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LA CORTE STRAORDINARIA D'ASSISE DELLA SPEZIA E I REATI DI COLLABORAZIONISMO

3. Le parti del procedimento

3.6. Le aule del tribunale

Nel momento in cui l’imputato si trovava davanti al giudice per rispondere del reato contestato le aule del tribunale erano piene di persone che assistevano all’udienza .

Oltre alla parte lesa e ai familiari molti cittadini erano desiderosi di ascoltare l’imputato, le testimonianze delle vittime e sopratutto di vedere la pena che veniva loro inflitta.

All’interno delle aule del tribunale era difficile tenere l’ordine e i dibattimenti qualche volta venivano sospesi e rinviati a nuova data.

Sia i giudici che gli avvocati in parte erano influenzati dagli umori del pubblico e c’è la tendenza ad adottare un metro di giudizio severo tra l’estate del '45 e l’autunno quando la pressione popolare era molto alta.

Nel 1946 si ha un modo meno severo di giudicare, la Cassazione procedeva spesso ad annullare le sentenze di primo grado e le rinviava a giudizio in un altra sede dove il procedimento si sarebbe svolto lontano da chi conosceva gli imputati e le loro azioni.

Degno di nota è il caso di Mario Passalacqua condannato a morte il 19 settembre 1946 che venne aggredito all’interno della gabbia del tribunale subito dopo la lettura della sentenza dalla folla inferocita.

4. La sentenza

La presenza dell’elemento materiale era uno dei presupposti necessari perché si concretizzasse il reato di collaborazionismo: a carico dell’imputato dovevano esserci atti concreti e circostanziali che avessero concorso alla realizzazione degli obiettivi politici e militari.

Qualora l’elemento materiale non ricorreva non si aveva la responsabilità dell’indiziato nel crimine.

Spesso i militi della BN dichiararono di aver partecipato ai rastrellamenti o a plotoni di esecuzione ma cercarono di negare la loro reale partecipazione alla violenza.

Molti dichiaravano di aver svolto solo compiti burocratici o di essere stati presenti ma di non aver di fatto dato il loro contributo.

Emblematico è il caso di Enrico Pacifico214, denunciato per aver partecipato

al rastrellamento di Piana Battolla, che dichiarava di essersi trovato in quel luogo come porta viveri e di non aver nessuna responsabilità nella battuta215.

Pacifico nacque ad Anzio, partecipò alla guerra di Libia, alla prima guerra mondiale, alle campagne d’Africa del 1935-36 e richiamato nel 1940 sul fronte greco, si arruolò nella Brigata Nera nel 1944.

Iscritto al PFR dal 1922, partecipò alla marcia su Roma e venne descritto, da chi lo conosceva, come un fanatico e pericoloso fascista.

Il 25 ottobre 1945 venne arrestato e accusato di collaborazionismo con due diverse imputazioni: nella prima si faceva riferimento alla sua partecipazione al rastrellamento di Piana Battolla, operato in risposta al rapimento da parte partigiana del padre del tenente colonnello Vicelli, già capo della 628° GNR provinciale; nel secondo capo si faceva riferimento alla cattura di Mario Bernardini, il 5 novembre 1944 e alla sua consegna ai tedeschi nella piazza centrale di Lerici, facendolo salire su un motofurgone che lo avrebbe poi condotto ai campi di concentramento.

214Archivio di Stato di Genova, CAS della Spezia - Busta n.45 215CAS La Spezia – busta n 45

La difesa provò ad affrontare il primo caso di imputazione dichiarando che il rastrellamento era finito con la riconsegna degli ostaggi e che in ogni caso Pacifico, come da lui ammesso, aveva avuto solo il compito portatore di generi alimentari.

La Corte, al contrario, ritenne che si ravvisi il reato di rastrellamento in quanto i fermi avvenuti per rappresaglia in occasione della cattura del padre di Vicelli, sarebbero stati tutti mantenuti e che la riconsegna degli ostaggi si ebbe a seguito di un accordo di scambio tra partigiani e BN.

Per quanto riguarda il secondo episodio l’imputato contestò ogni accusa dicendo di non essersi mai trovato sul luogo cercando di screditare le testimonianze.

Mario Bernardini dichiarò prima durante la fase istruttoria e poi durante il dibattimento di aver riconosciuto l’individuo che lo arrestò perché lo conosceva già in precedenza. Raccontò in modo dettagliato come Pacifico si fosse diretto verso di lui sparando e dopo averlo colpito alla schiena, lo avesse spinto su un camion insieme ad altri e portato prima a Pontremoli e poi a Verona.

La sentenza si concluse il 13 aprile 1946 con il verdetto di 12 anni, pagamento delle spese processuali e confisca dei beni; infatti, se sussiste la partecipazione attiva all’operazione di rastrellamento, ai fermi, al trasporto di persone che aderiscono al movimento partigiano si configurare il reato di collaborazionismo col tedesco invasore e non si può mettere in dubbio che Pacifico, fascista arrabbiato, abbia avuto piena coscienza dell’azione criminosa e del suo tradimento alla causa nazionale.

Avverso tale sentenza si ricorse in Cassazione e la Suprema Corte dichiarò estinto il reato per amnistia ed annullò la sentenza senza rinvio.

Perché il giudice possa condannare è necessario che l’attività delittuosa dell’imputato sia direttamente e pienamente provata in quanto un dubbio del giudice si risolve in un vantaggio per il pervenuto216

.

L’assoluzione dell’imputato per insufficienza di prove era molto comune perché gli stessi denuncianti non portavano prove concrete nel momento del dibattimento rivelandosi spesso porta-voci di parenti o amici che avevano assistito al fatto o mettendo in evidenza il rancore per motivi privati verso la persona querelata. 216Giuseppe Bettoli, Eccezione alla regola in dubio pro reo, in Rivista Penale, 1946, pp. 296-299.

È il caso di Gino Ferrari217, imputato di cui all’art. 5 DDL 27 luglio 1944 n.

159, art. DDL 22 aprile 1945 n 142 e art 58 CPMG per aver in territorio della Spezia in epoca posteriormente all’8 settembre collaborato con il nemico invasore e in particolare per avere in qualità di maggiore della GNR, guidato di rastrellamento di Madrignano, distruggendo e incendiando il paese per tutto l’8 settembre 1944 e per aver fatto gravi sevizie ai detenuti Cargioli Giuseppe e Cargioli Savino.

Gino Ferrari iscritto al PNF dal 1922, squadrista, partecipò alla marcia su Roma e fu Maggiore della GNR dopo la liberazione.

Tutti i testimoni, concordi nel riferire che l’8 settembre ci fu questo grande rastrellamento a Madrignano, non riuscirono a precisare la data in cui tale rastrellamento sia terminato; alcuni testimoni dicevano il 9 altri il 10 o l’11 settembre.

Sentito l’imputato in fase dibattimentale dichiarò di essere arrivato a Madrignano il giorno 11 settembre e di non aver partecipato al rastrellamento ma di aver supportato la squadra tedesca che si trovava da giorni nel paese.

Alcuni testimoni tra cui Guglielmo Rossini, abitante del luogo, avvalorarono la tesi, dichiarando che l’8 settembre vi erano solo i tedeschi e non la GNR.

Sentite in dibattimento Silvana ed Anna Battolla testimoniarono di aver visto proprio quel giorno il soggetto a Sarzana, e di aver parlato con lui per il trasporto di un ferito.

I testi riferiscono della partecipazione al rastrellamento di Ferrari, ma nessuno di loro fu in grado di portare delle prove concrete di ciò che era veramente accaduto.

La teste Romana Volpi riferisce di aver sentito da altri che il rastrellamento era stata opera del Maggiore Ferrari e di essersi convinta di ciò perché era il comandante con il più alto grado.

Il teste, Abele Bertoni anche lui riportò delle dichiarazioni ricevute da abitanti del luogo. Con precisione raccontò davanti al Pubblico Ministero di aver appreso dai familiari la partecipazione di Ferrari e che il rastrellamento era continuato

sino all’11 settembre, data in cui Ferrari secondo altre testimonianze, si sarebbe trovato nel luogo, ma davanti al giudice Antonini dichiarò di aver visto ciò che raccontava.

Il giudice ritenne il teste non attendibile.

Due soli testimoni lo vogliono nel luogo in quel giorno, ma hanno poca credibilità per il giudice in quanto hanno affermato di avere odio e rancore verso di lui perché aveva partecipato ad una seduta del Tribunale nella quale erano stati condannati due congiunti.

Per la imprecisione nel ricordare le date e la poca credibilità dei testimoni il giudice ritiene di assolvere Ferrari per insufficienza di prove.

Passando al secondo capo di imputazione, ricordiamo che i fratelli Savino e Giuseppe Cargioli, erano stati catturati a Trebiano durante il rastrellamento il 16 dicembre 1945 e portati nella camera di sicurezza della caserma della GNR di Sarzana dove dichiararono di essere stati interrogati dal Maggiore Ferrari e di essere stati bastonati sulla testa.

La Corte non rileva una particolare efferatezza che costituisce causa ostativa all’applicazione dell’amnistia poiché non emergeva crudeltà e brutalità nell’atto di Ferrari.

Inoltre non vi era alcuna ragione per cui il Maggiore si recasse lì a Sarzana per l’interrogatorio dei fratelli Cargioli, dove vi era un distaccamento non di sua competenza ma del Maggior Trefiletti.

Il teste Silvio Carosini, aveva incontrato sui monti di Tellaro proprio quel giorno Ferrari e si era trattenuto con lui, escludendo che lo stesso si fosse recato in seguito a Sarzana.

Da un'indagine ulteriore era emerso che il carattere dell'imputato non sembrava quello del seviziatore e alcuni abitanti del luogo, lo avevano visto prestare soccorso ai partigiani feriti proprio durante il rastrellamento.

La Corte per questi motivi assolse l’imputato per insufficienza di prove con sentenza del 28 febbraio 1947.

Per poter parlare di collaborazionismo l’ azione doveva essere volontaria e cosciente, cioè doveva essere posta in essere senza costrizioni e in modo volontario.

Con la sentenza emessa per Giacomo Sarti218 viene dal giudice messo in

evidenza un altro motivo di assoluzione per non aver commesso il fatto per esservi stato costretto mediante violenza fisica alla quale non poteva sottrarsi.

Sarti, impiegato presso il genio civile e ufficiale del decimo comando provinciale era stato accusato di aver partecipato come giudice in una seduta del Tribunale straordinario della Spezia nella quale venivano condannati a morte 2 partigiani.

Il 6 ottobre 1945, alla procura della Corte d’Assise della Spezia, si ebbe una denuncia a carico di Sarti che si trovava nelle locali prigioni.

Il denunciato, sentito dal carcere, dichiarò di essersi trovato nel magazzino di Pegazzano, dove prestava il suo servizio, quando ricevette l’invito del tenente colonnello Vicelli a seguirlo in macchina.

Sarti pensava di essere condotto dal questore ma in realtà venne portato in un’aula del Tribunale dove si stava svolgendo un processo a 2 giovani partigiani.

Non si trattò di un ordine scritto ma di un costringimento forzato ed inevitabile dal quale non riuscì in alcun modo a sottrarsi.

Il Vicelli, lo minacciò fisicamente e lo obbligò a presiedere a quella seduta. Sarti tentò di opporsi dichiarandosi ignorante nelle circostanze giuridiche e non adatto a giudicare dei giovani in quanto padre di cinque figli.

Non riuscendo a convincere il tenente, non pronunciò parola alcuna scoppiando in un pianto liberatorio dopo la conclusione della seduta.

Il ten. col. Vicelli aveva abitudine di compromettere tutti gli ufficiali che gli erano vicini; così testimoniarono molti dei suoi inferiori.

Le testimonianze a favore del Sarti furono molteplici; il CLN dichiarò che l’imputato aveva aiutato Bruno Palmieri durante un rastrellamento e aveva evitato la fucilazione di Sante Palmieri .

Il parroco di San Michele, Gio Batta Calcagno, disse che l’accusato si era impiegato per la liberazione di alcuni prigionieri durante il rastrellamento di Fivizzano e anche la Parrocchia di Agnino, diocesi di Pontremoli, testimoniò per evidenziare come Sarti si fosse adoperato per impedire la fucilazione del signor Nello, nella zona

soggetta a rastrellamento. Inoltre, Sarti non era iscritto al Partito Nazionale Fascista e sempre si era adoperato a favore della causa partigiana.

Il giudice per queste motivazioni assolve il 26 gennaio 1946 219 Giacomo

Sarti per aver agito sotto costrizione fisica e morale.

In molti casi la CAS spezzina si trovò a giudicare militi delle BN ma non arrivò ad una sentenza di condanna solo per questa motivazione poiché ritenne che la volontaria iscrizione al PNF o l’adesione alle BN potevano mettere in evidenza una predisposizione ad assecondare il tedesco invasore, ma non una prova sufficiente per integrare il reato.

In linea con le altre Corti italiane cercò di evitare che molte persone iscritte al partito fossero sottoposte a procedimento penale confermando la tesi che per parlare di collaborazionismo occorrono degli atti realmente utili al nemico.

L’obbedienza agli ordini ricevuti venne considerata una giustificazione valida per scagionare gli imputati dall’accusa di collaborazionismo.

Il procedimento a carico di Pes Efisio,220 sottotenente della Guardia di

Finanza di stanza a Portovenere, iniziò con una denuncia al Procuratore del Regno presso la CAS della Spezia da parte della compagnia della Regia Guardia di Finanza di Parma.

Tale comando aveva ricevuto dal CLN di Portovenere una denuncia per il suddetto per aver collaborato col tedesco invasore, di aver organizzato azioni di rastrellamento e di aver ostacolato il movimento di liberazione.

Dopo aver svolto accurate indagini, non avendo prove certe a carico dell’imputato, il Comando inviò il tutto all’organo di competenza.

Il 27 luglio del 1945 venne emesso regolare ordine di cattura nei confronti di Pes, ma venne effettivamente tradotto nelle carceri giudiziarie di La Spezia solo il 3 settembre 1945 a causa delle condizioni di salute che lo videro ricoverato in ospedale.

In particolare Pes si trovò a comandare dal luglio 1939 al maggio del 1944 la sezione della finanza di Portovenere, con il grado di maresciallo maggiore.

In un tardo pomeriggio, nei primi giorni di maggio gli venne recapitato a mano da due guardie di finanza, l’ordine scritto formulato dal Comandante del Circolo 219Archivio di Stato di Genova, CAS della Spezia, Busta n 45.

Maggiore Giorgio Viarengo con il quale si ingiungeva di far presentare al comando tre finanzieri.

Pes venne a conoscenza che il maggiore Viarengo intendeva far partecipare un’aliquota della guardia di finanza ad un rastrellamento di patrioti solo in quel momento. In ossequio alla disposizione ricevuta i tre finanzieri si presentarono al comando.

La finanza partecipò ad una operazione di rastrellamento in località Monte Fiori Vigna nelle giornate del 4 e 5 maggio e insieme ai reparti di marinai, di bersaglieri e militari tedeschi.

La partecipazione di questo corpo si rivelò di fatto fittizia e anche il tenente Triolo al comando di questa spedizione diede ordine di aiutare la popolazione e rispettare la proprietà.

Molti furono i testimoni che confermarono il ruolo marginale del corpo impegnato anche avvertire il comando partigiano del rastrellamento stesso.

Achille Battista dichiarò di essere stato fermato dalla guardia di finanza durante il rastrellamento, ma accompagnato a casa e invitato a non farsi più rivedere in giro da altre pattuglie.

Così fu anche per Massimiliano Bertolini e Quintio Ricci che fermati furono interrogati sul lavoro che svolgevano, la provenienza e la destinazione senza molestarli.

Dalle indagini effettuate emerse che Pes aveva frequentato individui iscritti al PNF ma per ragioni d’ufficio e che si era comportato a detta dei molti testimoni sempre in modo corretto.

La Corte afferma che l’ordine impartito è illegittimo per lo scopo espresso, nell’ordine stesso o per lo meno manifestato da coloro che lo portarono ad adibire i militari richiesti ad un rastrellamento poiché non rientra nei compiti della finanza tale l’operazione.

Dispone l’art. 51 del CP che se un fatto costituente reato è commesso per ordine di autorità, del reato risponde il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine e normalmente anche chi ha eseguito l’ordine illegittimo, ma eccezionalmente non risponde chi ha tenuto di obbedire ad un ordine legittimo.

Infine per l’art. 40 del codice militare, i militari non devono sindacare la legittimità dell'ordine per cui vale il principio dell’assoluta subordinazione gerarchica così che il militare che segue un ordine illegittimo non commette reato.

In una sola ipotesi ne può rispondere anche il subordinato e cioè quando l’esecuzione dell’ordine sia manifestamente reato.

Non è questo il caso perché qui l’ordine non è manifesto ne palesemente conclamato.

Manifesto non può essere il reato che al momento dell’esecuzione non esiste ancora nella sua configurazione giuridica, pertanto non può considerarsi reato l’invio dei militari al Comando e il non obbedire lo avrebbe fatto incorrere nel reato di rifiuto dell’obbedienza.

A favore di Pes c’è un rilievo da non sottovalutare, oltre alla giovane età, si evidenzia il fatto che anche il tenente Triolo e i marescialli delle altre sezioni non si rifiutarono di dare esecuzione all’ordine che a nessuno di costoro era apparso reato manifesto.

In questo caso ne risponde solo il maggiore Viarengo, giudicato dal tribunale di Milano, in data 20 luglio 1945 e condannato a 30 anni di reclusione e tra le sue imputazioni c’erano anche quella di aver dimostrato volontà collaborazionista facendo partecipare i suoi dipendenti al rastrellamento pur non rientrando nei suoi compiti.

Con sentenza del 30 novembre 1945 il giudice Antonini pronunciò l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato per aver obbedito ad un ordine superiore..

Tra le varie imputazioni troviamo aver collaborato con il nemico a scopo di lucro, e qualche volta si arrivò ad una sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.

Eraldo Bianchi, Franco e Celse Carassale221 erano imputati di aver

collaborato col nemico invasore, per aver eseguito, per conto dell'amministrazione tedesca, ingenti lavori.

Eraldo Bianchi e Pietro Pastorino erano operai meccanici, nel 1942 avevano aperto una ditta che svolgeva la propria attività in provincia.

Dopo l’8 settembre rimasti senza lavoro e per far fronte alle necessità della vita come sostiene nell’interrogatorio Bianchi, assunsero l’incarico di verniciare sette macchine utensili. Solo sei delle sette macchine richieste vennero consegnate e con molto ritardo, e non solo nella testimonianza dell’imputato si segnala che molti pezzi non vennero assemblati.

Il lavoro di verniciatore aveva portato un guadagno di 200000 lire, somma divisa in quattro parti visto che Pastorino e Bianchi non erano più soli e avevano assunto nella ditta anche i fratelli Carassale.

Franco Carassale, prima della guerra aveva lavorato in una ditta edile in Libia e nel bombardamento del 21 aprile 1941 dopo aver perso la moglie ed un figlio dovette ritornare in patria. Alla Spezia riprese il suo lavoro che consisteva nel costruire gallerie – rifugio. Il fratello Celse che era stato impiegato alla Banca di Tripoli, dopo il rimpatrio entrò nella ditta con il fratello.

Pastorino si era allontanato dalla ditta e non troviamo tracce di lui nel secondo lavoro che veniva commissionato dai tedeschi. Si trattava della riparazione del tetto della caserma dei sommergibili che portò un utile di 2700000, come ho potuto rilevare dalle fatture contenute nel fascicolo. Ancora una volta ci fu ritardo nella consegna del lavoro.

Dopo aver analizzato i conti della ditta e le numerose fatture il Pubblico Ministero Rinaldi invio gli atti alla CAS.

La Corte con sentenza del 19 aprile 1947 assolse gli imputati per non aver commesso il fatto. Pastorino non compare nella sentenza della CAS poiché il pubblico ministero non aveva ritenuto necessario procedere e aveva archiviato il suo caso.

Bianchi, secondo il giudice non aveva mai avuto coscienza e volontà di prestare aiuto al tedesco invasore, infatti aveva assunto il piccolo lavoro per procurarsi il denaro per mantenere la propria famiglia, e non si può ravvisare il fine del lucro. Inoltre non si può attribuirgli nemmeno il dolo, perché aveva in qualche modo tentato di osteggiare il nemico consegnando in ritardo e boicottando le commesse.

Per quanto riguarda i fratelli Carassale, come ho detto in precedenza, non si erano improvvisati industriali per trarre vantaggio dalla chiusura di tutte le altre fabbriche, ma avevano già una ditta come testimoniano anche due operai testi a favore, Gianardi e Barbieri. La somma che i due avevano ricavato era una somma ingente ma non era nella loro volontà il tradire la Patria vendendosi al nemico.

6. La pena