiana. Entrava infatti apertamente in conflitto con la burocrazia dei controlli, che naturalmente a sua volta mal sopportava attività amministrative al di fuori della propria orbita e con i modelli organizzativi più consolidati nei ministeri».

33 Sul punto cfr. ancora G. M

ELIS, L’amministrazione, op. cit., p. 207: «I nuovi enti economico-finanziari nati nel periodo precedente l’avvento del fascismo al potere sarebbero stati tutti caratterizzati dalla stessa ricerca di un modello alternativo di organizzazione: personalità giuridica propria, ampi margini di decisione riservati agli organi di direzione interna, poco personale, molta cura tecnico-specialistica, alti stipendi, licenziabilità, produttività, criteri di economicità nelle scelte». Stesse considerazioni sono svolte nel più recente G.MELIS, La lunga storia dei controlli: i conti separati dall’amministrazione, in

Riv. trim. dir. pubbl., 2014, n. 2, pp. 397 ss,, dove si legge: « Gli enti economico-finanziari

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dell’ente pubblico economico ebbe un successo straordinario e raggiunse l’apice negli anni Trenta in concomitanza con la crisi economica dell’epoca. Soprattutto grazie all’opera di Alberto Beneduce, l’ente pubblico economico fu adottato anche per la gestione industriale: la creazione dell’Imi (Istituto mobiliare italiano) nel 1931 e dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) nel 1933, che si aggiunsero all’Icipu (Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità) e al Crediop (Istituto di credito per le opere pubbliche), rappresentarono il passaggio alla fase della gestione, configurando un modello di intervento con forme privatistiche e finalità pubbliche34. Il rapporto tra pubblico e privato sembrò essere definitivamente orientato a favore del primo e parve essere recuperata in pieno l’esperienza della gestione della precedente economia di guerra35.

autonoma di diritto pubblico, con personale che — precisavano le leggi istitutive — in alcun modo poteva essere assimilato a quello dello Stato: assunto con contratti a termine, licenziabile, tecnicamente provetto, allo stesso tempo meglio pagato. La loro politica di finanziamento era, almeno all'origine, del tutto autonoma da quella dello Stato. La Ragioneria generale non ne poteva conoscere i bilanci, affidati tutt'al più alla labile vigilanza del Ministero più prossimo per materia e alla tutela di compiacenti collegi di sindaci. Le leggi che li governavano erano quelle dell'impresa privata. Era una rivoluzione copernicana, ed era contagiosa. Ben presto il fascismo scoprì che lo strumento ente pubblico (dotato di propri organi direttivi, con proprio bilancio e proprio personale) non solo era utile per gestire finanziamenti senza gli ingombranti vincoli della legge di contabilità, ma serviva egregiamente anche per altri scopi. E nacque — proprio tra gli anni Venti e Trenta — una sequenza impressionante di nuovi enti un po' in tutti i settori: mutualismo, assistenza, previdenza di intere categorie, ricreazione, turismo, cultura, arte, sport, settori industriali i più vari, bonifica, agricoltura, propaganda politica».

34 Sugli enti pubblici economici di questo periodo e sui c.d. «enti Beneduce» la bibliografia è praticamente sterminata, ma, su tutti, si rinvia S. CASSESE, Gli «statuti» degli enti di

Beneduce, in Storia contemporanea, 1984, n. 5, pp. 941 ss.

35

Sul contributo allo sviluppo economico e amministrativo del Paese offerto dalla Grande Guerra cfr. M.DE CECCO –A.PEDONE, Le istituzioni dell’economia, op. cit., p. 261: «Dei tre «miracoli economici» italiani, quello che ebbe luogo nel corso della prima guerra mondiale è certo il più grandioso. Esso rappresentò un caso veramente interessante di simbiosi tra pubblico e privato, con la dirigenza pubblica che ben presto assurse, tramite alcuni suoi uomini, alla guida dello sforzo produttivo e distributivo del paese. Per cinque

(27)

Tornando alla disciplina propriamente giuridica, l’ente pubblico economico, pur essendo filiazione del potere pubblico, non ha potere impositivo, ma è comunque connesso inscindibilmente a un soggetto politico, Stato o altro ente di governo. Difficilmente, quindi, il solo assoggettamento dell’ente pubblico alle tradizionali norme di diritto privato può garantire che venga seguita esclusivamente una logica privatistica36.

1.5. (segue) Il sistema delle partecipazioni

statali

Seguendo la classificazione di M. S. Giannini precedentemente prospettata, le imprese private partecipate dallo Stato non dovrebbero essere considerate propriamente «imprese pubbliche» dal punto di vista scientifico, ma dal punto di vista del diritto positivo e dal punto di vista della dottrina successiva sono state trattate alla stregua di imprese pubbliche37.

In ogni caso, poiché le partecipazioni pubbliche esistono ancora oggi38, pare quanto mai opportuno analizzare il passato per verificare quali analogie e anni la mobilitazione totale, orchestrata da alcuni dirigenti pubblici, permise non solo di avviare al fronte milioni di uomini e di tenerveli riforniti di viveri, armi e altri beni necessari. Essa riuscì anche a far dilatare di dieci volte la manodopera dei maggiori gruppi industriali, a distribuire beni e servizi al resto della popolazione, a far espander enormemente la struttura industriale. L’industria elettrica e quella chimica si può dire siano nate con la guerra, quella meccanica crebbe fino a divenire qualitativamente diversa. Lo stesso vale per la cantieristica».

36 Sul punto cfr.V.O

TTAVIANO, Ente pubblico economico, in Dig. disc. pubbl., VI, Torino, Utet, 1991, pp. 85 ss.

37 L’opera di M. S. G

IANNINI cui ci si riferisce è sempre Diritto pubblico dell’economia, op.

cit.. Mentre per dottrina successiva si allude alle voci su Enciclopedia del Diritto ed

Enciclopedia Giuridica precedentemente citate: nella prima V. OTTAVIANO, Impresa

pubblica, in Enc. dir., XX, Milano, Giuffrè, 1965, pp. 669 ss. e nella seconda M.

BERTOLISSI, Impresa pubblica, op. cit. 38

Sull’impossibilità di giungere a una nozione univoca di «partecipazione pubblica» cfr. S. D’ALBERGO, Le partecipazioni statali, Milano, Giuffrè, 1960, p. 17 e F.MERUSI –D.IARIA,

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differenze esistano tra il «sistema delle partecipazioni statali», che si era stratificato tra il regime fascista e la prima repubblica, e le attuali politiche di partecipazione in imprese private o in società da parte delle amministrazioni pubbliche.

In Italia i pubblici poteri hanno cominciato ad associarsi con privati per esercitare imprese industriali o commerciali di interesse generale a partire dagli anni Venti del secolo scorso39.

Le partecipazioni statali, tuttavia, sono diventate un fenomeno di proporzioni immense a partire dai successivi anni Trenta. Si è già parlato degli «enti Beneduce»: ebbene l’Iri non è stato un semplice ente pubblico economico, ma si è caratterizzato ulteriormente come «ente di gestione». Sintetizzando al massimo si può dire che la crisi economica del 1929 aveva prodotto il passaggio di proprietà di numerose imprese e industrie, incapaci di pagare i debiti contratti, alle principali banche italiane. Nella persistenza della crisi, i risultati negativi delle imprese in mano alle banche rischiava di condurre al tracollo l’intero sistema bancario italiano. In questo contesto l’Iri acquisì le principali banche dell’epoca e, attraverso queste, finì per

pubbliche si riferisce alla titolarità da parte di un ente pubblico, inteso questo nella accezione più lata, di quote di società di capitali, come tali organizzate ed operanti sulla base della disciplina civilistica. Tali partecipazioni possono essere detenute, o da soggetti pubblici ai quali la legge istituzionalmente attribuisce il compito di gestirle, ed in tal caso avremo il loro «inquadramento» in enti di gestione, i quali potranno a ciò provvedere direttamente, oppure, in via mediata, attraverso società finanziarie di settore da loro stessi controllate; ovvero da altri enti pubblici istituzionalmente preposti ad altri fini, generale o specifici, quali lo Stato, anzitutto, oppure gli altri enti, territoriali o funzionali, ivi compresi quelli economici».

39 Il primissimo esempio di partecipazioni statale va rintracciato nella Südbahn, società di gestione della rete ferroviaria che univa Trieste a Vienna e ad altri centri dell’Europa Centrale, la cui maggioranza azionaria fu acquisita dal governo italiano per sottrarre linee di comunicazione strategiche di confine all’Austria. Un altro esempio significativo appare quello dell’Agip (azienda generale italiana petroli), partecipata dallo Stato e costituita per sviluppare il settore energetico, nel quale era assente l’iniziativa privata. Su entrambi v. S. CASSESE, Azionariato di Stato, in Enc. dir., IV, Milano, Giuffrè, 1959, pp. 776-777.

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«gestire» il complesso patrimonio imprenditoriale del quale era venuto in possesso attraverso il salvataggio delle banche40.

Il sistema che ne nacque, che fu definito «delle partecipazioni statali», riscosse un indubbio successo, le cui ragioni fondamentalmente furono due: assicurare alla gestione delle imprese maggiore snellezza formale e nuove possibilità di lavoro; utilizzare lo schermo dell’ente di gestione tra lo Stato e le società partecipate per sottrarre le società stesse alle rigide regole di contabilità pubblica, poco adatte alla gestione di attività che spesso richiedevano prontezza di decisione, impossibile a rinvenirsi in organi burocratici41.

Il sistema delle partecipazioni trovò però una formale consacrazione solo nel secondo dopoguerra per effetto della l. 22 dicembre 1956, n. 1589 istitutiva del Ministero delle Partecipazioni Statali, incaricato di controllare gli enti di gestione e dotato del potere di indirizzo nei loro confronti42.

Il ministero, a propria volta, doveva dare attuazione alle direttive generali inerenti ai diversi settori controllati elaborate da un apposito comitato interministeriale il quale avrebbe dovuto funzionare come catalizzatore e centro di coagulo delle diverse esigenze di gestione del sistema43.

Il sistema che risultò dall’intervento legislativo era caratterizzato da un alto tasso di indeterminatezza tra il momento politico, che si fondava sul

40 Appare superfluo aggiungere di più dal punto di vista storico, visti i tanti studi sull’argomento ai quali necessariamente si rinvia. Preme ricordare, anche per la bibliografia ulteriore che vi si può trovare, P.SARACENO, Partecipazioni statali, in Enc. dir., XXXII, Milano, Giuffrè, 1965, pp. 43 ss.; S.CASSESE (a cura di), La nuova costituzione economica, Roma-Bari, Laterza, 2012; A.PAPA MALATESTA, Partecipazioni pubbliche, in Dig. disc.

pubbl., Torino, Utet, pp. 692 ss. e F.MERUSI –D.IARIA, Partecipazioni pubbliche, op. cit.. 41 Su queste due ragioni è doveroso richiamare A. R

OSSI, Società con partecipazione

pubblica, in Enc. giur., XXIX, Roma, 1989 e M.S. GIANNINI, Le imprese pubbliche in

Italia, op. cit.

42

Sul punto cfr.P.SARACENO, Partecipazioni statali, op. cit., p. 52. 43

Per un’analisi delle problematiche giuridiche legate alle direttive del governo nei confronti degli enti di gestione si rinvia a F.MERUSI, Le direttive governative nei confronti

degli enti di gestione, Milano, Giuffrè, 1965, in special modo pp. 201 ss. e S.D’ALBERGO,

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binomio ministero – comitato interministeriale, e il momento imprenditoriale, a sua volta articolato nella dialettica enti di gestione – imprese partecipate. Si è quindi osservato come il potere ministeriale di indirizzo fosse spesso espressione di un processo di codeterminazione, il cui impulso poteva partire indifferentemente dal basso o dall’alto: poteva essere l’ente di gestione a proporre un’iniziativa imprenditoriale e a richiedere l’avallo governativo con una direttiva oppure poteva essere il Ministero delle Partecipazioni a pretendere una direttiva per giungere a determinati obiettivi44.

La caratteristica principale degli enti di gestione degli anni Cinquanta e Sessanta è rappresentata dal fatto che essi erano dotati di una certa autonomia finanziaria, ossia potevano raccogliere sul mercato le risorse necessarie per svolgere le loro attività. Con questa autonomia, il sistema resse senza problema alcuno fino agli anni Settanta quando, a seguito del peggioramento della congiuntura economica, a livello internazionale e nazionale, gli enti non riuscirono più ad autofinanziarsi e furono sempre più dipendenti dai rispettivi fondi di dotazione45, cosa «che inevitabilmente ha

44 Sull’osmosi tra la sfera politica e quella imprenditoriale in relazione alle partecipazioni statali fondamentali sono gli studi di S.D’ALBERGO, Le partecipazioni statali, op. cit.; S. CASSESE, Partecipazioni pubbliche ed enti di gestione, Milano, Edizioni di Comunità, 1962; F.MERUSI, Gli enti autonomi di gestione come centri di mediazione dell’attività

economica statale, in M.CARABBA, (a cura di), La direzione delle società a partecipazione

statale, Milano, Ciriac, 1962.

45 Sottolinea bene questa cesura tra i primi anni del secondo dopoguerra e gli anni Settanta G.AMATO, Economia, politica e istituzioni in Italia, Bologna, il Mulino, 1976, che, sulle partecipazioni, afferma a p. 97: «Le si era accusate negli anni ’50 di essere subalterne alo sviluppo capitalistico. Può darsi che lo fossero state (anche se un giudizio così categorico e aggregato lascia dei dubbi), ma a quel tempo almeno il loro era stato un concorso attivo allo sviluppo quale che fosse: fu la siderurgia dell’Iri a rilanciare la meccanica italiana sui mercati europei e l’Eni ci dette l’energia. Nel nuovo decennio, nonostante la novità dei programmi e dei piani, esse perdono il contatto dagli investimenti innovativi e strategici, diventano deboli rispetto alla concorrenza internazionale in settori in cui erano forti (la cantieristica, ad esempio) e proprio per questo divengono davvero e inconfutabilmente subalterne».

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reso le partecipazioni «prigioniere» del politico, nel senso che costante è diventata l’imposizione di obiettivi di rilevanza «socio-politica» più o meno incompatibili con il rispetto del criterio dell’economicità di gestione tipico di ogni logica imprenditoriale»46.

Le ottime politiche economiche del passato si sono andate dunque deteriorando nel corso del tempo, dato che sempre più spesso alla logica del profitto e del buon andamento dell’impresa si andò sostituendo quella della salvaguardia dei livelli occupazionali mediante continui ripianamenti nei bilanci delle imprese nonché veri e propri interventi di salvataggio per l’acquisizione di imprese di ogni ordine e grado, di ogni dimensione e natura. Di conseguenza, si è assistito a un’espansione indiscriminata delle partecipazioni pubbliche, che ha comportato la despecializzazione degli enti di gestione e che ha snaturato il ruolo stesso delle partecipazioni «tornate al ruolo di supplenza dell’iniziativa economica privata che ne aveva caratterizzato la nascita; soltanto che in questo caso si è trattato […] di un intervento a carattere partitico, nel senso che il mondo politico ha utilizzato le partecipazioni pubbliche quale succedaneo dell’erogazione di un pubblico servizio»47. In questo senso si può concordare con chi ha scritto che «le partecipazioni statali sono davvero «bonnes à tout faire» […] sono ovunque»48.

Si giunge così al problema fondamentale degli enti di gestione e delle partecipazioni statali, ossia quello degli oneri impropri (o connessi, o indiretti), che si concretizzavano in minori ricavi e maggiori costi sopportati dall’impresa a partecipazione pubblica per effetto di compiti onerosi imposti all’impresa medesima dal socio pubblico.

Tra i tanti studiosi che già negli anni Settanta avevano inquadrato i punti deboli delle partecipazioni statali, uno in particolare aveva colto la declinazione nella strategia politica dei problemi summenzionati con le seguenti parole: «c’è la questione del salvataggio […] Si arriva –

46

F.MERUSI –D.IARIA, Partecipazioni pubbliche, op. cit., p. 4. 47 F.M

ERUSI –D.IARIA, Le partecipazioni pubbliche, ibidem. 48 S.C

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all’unisono con i neo-liberisti – a pretendere che la relativa «funzione» sia espulsa dal sistema delle partecipazioni statali e che gli enti ivi inclusi operino sempre con grinta imprenditiva, sgombri da pesi che possono farli affondare. Ma questo elude il problema […]. Che cosa si vuole, al di là del disegno di un mondo felice, nel quale i salvataggi non saranno più necessari? Quando si criticano quelli effettuati dalle partecipazioni statali, si vuol dire che non se ne devono più fare nel modo clientelare ed oscuro con cui li si è fatti? La funzione di salvataggio insomma deve scomparire o deve divenire essa stessa trasparente, programmata e al guinzaglio del Parlamento?»49.

A ben vedere, alla luce dell’esperienza successiva delle privatizzazioni, sembra che il problema sia stato continuamente, se non eluso, rinviato. Ne è una dimostrazione la disciplina originaria, ma in parte anche quella attuale, delle società in mano pubblica che si sono costituite a partire dagli anni Novanta. Non resta, a questo punto, che proseguire nella trattazione per osservare come siano state in concreto attuate le privatizzazioni tanto degli enti pubblici economici esaminati nel precedente paragrafo, quanto degli enti di gestione appena descritti.

1.6. La trasformazione degli enti pubblici

economici e le prime società per azioni

pubbliche

Uno dei massimi esperti delle partecipazioni statali, Pasquale Saraceno, già nel 1965 bene inquadrava il problema delle privatizzazioni nei seguenti termini: «le dimensioni del sistema delle partecipazioni statali, oltre che aumentare per l’espansione delle imprese e per acquisizione dal capitale privato, possono diminuire per effetto di smobilizzi o privatizzazioni, come

49

Sono le parole di G.AMATO, Economia, politica e istituzioni in Italia, op. cit., pp. 111-112. Più in generale sullo stesso tema cfr. G.AMATO,(a cura di), Il governo dell’industria

in Italia, Bologna, il Mulino, 1972.

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