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La Repubblica Sociale Italiana alla Spezia tra pratiche repressive e punizione dei crimini

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE...pag. 1 LA PROBLEMATICA DELLE FONTI... pag. 7 CAPITOLO 1. LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA

ORIGINI E PROBLEMATICHE

1. Il contesto storico...pag. 13 2. La struttura della Repubblica Sociale Italiana...pag. 15 3. Gli organi dei corpi militari della Repubblica Sociale Italiana..pag. 24

3:1 La Guardia Nazionale Repubblicana...pag. 25

3:2 Le Brigate Nere...pag. 27 3:3 La X° Flottiglia MAS...pag. 33

CAPITOLO 2. STORIA E PROBLEMATICHE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA ALLA SPEZIA

1. Le origini...pag.38 1:1 Dal 25 luglio all'8 settembre 1943...pag.38 1:2 La crisi di Stato dell'8 settembre 1943...pag.43 1:3 La Spezia sotto la Repubblica Sociale Italiana...pag.45 2. L'esercizio della violenza...pag. 52 2:1 La tortura...pag. 52 2:2 Le rappresaglie...pag. 59 2:3 I rastrellamenti...pag. 65 2:4 Cenni statistici delle violenze nel territorio spezzino...pag. 73

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CAPITOLO 3. I REATI DI COLLABORAZIONISMO E LA CORTE STRAORDINARIA D'ASSISE

1. Il collaborazionismo...pag. 81

2. I decreti legislativi per l'epurazione...pag. 88 3. Le parti del procedimento...pag. 94

3:1 L'imputato...pag 97

3:2 Il Pubblico Ministero...pag. 97 3:3 Il Presidente...pag. 101 3:4 La giuria popolare...pag. 102 3:5 Gli avvocati difensori...pag. 105 3:6 Le aule del tribunale...pag 106.

4. La sentenza...pag. 107 5. La pena... pag. 116 6. La presunzione di responsabilità...pag 120 7. L'amnistia...pag 124 8. La Cassazione...pag 128 9. Oreste Marcobello...pag.136 10. La Banda Gallo...pag.139 CONCLUSIONI... pag 145 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI...pag.150

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro è dedicato a un'analisi del periodo storico della seconda guerra mondiale che va dal 25 luglio 1943 fino all'aprile 1945, dove si delinea e opera la Repubblica Sociale Italiana (RSI).

Lo scontro che si consuma in Italia in quei 600 giorni è stato definito "Guerra Civile" da alcuni storici, primo tra questi Claudio Pavone nel suo Saggio del 1991 intitolato "Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza".

L'ultima fase bellica ha visto il popolo italiano scisso; una parte di esso si oppose all'invasore tedesco e al totalitarismo fascista intessendo una difficile collaborazione con l'esercito alleato, un'altra parte si schierò con la Repubblica Sociale Italiana.

Il mio lavoro è strutturato in tre capitoli.

Il primo di questi è dedicato a ricordare le origini della RSI, esaminando brevemente il periodo precedente al Gran Consiglio del fascismo, del 25 luglio 1943, per arrivare alla messa in minoranza di Mussolini da parte degli stessi gerarchi, alla sua successiva destituzione e arresto da parte del re Vittorio Emanuele III; si arriva all'8 settembre e all'inevitabile collasso che ne derivò, con la fuga del sovrano al sud e la liberazione del Duce da parte delle forze speciali tedesche.

Segue una descrizione della struttura degli organi attraverso i quali la neo-nata repubblica esercitava il suo potere, in particolare la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), le Brigate Nere (BN) e la X° Flottiglia MAS.

Nel secondo capitolo ho esaminato il periodo del fascismo repubblicano a livello locale, precisamente alla Spezia, soffermandomi sulle agitazioni popolari contro il proseguimento della guerra, sugli scioperi e sulla crisi seguita all'8 settembre.

Inoltre ho approfondito il tema dell'esercizio della violenza, cioè il modo in cui gli organi descritti nel primo capitolo esercitano il loro potere.

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Mi sono soffermato sulla tortura, sulle rappresaglie e sui rastrellamenti alla Spezia, conoscendo così le sanguinose stragi avvenute nel contesto urbano e ho preso in esame il ruolo dei responsabili ponendo in rilievo il collegamento tra il singolo episodio e gli obiettivi dell'esercito tedesco in Italia.

Nella mia analisi ho consultato fonti di natura bibliografica sia di carattere storiografico sia giuridico, alcune testate giornalistiche del periodo, in particolare l’edizione locale dell'"Unità" e del "Tirreno" con il quale ho cercato di ricostruire i fatti.

Non è mancata la consultazione delle buste della prefettura della Spezia conservate nell'Archivio di Stato spezzino, le buste trovate nell'Archivio dell'Istituto Storico della Resistenza "P. Beghi” della Spezia e L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 1943-1945 a cura di Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzini che mi ha permesso di impostare una ricerca nuova nei confronti degli atti di violenza avvenuti in città e nelle zone limitrofe.

Prendendo in considerazione all'interno dei provvedimenti sanzionatori contro il fascismo elaborati in Italia dopo la seconda guerra mondiale, la punizione del reato di collaborazionismo, ho dedicato il terzo capitolo a una disamina delle sentenze della Corte d'Assise Straordinaria della Spezia (CAS).

Per fare ciò ho consultato l'Archivio di Stato di Genova, dove sono conservate tutte le sentenze delle CAS liguri.

In Liguria, le CAS avevano sede nei capoluoghi di Genova, Savona, Imperia, La Spezia-Apuania e nelle sedi distaccate di Sanremo e Chiavari.

Tutte le sentenze della regione, sono conservate nell’Archivio di Stato di Genova, dove sono suddivise per luogo e contenute in una serie di buste con una numerazione progressiva.

Le sentenze della CAS della Spezia occupano le buste dalla numero 43 alla numero 50, secondo un ordine cronologico di emissione, alla quale si aggiunge una busta generale la numero 94.

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Nella busta numero 94, troviamo un registro, compilato a mano, dove abbiamo le generalità dell’imputato, il titolo d’imputazione, la data e il luogo del commesso reato, qualità e data dell’atto con cui è iniziato il procedimento, data dell’arresto, domicilio eletto dell’imputato, difensore, il Pubblico Ministero, data invio degli atti, data ordine di cattura, data della richiesta di citazione diretta e del deposito in cancelleria, data della sentenza, data della compilazione della scheda nel casellario e altre annotazioni.

Il registro preso in esame non è compilato in tutte le sue parti e mancano molte informazioni relative ad alcuni imputati e al loro procedimento.

Aprendo le buste si nota una serie di cartelline gialle, verdi o rosa nel cui frontespizio figura il nome dell’imputato, il capo dell’imputazione, la data della sentenza, un breve resoconto di ciò che si trova al suo interno.

In ogni fascicolo è contenuto un numero vario di pagine da un minimo di 5 a più di 200 a seconda del numero degli imputati e dei capi di imputazione a loro attribuiti.

Abbiamo molti fogli singoli, prevalentemente manoscritti e solo eccezionalmente dattiloscritti.

Tra le prime pagine si trovano le denunce che arrivavano agli uffici del pretore e del procuratore generale ma anche alla questura o ai carabinieri; non manca la documentazione di denunce fatte al Comitato Liberazione Nazionale (CLN) che poi si rivolgeva alla procura generale.

Gli autori delle denunce erano spesso le stesse vittime ma anche parenti, conoscenti o colleghi di lavoro di chi aveva subito il torto.

Nel fascicolo di Drago Geo1 troviamo anche una pagina del giornale, dove

viene chiesto pubblicamente a coloro che hanno notizie di reati compiuti dall’individuo di presentarsi per la denuncia alle autorità competenti.

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I gruppi partigiani investivano le proprie energie nella ricerca e nella denuncia dei fascisti della Repubblica Sociale e abbiamo anche incartamenti che ricordano il lavoro svolto da questi gruppi.

Se il soggetto era già incarcerato, si aveva un interrogatorio della polizia giudiziaria o nel caso in cui sia trovasse ancora in libertà, si procedeva all’ordine di cattura.

Ci sono molti fogli concernenti il testimonio senza giuramento davanti al Pubblico Ministero (PM) dove venivano ascoltati i testimoni e naturalmente l’imputato.

Alla fine di questa fase istruttoria il Pubblico Ministero poteva decidere di prosciogliere o di mandare gli atti al giudice per il giudizio vero e proprio.

Nel fascicolo troviamo i verbali dell’estrazione a sorte dei giudici popolari, le lettere di convocazione agli stessi per partecipare al dibattimento con il giorno e l’ora di presentazione davanti al giudice.

Nella convocazione dell’imputato si riportava un’intestazione della Corte d’Assise e della sezione, il nome del presidente, del cancelliere, del giudice popolare e del PM.

Seguono un numero variabile di pagine, dove troviamo le domande poste all’imputato e ai testimoni questa volta sotto giuramento.

Non mancano fogli dedicati alle richieste dell’avvocato e infine la sentenza finale.

La sentenza è costituita da un numero variabile di pagine, divisa in rubrica e stesura. Nella prima si riportano i dati dell’imputato e i vari reati. Nella seconda si riassumono le cause che hanno portato all’arresto, le indagini, le dichiarazioni del soggetto e dei testimoni in fase istruttoria e terminano con il ragionamento del giudice che emette il verdetto.

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Si ha notizia del deposito in cancelleria degli atti, della data in cui è divenuta esecutiva e della trasmissione della sentenza per l’archiviazione alla cancelleria della Corte d’appello di Genova.

Nelle sentenze emesse dopo il decreto di amnistia, datato 22 giugno 1946, abbiamo anche delle pagine che ne danno notizia; qualche volta si ha la documentazione della richiesta dell’imputato.

Alcuni procedimenti non si concludevano con l’emissione della sentenza e troviamo all’interno del fascicolo anche eventuali ricorsi alla Cassazione, con la lettera dell’avvocato difensore che accompagnava la richiesta e una nuova sentenza emessa questa volta dalla Suprema Corte.

Se la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, troviamo un documento che lo attesta e in caso di annullamento della sentenza si rinviavano gli atti ad un nuovo giudizio in un'altra sede ma di quest’ultimo non ne troviamo nota.

Il fine ultimo di questo capitolo è di analizzare l'attività complessiva della Corte Straordinaria d’Assise mettendo in luce sia l'azione giudiziaria con riferimenti statistici delle imputazioni, dei reati, delle condanne, delle assoluzioni, delle pene, delle formulazioni dei ricorsi e della concessione dell'amnistia sia le caratteristiche personali degli imputati e la loro condotta morale nel periodo in cui hanno collaborato con il tedesco invasore.

La scelta di concludere il mio percorso di studi con una tesi di laurea sulla violenza nella RSI alla Spezia è nata dal ricordo dei racconti di mio nonno.

Classe 1922, aveva vissuto gli anni della guerra e al ritorno dalla sua deportazione in Germania aveva trovato la città ancora profondamente scossa dalle stragi avvenute in provincia.

Negli anni successivi, quando i colpevoli di tali violenze vennero giudicati si era sentito insoddisfatto e tradito da una giustizia che con un colpo di spugna aveva cancellato mesi di soprusi e di violenza.

Io, in linea con questa opinione pur sapendo che si trattava di provvedimenti necessari per mettere fine ai procedimenti di giustizia sommaria e alla

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vendetta privata non posso dimenticare la violenza posta in essere da questi soggetti nella mia città e il ricordo di ciò è lo scopo del mio lavoro.

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La problematica delle fonti

La dimensione storiografica presenta delle problematiche che non devono essere sottovalutate, ma per meglio comprendere questo concetto è necessario prima effettuare una puntualizzazione sul significato del termine storia in tutte le sue eccezio-ni. Normalmente con questa espressione ci si riferisce alla narrazione di fatti accaduti in epoche differenti da quella presente, sulla base di nozioni raggiunte tramite gli stu-diosi.

In tal modo si interpreta la concezione di storia più tradizionalistica, che fino ad oggi è stata utilizzata soprattutto nei contesti scolastici. Oggi però, la nuova vi-sione evolutiva che ha influenzato la creazione dei nuovi programmi degli studi storici nelle scuole, ipotizza tre nuove significanti, derivanti dai nuovi modelli storiografici contemporanei: “[…] Storia come realtà del passato; Storia come memoria collettiva,

o insieme di tradizioni culturali che incidono sul presente; Storia come ricerca storio-grafica, che pur collegandosi alla memoria collettiva tende a superarla per rinnovare

il rapporto tra presente e passato”2. Il primo punto assegna al termine storia tutto

l’insieme di mutamenti economici, sociali, politici e culturali che si sono susseguiti nel tempo, ovvero, il reale succedersi degli accadimenti. Benché possa apparire una forma di ovvietà, è sostanziale intendere e soprattutto far intendere l’importanza della pene-trazione del passato per una chiara visione del presente, giacché il nostro presente si desume direttamente dalla concatenazione di evoluzioni che si sono succedute.

La definizione di storia, nella sua accezione di memoria collettiva, altro non è che il bagaglio culturale che viene tramandato di generazione in generazione e che ha dato origine alla mentalità di un determinato gruppo sociale. La storia, quindi, compo-ne e motiva ogni abitudicompo-ne, ogni tradiziocompo-ne, ogni valore, ma anche ogni pregiudizio.

La memoria collettiva tende a presentare una impronta conservatrice atta alla negazione ed al rifiuto di cambiamenti e novità. È la visione del passato che grava autoritariamente sul presente e questo, è rappresentato da tutte le tradizioni, le consue-tudini e i valori che vengono vissuti nella quotidianità, senza porsi la domanda sul come si è giunti a una determinata usanza.

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Il terzo punto sottolinea la ricerca che tramite accertamenti e ricostruzioni si dinamizza allo scopo di che si muove al fine di dare un senso alla successioni degli umani accadimenti.

Se invece la memoria collettiva viene vista nella sua accezione di trasmis-sione della cultura tradizionale, la storiografia deve essere intesa come una riflestrasmis-sione consapevole sugli accadimenti passati. Non è una cultura fine a se stessa che racconta qualcosa, ma bensì un lavoro intellettuale atto a donare coscienza piena delle motiva-zioni tradizionali, che consente, quindi, di non accettare più le usanze o le abitudini in maniera acritica, ma bensì attraverso un procedimento consapevole.

La storia quindi assume una sua funzione sociale, ovvero, quella del rinno-vamento continuo proprio della memoria collettiva, adeguandola ai nuovi bisogni e alle nuove strutture societarie, che sono evoluzione del passato, come dire: la cultura di una società deve effettuare la medesima evoluzione della società stessa.

Quest’ultimo punto si rivela essere quello basilare e di maggior interesse al fine educativo, allo scopo di formare un nuovo soggetto in grado, non solo di una cor-retta integrazione nel suo contesto sociale, ma anche capace di comprendere le motiva-zioni per la quale si è giunti a determinate abitudini e di conseguenza di accettare il suo inserimento nella società in modo cosciente e intenzionale3.

Un’altra cosa che si deve tenere in considerazione è la reale essenza del fat-to sfat-torico; in merifat-to, infatti, E. Carr affermava che: “non tutti i fatti del passafat-to sono

fatti storici, o sono trattati come tali dallo storico, qual è il criterio per distinguere un fatto storico?”4.

La risposta immediata che potrebbe giungere alla domanda posta dallo sto-rico britannico potrebbe essere che i criteri di giudizio per discernere un fatto normale da un fatto storico si dovrebbe basare sull’importanza del fatto in sé, ma questo princi-pio non gode l’accezione di categoria assoluta, bensì si risolverebbe tramite una stima relativa, la quale a sua volta verrebbe vagliata in base ad un determinato parametro, dato dallo storico.

Infatti, il quesito conseguente sarebbe quello di chiedersi in base a quali cri-teri, un fatto può essere considerato importante. In questo caso si dovrebbe valutare la 3 Lando Landi, Metodi e tecniche per insegnare la storia, Giunti, Firenze 2000, pp. 47–48.

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basilarità relazionale dell’argomento specifico, ma la definizione di un argomento spe-cifico, indica una ipotesi di analisi fondata sulla possibilità di verifica della produttivi-tà esplicativa delle correlazioni che questi vorrebbe connettere tra alcuni fatti.

Di conseguenza tra tutti gli episodi che questi può esaminare si dovrà per forza effettuare una cernita desunta dalla rilevanza relativa in base all’ipotesi che si de-cide di seguire. La sua scelta specifica determinerà i fatti storici considerati importanti per i suoi studi. Questo comporta che la definizione di fatto storico non nasca dalla sua reale importanza, ma da quella che gli viene data dallo storico; continua a tal proposito Carr: “l’essere considerato un fatto storico, dipende, quindi, da un problema di

inter-pretazione. Ciò vale per ogni fatto della storia”5. Il concetto può essere perfezionato

con le parole di Levi-Stauss: “La storia non è […] ma la storia è per […]. Dal

mo-mento che ci si propone di scrivere la storia della rivoluzione francese, si sa, (o si do-vrebbe sapere) che non potrà essere simultaneamente e alla stesso titolo, quella del

giacobino e quella dell’aristocratico”6. E continua Carr: “ne consegue che quando

co-minciamo a leggere un libro di storia, dobbiamo occuparci innanzitutto dello storico che l’ha scritto, e solo in un secondo momento dei fatti che prende in considerazio-ne”7.

Diventa quindi basilare, per non cadere nella trappola del dogmatismo, ac-quisire la consapevolezza di comprendere prima ancora del fatto il soggetto che lo ana-lizza. Se un tempo la storiografia si focalizzava principalmente sull’analisi del succe-dersi degli avvenimenti politici, ad oggi quella moderna, sembra più interessata all’analisi del quadro generale nel quale gli eventi acquisiscono una significante di epi-fenomeni di un cambiamento che può essere valutato solo in correlazione alle trasfor-mazioni sociali.

Questa nuova visione porta a far sì che gli oggetti di studio non siano solo le componenti politiche degli avvenimenti, ma tutte le sfaccettate componenti fonda-mentali della realtà sociale, che comprendono i lati economici, demografici, religiosi, la mentalità, le tradizioni, ed i livelli di conoscenza e di padronanza tecnologica etc..8

L’ingresso della visione sociale all’interno dell’analisi storica che focalizza i fenomeni 5 Ivi, p. 17.

6 Claude Levi- Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Verona, 1967, p. 67. 7 Edward Carr, Sei lezioni sulla storia, op. cit., p. 27.

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sociali e le influenze che queste hanno avuto nelle trasformazioni della società oltre al collegamento tra gli avvenimenti, ha fatto sì che molti studiosi abbiano iniziato a vede-re il mutamento umano con le concezioni di struttura e rivoluzione. Il primo ad utiliz-zare il concetto di struttura per l’interpretazione della fenomenologia storico culturale fu Karl Marx, ma la reale nascita della disciplina strutturale si avrà nel 1916 grazie agli allievi di F. de Sussurre, con la pubblicazione del Corso di linguistica generale.

Partendo dalla linguistica, quindi, lo strutturalismo verrà utilizzato anche dagli studiosi di altre discipline. Levi-Strauss nelle sue Strutture elementari di

parenla, del 1952 lo introdurrà nell’antropologia e in seguito lo perfezionerà proprio nel

te-sto Antropologia strutturale del 1958. In campo prettamente te-storico, farà la sua com-parsa il medesimo anno grazie a F. Braudel e il suo articolo Storia e scienze sociali pubblicato sulle Annales ESC9.

E sarà proprio Braudel ad affermare che la storiografia deve essere in grado di individuare ed analizzare le strutture delle società umane nella prospettiva della lun-ga durata. Egli si premunirà anche di delineare in maniera più chiara il termine

struttu-re ed il suo utilizzo: “per noi storici una struttura è senza dubbio connessione, archi-tettura, ma più ancora una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con se molto a lungo. Talune strutture, vivendo a lungo, diventano elementi stabili per una infinità di generazione: esse ingombrano la storia, ne impacciano e quindi ne determi-nano il corso, altre si sgretolano più facilmente, ma tutte sono al tempo stesso dei so-stegni e degli ostacoli”10.

Risulta, quindi, che la vita quotidiana delle società è costituita in base a di-verse tipologie di struttura. Queste hanno la caratteristica della lunga durata, nonostan-te si sviluppino con ritmi differenti. Sono quesnonostan-te a denonostan-terminare la ripetitività e la preve-dibilità della vita quotidiana, creando una forma di gabbia dalla quale, in mancanza di una vera e propria rivoluzione, non ci si potrà liberare11.

Il cambiamento della ricerca storica che prima si focalizzava solo sui grandi eventi politici e che a oggi s’interessa all’analisi della quotidianità delle civiltà passate, in modo da comprenderne le motivazioni di evoluzione e il conseguente susseguirsi 9 Ivi, pp. 49–50.

10 Fernand Braudel, Scritti sulla storia, Mondadori, Cles, Trento, 1980, p. 65.

11 Krzysztdf Pomian, Storia delle strutture, in J. Le Goff (a cura di), La nuova storia, Mondadori, Milano, 1988,

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degli avvenimenti, deve portare a uno studio focalizzato solo ed esclusivamente sull’eccezionale, ossia su qui grandi eventi; di conseguenza, sarebbe limitativo, in quanto non permetterebbe una reale analisi delle evoluzioni delle situazioni o del come si è giunti a determinati cambiamenti.

Se tutte queste problematiche sono da considerare nello studio, così come nell’insegnamento della storia in generale, per il periodo del fascismo e il conseguente conflitto bellico, le problematiche correlate alle fonti sono notevoli, in primis correlate alla capacità funzionalistica di chi riporta i fatti, li analizza e li studia, ma anche per problemi pratici di fonti, questo a causa della censura che vigeva sotto la dittatura, per la perdita di materiale informativo, dato dal caos di un conflitto, per la voluta distru-zione di documenti.

Del resto si tratta di fatti storici conosciuti, legati ad uno dei periodi più bui della storia, che ancora, dopo tanti anni, anche per soggetti che non li hanno vissuti di-rettamente, risultano molto sentiti, e visti attraverso una concezione ideologica che in-fluisce nel giudizio volente o nolente. Il tempo passato non è riuscito a placare gli ani-mi, ad eliminare la rabbia e il dolore impliciti nella lettura di tali fatti storici, di conse-guenza, sarà proprio la memoria storica a dover riferire se stessa. Ma questo può acca-dere solo se riesce a ricreare retrospettivamente quella del suo pubblico, che diviene, di conseguenza, motore di modifiche a ogni rilettura, e in contemporanea agisce su ogni nuova produzione, ponendo le basi per quella successiva.

Questa cognizione evidenziata dall’estetica della ricezione è una delle spie-gazioni per le quali un qualsiasi testo può essere valutato in maniera difforme da diffe-renti soggetti lettori. Questo è un concetto fondamentale per comprendere la difficoltà che sussiste nell’analisi dei fatti in questione ed all’interpretazione di fascismo e di Re-sistenza, analizzando i fatti con una visione scevra da ideologie, per la descrizione di un argomento così difficile da comprendere e così sensibile per le implicazioni politi-che, storiche e sociali che racchiude.

Uno storico quindi non dovrebbe presentare uno schieramento politico, ma umanamene la cosa non è semplice, perché ogni uomo implicitamente da un giudizio che dovrebbe essere eliminato attraverso una visione funzionalistica, cosa non sempli-ce, giacché non è semplice una separazione tra la scienza e l’etica.

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Un altro problema non indifferente è quello che in ogni tempo, il potere po-litico ha strumentalizzato le notizie per i suoi scopi, durante il fascismo questo atteg-giamento è stato notevolmente amplificato, giacché come accadde nel regime nazista, la propaganda ebbe una importanza precipua, cosa che potrebbe portare seri dubbi sul-le fonti che ci sono pervenute. Nel caso del fascismo possiamo citare la censura del tempo che ha portato all’eliminazione della documentazione scomoda.

Ma ciononostante, grazie al tempo relativamente vicino e moderno non fu possibile eliminare tutte le notizie e soprattutto le testimonianze. Grazie alle fonti quin-di è possibile cercare quin-di dare una chiara interpretazione al fenomeno del fascismo in ogni sua parte. Nella documentazione è, infatti, possibile trovare una coerenza delle in-tenzioni e della politica del Regime, che sottolineano la visione politica. È vero che ogni interpretazione non deve cadere nella demonizzazione da un lato, ma soprattutto non deve cadere nel negazionismo. Un pericolo sempre presente. Soprattutto a oggi.

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CAPITOLO PRIMO

LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA - ORIGINE E PROBLEMATICHE

1. Il contesto storico

La scelta di Mussolini di trascinare l’Italia in guerra era un atto dovuto ma anche un azzardo; un atto dovuto per l’affermazione della sua politica ideologica, ma un azzardo per aver legato le sorti del partito alle sorti della guerra12..

La continua catena di sconfitte militari, dalla campagna di Albania a quella di Grecia e Cirenaica, contribuirono ad intaccare il prestigio e la credibilità del regime.

Lo smantellamento delle posizioni italo-tedesche in Africa, lo sbarco anglo-americano in Sicilia e l’accanirsi della tattica del bombardamento sulle principali città italiane furono chiari segnali che la fine era vicina13.

La situazione interna in Italia era già rovente; da mesi era stata registrata una forte carenza di materie prime e di approvvigionamenti, che avevano messo in grave crisi la produzione industriale; numerose alte cariche del governo avevano cominciato ad esprimere il malcontento, tra tutti Galeazzo Ciano, al tempo Ministro degli Esteri che, seppur inascoltato, si era fortemente opposto alla politica di sottomissione alla Germania. Tuttavia, il malcontento si era ormai diffuso tra la popolazione, che non vedeva più Mussolini come una guida, stremata dalla penuria data dal conflitto14.

Le prime manifestazioni di dissenso si verificarono attraverso una serie di scioperi contro il regime, che iniziarono dalla FIAT di Torino per poi estendersi brevemente in tutto il territorio milanese. Gli scioperanti non cedettero più alle minacce fasciste, seppure vi siano stati numerosi scontri e molteplici arresti, molti leader del movimento antifascista vennero arrestati e torturati fino alla morte, altri, invece, furono mandati nei campi di concentramento dai quali non fecero mai ritorno.

La Sicilia era stata da poco invasa dalle truppe alleate quando Mussolini decise di scrivere a Hitler per manifestargli l’impossibilità per l’Italia di continuare il 12 Roberto Chiarini, L’ultimo fascismo. Storia e memoria della Repubblica di Salò, Marsilio, Venezia, 2013. 13 Ibidem.

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conflitto, ma il Fuhrer era profondamente deluso dagli italiani, soprattutto dal comportamento tenuto in guerra definito “poco energico e valoroso” e se in passato aveva ammirato il Duce, ormai sapeva di non poterci più contare e il suo scopo era quello di prendere il potere nel centro e nel nord del paese italico, lasciando ai fascisti il compito di fermare gli alleati al sud.

Su questo sfondo maturò una convergenza d’interessi tra chi all’interno del regime riteneva possibile che potesse ancora esistere un fascismo senza Mussolini, e la monarchia sabauda, la quale, al contrario, sperava di sbarazzarsi in un colpo solo del Duce e del regime, come effettivamente avvenne15.

La crisi del regime fascista, culminata con la messa in minoranza di Mussolini al Gran Consiglio del 25 luglio 1943, aveva creato una divisione tra chi aveva sfiduciato il Duce e chi invece aveva continuato ad appoggiarlo incondizionatamente.

Se non si tiene conto di tale divaricazione, non si riesce a comprendere la nascita della Repubblica Sociale italiana e la storia successiva del fascismo repubblicano.

Per i fascisti la caduta di Mussolini fu un trauma pesantissimo, non solo per il cambio al vertice del governo ma per l’esplosione della gioia popolare che dimostrava quanto il regime fosse odiato, e per la dissoluzione istantanea del partito senza nessun tipo di opposizione da parete della milizia e degli altri apparati. Il regime crollò senza combattere16.

La popolazione interpretò la caduta del Duce come la possibile conclusione della guerra, si scatenò contro i simboli del regime, le sedi del partito nazionale fascista furono assaltate dalla folla, le immagini furono date alle fiamme sulle piazze e i fasci ogni presenti furono scalpellati via17.

I fascisti furono incapaci di accettare l’ostilità della maggioranza degli italiani che vedevano il partito come unico responsabile delle loro sofferenze, si sentirono vittime di una terribile ingiustizia, vittime dell’ingratitudine del popolo italiano che li aveva sostenuti in cambio di un minimo di benessere economico e di 15 Renzo De Felice, Mussolini l’alleato. L’ Italia in guerra 1940-1943. Crisi e agonia del regime, Einaudi,

Torino, 1999.

16 Amedeo Osti Guerrazzi, Storia della repubblica sociale italiana, Carocci, Roma, 2012. 17 Ibidem, p. 25.

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vittorie militari. Dopo tre anni di guerra tramontata ogni speranza di grandezza imperiale e in preda alla fame e alla miseria il regime crollò18.

Come afferma Aurelio Lepre, per molti italiani, “la patria non morì l’8

settembre ma il 25 luglio”19.

Subito dopo l’arresto di Mussolini si insediò ufficialmente il governo Badoglio che proseguì le trattative con gli alleati che culminarono con un armistizio che venne siglato il 3 settembre e reso pubblico il giorno 8 dello stesse mese.

La sera dell’8 settembre 1943, infatti, in seguito alla dichiarazione radiofonica del primo ministro (il maresciallo Pietro Badoglio) si annunciò la stipulazione di un armistizio con gli alleati angloamericani e, a partire da questo momento, l’Italia visse il periodo forse più nero della sua storia unitaria, ossia quello che ha consentito agli storici di parlare di una “nazione allo sbando” e di “morte della

Patria”20.

In effetti, dopo la caduta di Mussolini, era parso a tutti chiaro che la volontà di Vittorio Emanuele III di proseguire il conflitto a fianco della Germania nazista non era altro che un pretesto per guadagnare tempo e un modo per meglio intavolare trattative di pace con Stati Uniti e Gran Bretagna.

Tali trattative furono condotte nel peggiore dei modi da una classe dirigente impaurita che aveva perso il senso della realtà, per cui invece di negoziare la propria uscita dal conflitto l’Italia ne venne, di fatto, scaraventata fuori dalla decisione alleata di accelerare la firma dell’armistizio rivelando al mondo intero le intenzioni delle autorità di Roma e mettendole di fronte al fatto compiuto21.

La decisione degli angloamericani colse di sorpresa il governo italiano e lo gettò nella confusione e nello sconcerto; non vennero impartiti ordini chiari per le Forze Armate, le quali precipitarono nell’incertezza e, in breve, nel collasso, facilitate dal pessimo esempio che veniva dalla vergognosa fuga del sovrano, del principe ereditario e delle massime gerarchie dello stato da Roma a Pescara e poi a Brindisi, dove venne istituito un nuovo governo.

18 Ibidem.

19Aurelio Lepre, Storia della repubblica di Mussolini. Salò il tempo dell’odio e della violenza, Mondadori,

Milano, 2000.

20 Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, Il Mulino, Bologna,

1993.

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I soldati sparsi per tutta l’Europa, pensavano che la guerra fosse finita, come la maggior parte degli italiani e si adoperarono per tornare a casa, nel mentre i tedeschi attaccarono le divisioni, prendendone possesso delle armi, lasciando sul campo chi aveva tentato di opporsi e facendo molti prigionieri che per lo più persero la vita.

Quando, il 12 settembre, il Duce venne liberato dai reparti tedeschi nel tranquillo rifugio di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, dove era stato confinato dal governo Badoglio, egli forse neppure si attendeva un rientro nella scena politica, ma quella era la volontà di Hitler.

Mussolini il 17 settembre proclamò via radio il Nuovo Stato Fascista .

2. La struttura della Repubblica Sociale Italiana

Il 23 settembre del 1943, il governo fascista si riunì a Roma nell’ambasciata tedesca, per la prima volta, sotto la presidenza di Pavolini e senza la presenza del Duce.

La forma di governo che sarà analizzata di seguito è improntata ad una dimensione di provvisorietà, in quanto intrinsecamente legata alle vicende belliche; provvisorio fu anche il nome che il nuovo Stato prese ufficialmente solo il 1 dicembre: Repubblica Sociale Italiana.

Nel verbale, non molto dettagliato, della prima seduta, si riporta un’introduzione del segretario di partito che si rivolse con un saluto ai caduti “che

attendono la vendetta contro i traditori che hanno venduto la patria allo straniero e calpestato, mancando alla parola data al leale alleato popolo tedesco, l’onore della nazione”22.

Solo il 27 settembre il governo incontrò Mussolini che si trovava ancora alla Rocca delle Caminate e da subito emerse la volontà che la nuova forma di governo non avesse nessun legame di continuità con il fascismo di regime, che veniva considerato, a detta dello stesso, il responsabile della mancata attuazione delle sue politiche sociali.

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Il Duce espresse alcune indicazioni sulla futura azione del governo; le decisioni più urgenti erano lo scioglimento del senato, la riorganizzazione delle forze armate, lo spostamento a nord dei vari ministeri, la riunificazione delle confederazioni di categoria in un’unica confederazione generale del lavoro e della tecnica e infine il mantenimento della commissione per l’accertamento degli illeciti arricchimenti23.

Lo Stato fascista nato nel settembre del 1943 era una Repubblica di tipo presidenziale nell’ambito della quale le cariche di Capo dello Stato e Capo del Governo si sommavano nella figura del Duce, coadiuvato nell’attività di governo da un Consiglio dei Ministri, ciascuno dei quali nominato da Mussolini stesso e solo a lui responsabile.

Nel caso della Repubblica Sociale Italiana, tuttavia, sarebbe più opportuno parlare di “regime presidenzialista”24, in quanto le vicende della guerra impedirono sia

l’elezione del Capo dello Stato, sia la costituzione di Camere rappresentative funzionanti con conseguente concentrazione del potere legislativo e del potere esecutivo nelle mani del Governo25.

I vari ministeri furono sparsi in un territorio vasto che ne determinò una grande difficoltà di gestione. La dispersione degli organi di governo si traduceva in una limitata capacità d’interazione, che comportava rallentamenti e stalli nella gestione amministrativa. Molte sono le teorie sul perché della frammentazione dell’attività amministrativa e politica e alcuni storici ritengono si tratti di una vera difficoltà oggettiva, altri di un intento tedesco per rendere difficoltosa a Mussolini ogni volontà di governo.

Da questo quadro deriva la caratteristica più peculiare della Repubblica Sociale Italiana, la sua frammentazione geografica.

La capitale era formalmente Roma, ma di fatto si pensò, strategicamente, di allontanarsi dalla città per molteplici motivi: la sua vicinanza alla linea del fronte e l’ostilità del Vaticano furono importanti ma si aggiunse sicuramente la volontà tedesca di avere mano libera nel territorio del nord per impedire al regime di acquisire

23 Amedeo Osti Guerrazzi, op.cit.

24 Mario Volpi, Diritto Pubblico Comparato, Giappichelli, Torino, 2012.

25 Daniele Trabucco, Michelangelo.De Donà’, L’ordinamento giuridico della Repubblica sociale italiana. Dal colpo di Stato del 25 luglio 1943 alla fine della guerra, Solfanelli Editore, Chieti, 2017.

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prestigio e autonomia26. L’alternativa naturale a Roma sarebbe stata Milano, culla del

primo fascismo, ma venne scartata probabilmente per non attirare su di essa i bombardamenti aerei.

Infine per volontà tedesca, la residenza del Duce diventò Gargnano; la sede del Partito Fascista Repubblicano (PFR) ed il gabinetto del ministero dell’interno si stabilirono a Maderno, la presidenza del consiglio dei ministri a Bogliaco e a Desenzano, il ministero degli esteri a Salò.

Il nome di Repubblica di Salò, con il quale passò alla storia, è dovuto al fatto che le comunicazioni ufficiali del governo provenivano dal sottosegretario alla stampa e alla propaganda, che aveva sede in questa cittadina sul Garda.

Il circondario sul Garda era strategicamente importante, c’erano fabbriche di armi ed industrie siderurgiche ed era una delle ultime zone d’Italia ancora in grado di distribuire merci, lontana dalle grandi città, facile da raggiungere e da difendere.

Il nuovo Stato fascista, creato sotto copertura e tutela tedesca, nacque come stato repubblicano allo scopo di prendere le distanze da quella monarchia che aveva colto al balzo l’opportunità offertale dalla messa in minoranza di Mussolini al Gran Consiglio.

La RSI esercitò la propria sovranità solo sulle province non soggette all'avanzata alleata e all'occupazione tedesca diretta. Inizialmente la sua attività amministrativa si estendeva fino alle province del Lazio e dell’Abruzzo, ritirandosi progressivamente sempre più a nord, in concomitanza con l'avanzata degli eserciti angloamericani. A nord, inoltre, i tedeschi istituirono due "Zone di operazioni" comprendenti dei territori che erano state parti dell'Impero austro-ungarico: le province di Trento, Bolzano e Belluno (Zona d'operazione delle prealpi) e le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana (Zona d'azione d'operazioni del litorale adriatico), sottoposte direttamente ai Gauleiter tedeschi del Tirolo e della Carinzia, de facto anche se non legalmente governate dal Terzo Reich.

Le aspettative di un riconoscimento internazionale del nuovo governo restarono deluse: a parte la Germania, alcuni stati sotto la sua influenza e il Giappone, la RSI non riuscì a conquistare uno spazio sullo scenario internazionale.

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Anche questo elemento è riconducibile alla natura di governo di fatto che identifica Giannini “sono ordinamenti giuridici di fronte a se stessi, e nei confronti di

coloro sui quali esercitano di fatto il loro potere d'impero; rispetto ad altri ordinamenti giuridici della categoria degli ordinamenti statali essi sono

tendenzialmente irrilevanti”27.Non si può dimenticare che, per i motivi e i tempi in cui

nacque, la Repubblica Sociale fu anche una “repubblica necessaria”28, come scrisse

Piero Pisenti, ministro della Giustizia per tutta la breve vita della RS.I, in quanto funse di fatto da “stato cuscinetto” tra la popolazione italiana e le forze di occupazione germaniche, che erano animate da una marcata volontà di vendetta nei riguardi di un alleato che le aveva tradite.

Non si tratta certo di sovra rappresentare un’affermazione di parte come questa, ma occorre riconoscere che in fondo quello fu l’atteggiamento sul quale si trovarono concordi tutti i fascisti e anche coloro che, ad esempio nelle Forze Armate, non erano definibili come fascisti ma ritenevano vergognoso il modo in cui la monarchia di Savoia aveva deciso di far uscire l’Italia dal conflitto.

Si fece forte a quel punto specialmente nelle fila della sinistra fascista29 la

tentazione di considerare il ventennio come una parentesi in cui si era compiuto un tradimento a carico del fascismo delle origini repubblicano e rivoluzionario assai diverso da quello conservatore e reazionario degli anni del compromesso con la monarchia sabauda e il Vaticano.

Riconquistare il consenso degli italiani fu al centro degli interessi di Mussolini ed è volto a questo scopo il fondamento ideologico e propagandistico della piccola repubblica: il recupero di un fascismo delle origini, dei lavoratori, epurato dai grandi capitali, collusi con la monarchia.

Non sono pochi coloro che scelgono di aderire a questo fascismo redivivo, confidando nella volontà di rinnovamento: emerge un quadro di fermento propositivo che coinvolge i fascismi locali, caratterizzato nei primi mesi della RSI da un ampio spettro di posizioni in merito alla gestione del partito e dell'economia, ma anche da

27 Massimo Severo Giannini, La R.S.I. rispetto allo Stato Italiano, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche,

f.1/4, 1951, p. 336.

28 Piero Pisenti, Una Repubblica necessaria, Giovanni Volpe editore, Roma, 1977. 29 Paolo Bughignani, La rivoluzione in camicia nera, Mondadori, Milano, 2006.

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proposte di collaborazione con gli antifascisti per mantenere l'unità del paese, presto piegate al prevalere della linea autoritaria del governo.

Prevarrà comunque la tendenza squadrista: l'ostilità manifestata della popolazione nei confronti del regime nei quarantacinque giorni precedenti l'armistizio ha polarizzato nei fascisti la demarcazione dei ruoli tra i traditori e i traditi, e ciò che muove molti fascisti della RSI è la volontà di rivalsa, in aggiunta al sentimento di rappresentare l'unica parte onorevole della nazione.

Fu cosi che mentre si organizzava il nuovo stato, il congresso del PFR tenutosi a Verona nel novembre del 1943, gettò le basi del RSI e approvò il manifesto di Verona che può essere considerato come atto fondante della Repubblica Sociale.

Il documento, composto da diciotto articoli, prevedeva la convocazione di una Costituente, “potere sovrano di origine popolare che dichiari la decadenza della

monarchia, condanni solennemente l’ultimo re traditore, proclami la Repubblica

sociale e ne nomini il Capo”30.

La Costituente, rinviata alla fine della guerra, sarebbe stata composta dai rappresentanti di ogni Corpo od Istituto, la cui partecipazione avrebbe dovuto contribuire a fare di essa la sintesi di tutti i valori della Nazione.

Il suo scopo principale l’adozione di una nuova Costituzione con il compito di assicurare al cittadino soldato, lavoratore e contribuente il diritto di controllo e di critica sugli atti della Pubblica Amministrazione, nonché il diritto di pronunciarsi ogni cinque anni sulla nomina del Capo dello Stato e di garantire l’indipendenza della Magistratura31

.

Il Manifesto di Verona, se da un lato poneva un limite all’esercizio del potere costituente, cioè la forma di governo repubblicana, dall’altro non indicava quale tipo di repubblica l’Assemblea Costituente avrebbe dovuto individuare.

Questo manifesto fu l’ispiratore di nuovi principi politico-sociali fondamentali come la centralità del lavoro e la socializzazione delle imprese.

La socializzazione rappresentava il chiaro desiderio di ritornare al programma fascista originario, quello del 1919, dove il lavoro, la capacità imprenditoriale e il capitale venivano posti sullo stesso piano, alla ricerca di una “terza 30 Congresso di Verona, 14 novembre 1943, punto 1.

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via” tra capitalismo e comunismo, che rendesse impossibile i conflitti di classe32

. Come

il capitalismo, la socializzazione prevedeva il diritto alla libertà privata, la libertà di iniziativa economica, il rispetto della libera concorrenza, ma conferiva un ruolo decisamente meno marginale alle classi lavoratrici, cui era riconosciuto il diritto di partecipare alla ripartizione degli utili prodotti dalla propria azienda33

.

Era evidente in una scelta del genere la volontà del fascismo repubblicano di staccarsi dalla posizione filo borghese che aveva tenuto nel corso del ventennio34

.

Sul piano materiale la socializzazione avrà nell'alleato tedesco un oppositore scettico; e nonostante una prolifica opera normativa sulla materia, i risultati della RSI non saranno quelli millantati dalla propaganda. Resta il fatto che l'aspirazione alla socializzazione ha una parte fondamentale nel sistema di valori della repubblica e parla ai fascisti, ma anche a tutti gli italiani delusi dalla “fellonia” del re.

La politica antiebraica occupò il punto sette di tale Manifesto:“Gli

appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono

alla nazionalità nemica”35

.

Si trattava di un notevole salto di qualità rispetto a quella che era stata sino a quel momento la politica antiebraica del fascismo e la cosa deve essere vista alla luce della situazione italiana di quel convulso periodo: ricostruito in fretta e furia e con l’aiuto e la super visione germanica il partito repubblicano non aveva altra scelta se non quella di dimostrarsi più zelante dei suoi padroni, al fine di dimostrare la chiarezza dei suoi intenti e la sua purezza ideologica che ne avrebbero favorito la legittimazione e l’accettazione da parte nazista.

Non a caso, già il 30 novembre 1943 il ministro dell’Interno della RSI diramò l’Ordine di polizia n.5, che disponeva l’arresto e l’internamento di tutti gli ebrei e il loro internamento in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati, oltre al loro sequestro (trasformato poi in confisca nel gennaio del 1944) di tutti i beni.

32 Amedeo Osti Guerrazzi, op.cit.

33 Giorgio Ganapini, La repubblica delle camice nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Garzanti Libri, Milano, 1999.

34 Giorgio Bocca, op.cit.

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I capi delle province della RSI iniziarono ad allestire campi di internamento provinciale e i questori iniziarono ad effettuare gli arresti, sulla base di una linea politica che si traducesse essenzialmente in scelte di polizia, che almeno in parte contribuirono a sostituirsi alle attività di repressione antiebraica dei tedeschi, le cui retate diminuirono di numero e di intensità, ma solo perché sostituite da quelle delle forze di sicurezza della RSI. La maggior parte degli ebrei arrestati dai fascisti o dai nazisti venne raggruppata in carcere o campi di raccolta presenti sul territorio nazionale e poi deportata principalmente nel campo di sterminio di Auschwitz.

Quel che è certo e non fa onore al fascismo repubblicano, è che esso svolse, nel breve periodo della vita della Repubblica Sociale, un semplice ruolo strumentale e subalterno in favore delle esigenze tedesche, e utilizzò le sue strutture di polizia per arrestare ebrei e consegnarli ai nazisti36.

La persecuzione antiebraica fu una macchia indelebile che si impresse sul fascismo repubblicano37, ma non meno sanguinoso e tragico risultò il suo

coinvolgimento nella guerra civile e nella repressione antipartigiana.

Oltre ai traditori della vecchia Italia monarchica e badogliana, i fascisti dovettero affrontare un nemico insidioso e concreto, la guerra partigiana38.

Durante lo scontro tra le forze armate tedesche e quelle italiane alle porte di Roma, nacque il “Comitato di Liberazione Nazionale” per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all’Italia il posto che le competeva nel consenso delle libertà nazionali39

.

Molti cittadini si opposero all’occupazione tedesca, tra loro ex prigionieri di guerra fuggiti da campi di prigionia ma anche militanti comunisti e antifascisti in libertà cercavano di sfuggire alle retate tedesche prendendo la via della montagna. Si formarono gruppi e bande che aspettavano nascoste sperando che fascisti e tedeschi non venissero a cercarli. Ma altri, si organizzarono in maniera più strutturata e senza nascondersi affrontarono il nemico.

I rastrellamenti tedeschi non fermarono l’avanzata partigiana.

36 Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2007. 37 Andrea Chiarini, op.cit.

38 Amedeo Osti Guerrazzi, op.cit. 39 Ibidem.

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Nacquero i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) organizzazioni d'élite che operavano nelle città, formate da pochissime persone che agivano in clandestinità per conto del PCI40.

All’inizio del '44, con la “Guerra Civile” ormai in atto, i fascisti anche se al potere si sentivano una minoranza, odiata dallo stesso popolo per il quale dicevano di combattere .

In seno alla Repubblica c’era un’altra importante priorità, quella di regolare i conti con quei fascisti che a partire dal 25 luglio, avevano complottato con la monarchia e tradito il Duce.

Fu una sorta di espiazione, utilizzando altre vittime, per cercare di occultare il più possibile il fatto che, dopo la destituzione di Mussolini, nessun fascista aveva alzato un dito per difenderlo. Fu cosi che si arrivò al processo di Verona e alla condanna41 di quei gerarchi che, il 25 luglio avevano votato contro Mussolini.

Le udienze, iniziate l'8 gennaio 1944, durarono appena tre giorni e il collegio giudicante era composto da uomini di provata fede fascista. Imputato principale fu Galeazzo Ciano, genero del Duce, e considerato dagli uomini di Salò il più “infame del gruppo”.

Il dibattimento si svolse in un clima teso e spesso interrotto dalle grida di vendetta di un pubblico già convinto della sentenza e in una lugubre sala addobbata con panni neri.

Scontata la richiesta finale di pena di morte per tutti gli imputati e le frettolose e intimidite arringhe dei difensori. Le pene capitali furono comminate a cinque imputati (Ciano, De Bono, Marinella, Gottardi e Pareschi), e l'esecuzione ebbe luogo la mattina del'11 gennaio nel poligono di Forte San Procolo, a Verona, con un plotone di esecuzione formato da trenta militi fascisti.

Tre ore dopo Mussolini aprì il Consiglio dei ministri a Gargnano pronunciando la frase "giustizia è fatta".

La liberazione di Roma, il 5 giugno 1944, fu l’ultimo atto di una serie di delusioni per chi voleva far coincidere l’essere italiano con l’essere fascista e si cominciò a considerare il popolo italiano come un popolo di traditori e di indegni. 40 Ibidem.

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Il popolo aveva tradito e non valeva più la pena combattere per loro.

La maggior parte dei fascisti abbandonò ogni residua ideologia nazionalistica e si creò una nuova identità con nuovi ideali per combattere. Il fascismo diventa Milizia dell’Europa anziché dell’Italia ed in questo contesto nascono le Brigate Nere.42 Il partito si dedica solo al combattimento e perse ogni interesse per la politica,

anche se di fatto continuarono le politiche socializzatrici del governo; i fascisti che restano solo i più duri e spietati e altro non si conosce che la violenza, si ha una nazificazione del partito43

.

I rastrellamenti colpiscono la popolazione civile allo scopo di terrorizzarla e di renderla inoffensiva, sempre più frequenti le fucilazioni, le impiccagioni, stupri e saccheggi; lo stato repubblicano si vide costretto dalla sua debolezza a regredire verso queste antiche forme di ostentazione della propria capacità di punire44

.

Intanto proseguiva l’avanzata angloamericana che raggiunse il suo apice con l’offensiva sul litorale tirrenico e verso la pianura padana nell’aprile 1945, con lo scardinamento della linea Gotica. Ormai per i fascisti era chiaro che la guerra stava per finire. L’insurrezione del 25 aprile 1945, la cattura del Duce e la sua fucilazione determinarono la fine della RSI.

3. Gli organi dei corpi militari della Repubblica Sociale Italiana

Dal momento che il collasso italiano dell’8 settembre era stato soprattutto un gravissimo crollo militare, il governo repubblicano si trovò stretto tra la necessità di cancellare la terribile macchia del cambio di campo della monarchia, della liquefazione dell'Esercito e della consegna agli alleati di una flotta ancora poderosa come quella in possesso della Regia Marina, e l’esigenza di soddisfare la richiesta tedesca di ricostruire al più presto delle Forze Armate nazionali, che potessero venire in soccorso di quelle germaniche e alleviarle in molti compiti di controllo del territorio.

42 Dianella Gagliani, Brigate Nere, Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Bollati

Boringhieri, Torino, 1999.

43Amedeo Osti Guerrazzi, op. cit. 44 Claudio Pavone, op.cit.

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Di fatto il nuovo esercito risultò costituito da tre componenti diverse: in primo luogo, le milizie di partito, come la Guardia Nazionale Repubblicana e le Brigate Nere. In secondo luogo i reparti militari regolari come le quattro divisioni, Italia, Littorio, Monte Rosa e San Marco; infine i reparti speciali come la X° MAS e la Legione Italiana delle Waffen SS.

L’organizzazione di tutti questi reparti rappresentò uno sforzo organizzativo, ma la mancata eterogeneità che li contraddistinse disperse l’impegno in mille rivoli e accentuò il distacco tra fascismo repubblicano e la maggioranza degli italiani45, distacco che aumenterà quando la RSI decise di introdurre la coercizione

obbligatoria per rafforzare il proprio apparato militare. Molti giovani preferirono salire in montagna piuttosto che rispondere alla chiamata di leva, contribuendo a rafforzare il movimento di resistenza antitedesco46

.

3.1 La Guardia Nazionale Repubblicana

L’8 dicembre 1943 grazie a Renato Ricci, venne istituita la Guardia Nazionale Repubblicana, una Forza Armata atta alle funzioni di polizia, in sostituzione dell’arma dei Carabinieri e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN). Questa sarebbe stata composta dalle nuove leve, guidate dagli anziani raccolti sotto il nome di Milizia Legionaria.

Ricci aveva il sostegno di Heinrich Himmler, giacché il suo progetto era quello di dare vita ad un esercito al servizio del partito, ispirandosi alle famigerate SS, che controllasse tutte le forze di terra e che facesse capo ad un unico comando.

Paradossalmente, però, trovò delle contrapposizioni proprio tra gli alti militari che avevano aderito alla RSI, tra tutti possiamo ricordare Rodolfo Graziani al tempo Ministro della Difesa e Maresciallo d’Italia, questi avrebbero preferito un esercito nazionale e non partitico atto a reintegrare le truppe che erano state portate in Germania. I tedeschi però non vedevano di buon occhio una tale condizione e quindi la GNR non ricoprì ruoli militari, giungendo ad un compromesso istituendo anche quello

45 Silvio Bertoldi, Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Rizzoli, Milano, 1976. 46 Giampaolo Pansa, L'esercito di Salò, Mondadori, Milano,1998.

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che prenderà il nome di Corpo delle Camice Nere. Ricci rimase al comando direttamente sotto Mussolini47

.

L’idea era quella di un controllo capillare a livello territoriale, tramite i comandi locali e provinciali, che mantenevano però l’autonomia di azione.

La GNR era composta da sei reparti diversi che avevano varie legioni al loro interno. Ognuna di queste era focalizzata in un ambito specifico a coprire la rete ferroviaria e quella stradale, le strutture portuali, la rete Post-telegrafonica, così come i territori correlati a montagne e foreste e le frontiere.

Il fatto che la GNR non corrispondesse al dettaglio a ciò che volevano i nazisti fece sì che non fosse vista di buon occhio, tanto da arrivare a rifiutarle in più occasioni, supporti logistici e rifornimenti. Ad una chiara lamentela da parte di Mussolini direttamente al colonnello Jandl, giunsero dei rifornimenti che però si rivelarono inconsistenti in senso numerico ed a livello qualitativo.48

Nel 1944 tale struttura venne conglobata nelle Forze Armate, diventando un ente accostabile ai Carabinieri con un decreto ministeriale, continuando a sostenere i tedeschi dietro la linea di fronte; il Comando diretto passò a Mussolini e Ricci rimase come una sorta di vice49

.

Nell’agosto del 1944 vennero istruite per contrastare i paracadutisti e l’aviazione, le divisioni GNR Etna comandata dal generale Violante e quella chiamata Vesuvio.

Nonostante i tentativi di miglioramento però, i limiti della GNR vennero alla luce con il crollo della Linea Gustav, sia a livello politico che operativo, rovinò quindi l’idea che tale organizzazione fosse il massimo come organismo per la sicurezza.

Sempre durante l’estate del 1944 la GNR venne drasticamente decimata numericamente, giacché vennero sciolti molti presidi territoriali, inoltre, non si era soddisfatti del comportamento dei Carabinieri, che venivano giudicati non affidabili, per la loro fedeltà al re, quindi il 5 agosto i vertici tedeschi, una volta che ebbero capito che gli elementi della MVSN erano in minoranza e che spesso i carabinieri 47 Patrizia Dogliani, Il fascismo degli italiani: Una storia sociale, Utet, Torino, 2014.

48 Ibidem. 49 Ibidem.

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collaboravano (e in alcuni casi si univano) con la guerriglia partigiana, decisero di procedere con una generale azione di disarmo e cattura dei carabinieri stessi.

I numeri sono terrificanti: su un totale di 11.000 carabinieri che prestavano servizio nell'estate del 1944, più della metà subirono l’arresto. Di questi ne rimasero in servizio, pur non essendo più carabinieri, solo 1400 e vennero comunque utilizzati solo per mansioni burocratiche50

.

L’eliminazione dell’Arma gettò la GNR in una profonda crisi; venne quindi creato un nuovo emendamento volto ad una riorganizzazione, dalla quale furono eliminate le funzioni di polizia, facendo divenire quest’ultima la prima Arma combattente dell'Esercito repubblicano, composta da 35.000 uomini, più 11.000 nelle sezioni dei giovani.

La GNR continuò comunque a combattere sebbene non avesse più una capacità di controllo territoriale soddisfacente, con l’avvicinarsi della sconfitta iniziarono ad arrendersi, concludendo le attività nei giorni 26 e 27 aprile 1945, sciogliendosi definitivamente tra il 28 aprile e il 5 maggio dello stesso anno.

Con la fine del conflitto però non terminano gli scontri, furono molti i membri della GNR che vennero giustiziati dai partigiani che non avevano dimenticato le azioni violente e repressive quando non omicide dei suoi membri51

.

3.2 Le Brigate Nere

Un altro gruppo paramilitare della RSI fu quello denominato Brigate Nere che prese vita il 30 giugno del 1944 e che perdurò fino alla fine del conflitto. Venne istituito con il decreto legislativo 446-XXII e chiamato: Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie Nere ed era formato da soggetti volontari iscritti al Partito Fascista Repubblicano.

Le Brigate Nere erano formate da una Brigata per ogni provincia nel territorio controllato dalla RSI, per un totale di 41.

A queste erano state accostate sette Brigate autonome e otto Brigate mobili, delle quali una alpina. Le federazioni provinciali divennero comandi di Brigata, 50 Patrizia Dogliani, op. cit

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controllati da segretari federali, contemporaneamente la segreteria nazionale del PFR veniva gravata delle funzioni di Ufficio di Stato Maggiore del Corpo.

Il comandante generale fu il segretario del partito Alessandro Pavolini52 .

Con l’aumento delle attività della Resistenza erano nate spontaneamente una serie di aggregazioni squadriste atte al sostegno volontario alla RSI; tra i tanti gruppi si possono citare: la Squadra d'azione Garibaldi, il Reggimento Federale

Carroccio nella città di Milano e la Xª Legion a Bologna. Dato che non erano

controllate né dalle questure repubblicane tantomeno dalla GNR, ma sottostavano alle Federazioni del Fascio, si decise di riunirle sotto un'unica denominazione.

Le BN avrebbero dovuto sopperire alle mancanze della GNR nella contrapposizione ai Gruppi d'Azione Patriottica e al CLN, diventando una vera e propria polizia politica che aveva anche il compito di proteggere i funzionari politici accostando la GNR nel controllo dell’ordine pubblico, alla fine del 1944 divenne un organismo militare. L’idea era quella che ogni Federazione avrebbe dovuto essere formata da 1400 uomini, ordinati in una compagnia comando e tre battaglioni operativi formati ognuno da quattro compagnie.53

Tuttavia, la complicazione derivò dall’esiguità degli uomini disponibili; tale problematica fu imputata alla richiesta di volontarietà dei soggetti iscritti al Partito, tanto che furono emesse delle circolari nelle quali si sosteneva che l'iscrizione al Partito Fascista Repubblicano per gli uomini tra i 18 e i 60 anni era soggetta alla domanda di reclutamento nelle Brigate Nere, giacché “non merita l'onore di militare

nel partito chi non si senta di servirlo in armi”54. Veniva quindi evidenziato l’obbligo

morale di arruolarsi55

. In questo modo rimaneva ufficialmente la volontarietà ma di

fatto era una vera e propria coercizione56 .

In ultimo si deve ricordare che gli appartenenti alle BN presero il nome di squadristi per rievocare le squadre d’azione degli anni Venti, ed erano divisi in tre tipologie: i Volontari Permanenti, gli Ausiliari di pronto impiego e gli Ausiliari di 2ª 52 Giuseppe Rocco, L'organizzazione militare della RSI sul finire della Seconda guerra mondiale, Greco e Greco

Editore, Milano, 1998, p. 209 e ss.

53 Lazzaro Ricciotti, Le Brigate Nere, Rizzoli, Milano, 1983. 54 Ibidem.

55 Dianella Gagliani, Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Bollati

Boringhieri, Torino, 1999, p. 373.

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categoria. Solo i primi avevano l’obbligo della divisa e della residenza in caserma o nelle Case del Fascio. Le altre due categorie si mobilitavano solo in situazioni di emergenza, questo venne determinato dalla scarsità di armi disponibili.

I membri delle BN erano forniti di tessere e avevano l’autorizzazione di girare armati e di non rispettare il coprifuoco. I Volontari Permanenti ricevevano uno stipendio di 200 Lire al mese57

.

La problematica della carenza di materiale sia a livello di armi che anche solo per i tessuti delle divise, sarà una costante. I tedeschi non supporteranno mai realmente tale associazione, come accadde con le altre, tanto che ad una specifica richiesta al comandante delle forze tedesche in Italia, Albert Kesselring, questi oppose un netto rifiuto alla fornitura di armi, senza dare giustificazioni. Un appoggio minimo giunse dal generale Karl Wolff, comandante delle SS e della polizia tedesca nell'Italia settentrionale, che dopo una lunga attesa, nel luglio 1944 autorizzò una consegna di 3000, che avrebbe dovuto essere seguita da altre 7000 armi da fuoco, cosa che non avvenne mai.

Ma non mancavano solo le armi, anche le uniformi, le derrate alimentari, le strutture logistiche e il carburante erano carenti. Praticamente i membri delle BN dovettero sempre arrangiarsi nel reperimento del materiale, dato che, anche dal Governo italiano veniva favorita prima la GNR. Mancando le divise la unica regola era quella di camice o maglioni neri e di cordelline poste sulla spalla destra che indicavano le funzioni di comando58

.

Nel mese di gennaio, le BN vennero organizzate a livello gerarchico con gradi permanenti, affini a quelli della GNR. Il servizio prestato dalla BN non fu molto efficiente, proprio a causa di queste limitazioni. Ciò non toglie che furono tra le formazioni più ideologizzate della RSI, i membri perlopiù avevano ripiegato su tale struttura dopo essere rifiutati dalle Forze Armate o dalla GNR, si trattava comunque di elementi ideologicamente radicalizzati e mossi da odio nei confronti di chi aveva tradito il credo fascista, si trattava quindi di soggetti difficilmente controllabili, con poca disciplina ed una estrema violenza negli abusi59

.

57 Giampaolo Pansa, op. cit.

58 Paolo Marzetti, Uniformi e Distintivi dell'Esercito Italiano 1943-1945, Ermanno Albertelli Editore, Parma,

1981.

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Le BN quindi si resero immediatamente invise alla maggioranza del popolo italiano, così come paradossalmente alle autorità. Furono molti i soggetti sottoposti a Commissioni Disciplinari con l’accusa di abusi e violenza. Furono comunque molto attivi e caratterizzati dall’estrema ferocia, nella lotta alla Resistenza, soprattutto in Toscana, Piemonte e alta Lombardia, rendendosi utili agli scopi repressivi della dittatura60

.

In seguito alla Liberazione si trovarono a far fronte alle vendette dei partigiani, tanto che il numero dei soggetti uccisi non è noto, ma le ritorsioni erano giustificate dal terribile comportamento che le BN avevano tenuto.

Possiamo ricordare che verso la fine dell’agosto 1944 vi fu una strage a Vinca61, nel Comune di Fivizzano a Massa Carrara, causando la morte violenta di 144

civili, perlopiù donne, anziani e bambini; il paese venne saccheggiato e dato alle fiamme. Questa strage venne imputata oltre alle squadre tedesche alla 40° Brigata Nera "Vittorio Ricciarelli" di Livorno.

In più altre 30 persone vennero trucidate nei paesi vicini: Gragnola e Tenerano. Nell’agosto 1944 i comandi tedeschi del 75° Corpo d’Armata responsabile della protezione della Linea Gotica occidentale erano messi a dura prova dalla crescente attività del movimento partigiano che disperso sulle alture apuane sabotava ponti, ferrovie e strade rallentava i lavori di fortificazione del tracciato difensivo e tendeva ripetute imboscate alle truppe occupanti.

Il 18 agosto un automezzo tedesco venne attaccato lungo la strada tra Monzone e Vinca: nell’episodio perse la vita un ufficiale nazista. Gli Stati generali della 16° Panzer Grenadier Division “Reichsführer SS” riuniti a Massa decisero di

reagire pianificando un ampio rastrellamento sul massiccio montuoso delle Apuane. L’azione ricevette l’ordine operativo direttamente dal generale Max Simon ed fu curata dal colonnello Looss sin nei minimi dettagli, preceduta da uno scrupoloso lavoro di spionaggio e di esame del territorio grazie anche alle delazioni di “infiltrati” fascisti.

60 Giampaolo Pansa, op. cit.

61 Paolo Pezzino, Crimini di guerra nel settore occidentale della Linea Gotica, in G. Fulvetti, F. Pelini (a cura

di), La politica del massacro. Per un atlante delle stragi naziste in Toscana, l’ancora del Mediterraneo, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2006, p. 121.

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Si discusse del rastrellamento una prima volta la sera del 21 agosto presso il quartier generale di Massa, dove Looss impartì alla ventina di ufficiali presenti spiegazioni sui rispettivi compiti.

Una seconda riunione si tenne la sera del 23 presso il comando del tenente Saalfrank a Carrara, ed fu presieduta da Reder, che ricevette nuovamente da Simon il comando dell’operazione. Dal comando del maggiore Walter Reder responsabile del 16° Battaglione Esplorante dipendevano diverse compagnie appartenenti alla “Reichsführer SS”, quale il reggimento corazzato, unità della Flak e del servizio logistico assieme ad altre unità delle SS e della 20° Divisione da Campo della Luftwaffe, oltre a un centinaio di brigatisti neri carraresi messi a disposizione dal colonnello Giulio Lodovici.

Il raid antipartigiano esordì la notte del 24 agosto per terminare soltanto tre giorni dopo. Ogni paese incontrato sul cammino dei tedeschi e delle Brigate Nere venne raso al suolo le abitazioni date alle fiamme le chiese demolite mentre coloro che non riuscirono a fuggire in tempo nei boschi vicini, anziani malati e infermi uomini e donne colti alla sprovvista dal rastrellamento, furono fucilati senza pietà.

I centri maggiormente investiti dal rastrellamento furono quelli di Gragnola, Monzone Alto, Equi Terme, Corsano, Lorano, Tenerano, Gallogna, Campiglione, Viano, Vezzanello, Cecina, Terma, Posterla, Colla.

Nella frazione di Gragnola, punto nodale della manovra di accerchiamento operata dalle truppe, avvenne la prima strage: nove uomini vennero fucilati nei pressi del paese, a seguito di un breve scontro, senza perdite, tra partigiani e nazifascisti. Il massacro toccò il proprio apice a Vinca: punto di convergenza di più direttrici di attacco il paese fu raggiunto una prima volta nel pomeriggio del 24 agosto dalla 1° Compagnia del 16° Battaglione Esplorante guidata dal tenente Segebrecht. Occupato il centro il giorno successivo lo stesso Reder rinforzato dalla 2°e 3° compagnia e da un

plotone di brigatisti neri si dedicò all’annientamento definitivo di ogni forma di vita esistente nella vallata. I suoi reparti setacciano scrupolosamente la valle di Vinca stanarono i residenti nascosti nelle grotte e nei boschi ed eliminarono con lanciafiamme mitragliatrici e granate decine e decine di persone.

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