• Non ci sono risultati.

LA TRAVAGLIATA DEFINIZIONE DEL TERMINE “RIFIUTO”

CAPITOLO II : LA STRATEGIA COMUNITARIA NELLA GESTIONE DEL

3. LA TRAVAGLIATA DEFINIZIONE DEL TERMINE “RIFIUTO”

La ricerca di una chiara delimitazione concettuale del termine “rifiuto” è un tema che impegna giurisprudenza e dottrina ormai da tre decenni.

Nonostante a prima vista possa apparire una nozione di agevole riconoscibilità semantica, specialmente se considerata in correlazione all’accezione comune del termine, tale semplicità svanisce quando viene richiesta una nozione di tipo formale e giuridico, elaborata dal diritto nazionale o comunitario.

Tale problema interpretativo risiede principalmente nella circostanza che detto termine può indicare due realtà molto distinte tra loro: la res destinata all’eliminazione (coerente con la nozione comune), ma anche quella che conserva un valore residuo, potenzialmente in grado di fornire materie o sostanze di riutilizzo.

Facile dedurre che tale incertezza definitoria abbia notevoli ripercussioni in campo amministrativo e penale, in quanto oggetto materiale di tutte le fattispecie sanzionatorie contenute nel T.U.A. (parte IV).

55

Il primo riferimento normativo al concetto di “rifiuto” è individuabile nel T.U.S.70, che prevedeva la competenza del sindaco a prescrivere le norme da applicare per la prevenzione dei danni o pericoli derivanti da “rifiuti solidi o

liquidi” provenienti da manifatture o fabbriche.

Mancava, quindi, qualsiasi tipo di definizione del termine.

Non di rado, inoltre, questo veniva sostituito con la parola “immondizia”, con evidente richiamo al concetto diffuso di senso comune.

La successiva legge 366/41 invece, si apre con una vera e propria norma definitoria, che qualifica come “rifiuti solidi urbani” le immondizie e rifiuti

delle aree pubbliche, o comunque destinate, anche temporaneamente, a uso pubblico (rifiuti esterni) o ancora le immondizie e in genere, gli ordinari rifiuti dei fabbricati a qualunque uso adibiti (rifiuti interni).

Pare corretto affermare dunque che tale intervento normativo, circoscrivendo il proprio ambito di applicazione ai soli rifiuti solidi urbani, escludeva sia quelli prodotti in aree extraurbane che quelli che si trovassero in diverso stato di aggregazione, e che restavano così assoggettati al regime dettato dal precedente T.U.S. .

Tali esclusioni rivelano chiaramente la ratio ispiratrice della norma, che sembra enfatizzare soprattutto gli aspetti economici della gestione dei rifiuti: non può però essere considerato un intervento pioneristico, anticipante cioè i

56 successivi interventi comunitari se consideriamo il contesto nel quale veniva adottata, ovvero il periodo di guerra71.

Il nostro ordinamento ha progressivamente aperto la strada al diritto ambientale, attraverso il riconoscimento della rilevanza costituzionale del bene giuridico “ambiente”72, con l’art. 9, co.2, Cost. (tutela del patrimonio

storico e artistico) e con l’art. 32, co.1, Cost. (che qualifica la salute come diritto dell’individuo e della collettività)73

.

Possiamo quindi affermare che si tratta essenzialmente di una visione antropocentrica dell’ambiente, in quanto anche i beni ambientali, coerentemente con lo spirito personalistico che permea la Costituzione, vanno considerati come condizioni per il pieno sviluppo della persona umana, riconoscendo l’ambiente come diritto dell’uomo, bene sia superindividuale che di appartenenza alla collettività impersonalmente intesa74 .

La nozione giuridica nazionale tuttavia, non sembra combaciare con quella dettata dal diritto comunitario, in particolare con quella prevista dal Trattato europeo, nelle interpretazioni offerte dalle istituzioni comunitarie ed in particolar modo dalla Corte di Giustizia.

71 V. Paone, La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti, Milano, 2008, 15.

72 Prima che nell’art. 117 Cost., la Legge Costituzionale n. 3 del 2001 ne avesse previsto

l’esplicita menzione.

73

D. Borgonovo Re, Corte costituzionale e ambiente, in Riv. giur. amb., 1981, 461 ss. . Vedi anche G. Alpa, Il diritto soggettivo all’ambiente salubre: “nuovo diritto” o espediente tecnico?, in Ambiente e diritto, cit., I, 431, il quale evidenzia il ruolo fondamentale di dottrina e giurisprudenza fondamentale per l’emersione del bene giuridico ambiente nel silenzio del legislatore.

74 Per un quadro sulla nascente tutela penale dell’ambiente si veda R. Bajno, Ambiente nel

diritto penale (tutela dell’), in Dig. disc. pen., I, 1987, 115 ss. e P. Dell’Anno, Manuale di diritto dell’ambiente, Padova, 2003, p. 12 ss. .

57 Secondo l’orientamento prevalente sarebbe già l’art. 2 del Trattato CE (oggi art. 3, Trattato di Lisbona) a sancire l’inscindibile connessione fra tutela ambientale e sviluppo economico sostenibile con la sua previsione di un “miglioramento della qualità della vita” dei cittadini della comunità, nella sua accezione più ampia, non solo considerando quindi l’aspetto strettamente economico.

Un’impronta quindi marcatamente ecocentristica, come chiaramente confermato dall’art. 174 del Trattato, il quale prevede che la politica della Comunità in materia ambientale debba mirare ad un livello elevato di tutela, nonché fondarsi su due principi75 essenziali: quello di precauzione76 e quello di azione preventiva.

La portata innovativa del primo è enorme: dotato di forte carica ecocentristica e anti-antropocentrica, svincola la tutela dell’ambiente, dalla salute e dal benessere individuale e collettivo rapportandolo invece al benessere delle generazioni future, imponendo, nello stato di incertezza scientifica circa le conseguenze di una determinata azione, la regola dell’astensione.

Il principio di prevenzione o di azione preventiva (dal latino prae e venire, “venire prima”) può essere validamente sintetizzato nel prendere tutte le precauzioni necessarie affinché un evento negativo o dannoso non si verifichi.

75 M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Rivista quadrimestrale di

diritto dell’ambiente, 1-2/2012, 69 o R. Rota, Brevi note sui “nuovi” principi generali di tutela ambientale, su www.astrid.eu.

76 S. Grassi, Prime osservazioni sul principio di precauzione come norma di diritto positivo,

58 In materia ambientale77, infatti, occorre intervenire prima che siano stati causati dei danni, così da prevenire, nella misura in cui ciò sia possibile, eliminare o quantomeno ridurre fortemente, il rischio che tali danni si verifichino.

Ciò non solo perché i danni ambientali, una volta verificatisi, non sempre sono riparabili; ma anche poiché, pur laddove lo siano, l’attività di ripristino generalmente è molto più onerosa di quella di prevenzione, con la conseguenza che questa non possa prescindere anche da considerazioni di rilievo economico.

Il diritto comunitario ha avuto importanza fondamentale e propulsiva nei confronti dell’elaborazione della nozione di rifiuto: solo grazie alla direttiva 75/442/CE, trasposta in ritardo di circa sette anni nel D.P.R. n. 915 del 1982, che costituisce il primo intervento organico in materia di smaltimento dei rifiuti, si è tentato di arginare quelle lacune normative che avevano causato diffuse pratiche di abbandono incontrollato e dinamiche di traffico illecito organizzato.

La nozione comunitaria ivi racchiusa definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od

oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali” mentre verrà imprecisatamente trasposta nel nostro

77U. Salanitro, I principi generali del Codice dell’ambiente, in Giornale di diritto

59 ordinamento come “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umana

o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”.

Da precisare inoltre come il termine “to dispose of”, utilizzato nell’originario testo inglese della direttiva, fosse stato correttamente tradotto con “disfarsi” nella versione italiana, mentre nella legge di recepimento della stessa si era preferito ricorrere al meno corretto “abbandonare”: questo termine richiama l’idea del “gettar via in modo definitivo”, mentre con riferimento al testo della direttiva, ci si può “disfare” anche di qualcosa che può avere o acquistare valore attraverso un eventuale processo di riutilizzo.

Ne deriva che può costituire rifiuto non soltanto ciò che non abbia più utilità per nessuno, ma anche ciò che non serva più al detentore78.

La giurisprudenza di legittimità si è occupata di un ipotizzato contrasto tra le due definizioni, in quanto con il termine “abbandono” ci si sarebbe riferiti ad uno stato obiettivo delle cose, mentre la seconda avrebbe dato una nozione più ristretta di rifiuto, richiamando con il termine “disfarsi” una specifica condotta umana.

Si è così stabilita79 l’equivalenza dei due termini poiché “anche la situazione

di abbandono della cosa ha l’implicito requisito della dimissione da parte del detentore” .

78 G. Amendola, Gestione dei rifiuti e normativa penale, Milano, 2003, 59 ss. .

79 Cfr. Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 1988, documentata da Ridolfi, in Giustizia penale,

60 Attraverso questa interpretazione, dunque, ispirata al fine di ricondurre l’imperfetta trasposizione al dettato della direttiva europea, la nozione di rifiuto non viene ancorata ad una qualità della cosa (abbandonata o destinata all’abbandono) quanto alla destinazione impressa dal suo detentore, superando dunque quella resistenza culturale del nostro legislatore che concettualizzava il rifiuto come immondizia, res derelicta.

La giurisprudenza prevalente si è dimostrata orientata ad accogliere un’interpretazione di tipo oggettivistico del dettato normativo, considerando dunque il rifiuto in riferimento al detentore e in funzione dell’utilità che il materiale, senza necessità di alcun trattamento, conserva per esso.

Solo nel caso in cui sia evidente che il detentore non abbia alcuna volontà di disfarsi della materia, ma voglia servirsene direttamente ed immediatamente, sarebbe possibile ipotizzare che la cosa non sia abbandonata o destinata all’abbandono e pertanto non residui alcun pericolo per l’ambiente derivante da una sua eventuale dismissione80 .

In materia di raccolta e trasporto di materiali di scarto per il riutilizzo presso fonderie, è stato stabilito81 che “trasporto e ammasso di residui derivanti da

lavorazione industriale, oggettivamente destinati all’abbandono, sono attività di smaltimento rifiuti speciali, pertanto soggetti al regime del d.P.R. 915/82, non rilevando in alcun modo né il valore economico, né il successivo

80 G. Amendola, Smaltimento di rifiuti e legge penale, cit., 16.

61

riutilizzo; il fine della utilizzazione economica non altera la tipologia giuridica e non lo svincola dal regime che disciplina la sua inclusione nel novero dei rifiuti speciali”.

L’introduzione di una disciplina derogatoria nazionale, con la Legge n. 475 del 1988, per le “materie prime secondarie”, sostanze che venivano dunque sottratte a quanto previsto dalla disciplina generale spinse la Corte di Giustizia, soltanto due mesi dopo, ad intervenire per la prima volta in questa materia, con due sentenze82 .

L’interpretazione83

così emersa finì per escludere la rilevanza di qualsiasi parametro, anche oggettivo (come la suscettibilità di riutilizzazione economica) volto a limitare astrattamente la definizione di rifiuto, lasciando di fatto aperto il problema del momento in cui qualsiasi materiale o sostanza, compresi i residui di produzione suscettibili di riutilizzo, acquisissero la qualifica di rifiuto e se esistesse uno spazio, sia pur ristretto, per ritagliare una categoria di residuo non qualificabile come rifiuto 84.

82

Si tratta delle sentenze rese dalla Prima sezione della Corte di Giustizia delle Comunità europee nei procedimenti riuniti C-206-207/1988, Vessoso e G. Zanetti, e nel procedimento C-359/1988, E. Zanetti ed altri.

83

Per il Giudice comunitario, la nozione di rifiuto, ai sensi dell’art. 1, delle direttive del Consiglio 75/442 e 78/319, “non deve intendersi nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Pertanto una normativa nazionale la quale adotti una definizione della nozione di rifiuto escludente le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile con le direttive del Consiglio 75/442 e 78/319”. Allo stesso modo concludeva inoltre nel senso che la nozione di rifiuto “non presuppone che il detentore che si disfa di una sostanza o di un oggetto abbia l’intenzione di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di altre persone”.

62 Si comprende facilmente quindi, in questa situazione di incertezza, il motivo dell’opportuno intervento della Corte Costituzionale, con sentenza n. 512 del 30 ottobre 1990, che fissa come criterio di individuazione primario la destinazione finale di un residuo e il principio secondo il quale una determinata sostanza deve esser definita e disciplinata come rifiuto o come materia prima secondaria a seconda che ad essa sia impressa la destinazione finale dell’abbandono, ovvero quella del reimpiego produttivo in qualità di materia prima.

Tramite una propria interpretazione dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia, ed in particolare di quello secondo cui la disciplina sui rifiuti sarebbe dovuta essere applicata a qualsiasi residuo oggettivamente destinato all’abbandono senza che rilevasse la sua suscettibilità ad essere reimpiegato nell’attività produttiva, la Consulta considerò come parametro rilevante non “l’intrinseco valore patrimoniale del residuo” o “l’astratta suscettibilità dello

stesso ad essere riutilizzato in un processo di trasformazione economica”,

quanto, piuttosto, la sua attuale, effettiva e oggettiva destinazione finale alla produzione.

Si spostò, quindi, la questione da un’ottica di tipo sostanziale ad una meramente processualistica, poiché più che di una preindividuazione astratta si rendeva necessaria una prova certa della destinazione al riutilizzo della materia prima secondaria, accogliendo quindi il sistema individuato dall’art. 3 del Decreto ministeriale del 26 gennaio 1990, basato sia su un criterio di tipo

63 tabellare che su un criterio aperto in cui rileva l’effettiva destinazione finale (da individuarsi grazie alla idonea documentazione contrattuale ed idonea dichiarazione dello smaltitore).

L’intervento comunitario successivo85

, oltre ad operare un cambiamento della base giuridica della direttiva, che passa dall’art. 100 A del trattato (sull’avvicinamento delle normative nazionali) all’art. 130 S (in materia di tutela dell’ambiente), introduce nella definizione di rifiuto due importanti novità86: la necessità, perché la sostanza possa essere definita tale, di rientrare nelle categorie riportate nell’allegato I e che si tratti di una sostanza di cui il detentore si disfi, abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi (art. 1, lett. a). Tale criterio tuttavia, solo apparentemente tassativo, risultava infine aperto principalmente a causa delle formule “residui di produzione o di consumo in

appresso non specificati” o “qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate”.

Inoltre anche l’oneroso compito della Commissione di formulazione del catalogo europeo dei rifiuti (CER), una volta assolto nel 1994 (Decisione 94/3/CE, Commissione UE), non risolse comunque la situazione di incertezza, rimanendo esso un “elenco non esaustivo” e restando soggetto alla

85 La direttiva 156/91/CE del 18 marzo 1991 interviene per modificare quella del 1975,

sostituendone i primi 12 articoli con nuovi 18 e introducendo 3 nuovi allegati.

86 Per le innovazioni apportate dalla direttiva sui rifiuti si veda G. AMENDOLA, Gestione

64 previsione87 secondo cui “un materiale figurante nel catalogo non è in tutte le

circostanze un rifiuto, ma solo quando esso soddisfa la definizione di rifiuto” .

Posto che il rinvio al catalogo I non aveva l’effetto di limitare la discrezionalità giudiziale, consentiva poi in astratto la negazione di qualità di rifiuto a sostanze ricomprese nelle suddette elencazioni, e al contrario, la possibilità di riconoscerla a quelle escluse.

Di fondamentale importanza era quindi il secondo parametro di riferimento, quello finalistico della destinazione impressa alla cosa dal detentore.

Proprio in relazione a questo secondo profilo, la Direttiva n. 271 del 1991 introduceva il riferimento alla “decisione di disfarsi” da parte del detentore: tale previsione si giustifica poiché la definizione precedente avrebbe potuto essere interpretata nel senso di consentire lo stoccaggio non autorizzato presso aree appartenenti al detentore di materiali o sostanze di scarto, di cui lo smaltimento non fosse imposto per legge (in tali situazioni, infatti, non sarebbe ricorsa né una situazione in cui il detentore si disfacesse della cose, né quella in cui avesse l’obbligo di disfarsene)88

aprendo quindi una indagine sull’animus del detentore, rispetto al momento in cui si potesse ritenere che un soggetto avesse deciso di disfarsi di qualcosa.

87 Nota introduttiva al CER .

65 Le innovazioni segnalate, dunque, ebbero l’effetto pratico di allargare la nozione di rifiuto invece di restringerla, collocandosi in posizione diametralmente opposta rispetto a quanto si sarebbe voluto ottenere.

4. CLASSIFICAZIONE DEI RIFIUTI ED ATTRIBUZIONE DEL