• Non ci sono risultati.

Il dibattito gnoseologico

4 Le fonti della conoscenza

Un simile approccio al problema gnoseologico consiste nel superare una concezione limitata al solo pensiero logico e alla facoltà di ragione e restituisce alla dimensione conoscitiva una ricchezza di sfumature e significati andata smarrita nella considerazione intellettualistica. Le indagini che abbiamo riportato finora sono orientate a sondare tutte le sfaccettature che compongono la più ricca fonte dell’attività umana, nella convinzione che la ragione non si limiti al calcolo geometrico e combinatorio, ma si avvalga invece di molte e diversificate fonti.

522

Levi, “Lo psicologismo logico”, C.F., 1, (1909).

523

Cfr., Ambrosi, “Per una monografia italiana sopra Hermann Lotze (parte II)”, C.F., 4, (1909) e A. Levi, “Lo psicologismo logico”, (parte II)”, C.F., 3, (1909).

524

De Sarlo, “I problemi gnoseologici nella Filosofia contemporanea” (parte II), C.F., 5, (1910).

525

Ibid., p. 570.

119 A tal proposito vale la pena annotare un breve ma incisivo intervento di Enzo Bonaventura sulle differenze fra «pensiero psicologico» e «pensiero logico»527, dove — senza mezzi termini — si sostiene che «il pensiero psicologico è molto più ricco e vario del pensiero logico»:

I concetti, i giudizi, i ragionamenti assumono nella psiche di ciascun individuo un colorito personale e si differenziano per sottili e per significative sfumature come le molteplici tinte in cui si spezza un unico raggio luminoso nel passare attraverso prismi di diversa struttura528

L’ampiezza di vedute che porta Bonaventura a valorizzare la ricchezza del «pensiero psicologico» non implica affatto un declassamento del giudizio logico o il ricorso a scappatoie extrarazionali. Il pensiero logico riveste la funzione di intelaiatura del pensiero, una sorta di colonna portante da cui non è possibile prescindere:

Spogliando i molteplici atteggiamenti del pensiero psicologico dei ricchi colori che li rivestono, rimane nuda la loro forma comune, il monotono schema ritmico nascosto sotto le più belle e varie melodie. Pure questa forma comune, questo uniforme schema ha il grandissimo significato di essere ciò che vi è di permanente nel pensiero, ciò che non varia da individuo a individuo, da contenuto a contenuto, di esprimere ciò che nella ragione vi ha di universale. Qui sta l’importanza del pensiero logico: il mondo della logica è veramente il mondo degli universali529

Il pensiero moderno, fin dai sui primi passi, ha affermato un nesso strettissimo tra «foro interiore» ed esperienza gnoseologica, (basta pensare al ragionamento sviluppato da Cartesio nelle sue

Meditazioni). Bonaventura non fa altro che mettere in rilievo il valore di questo intreccio per

rinsaldare la dignità della ragione, in un periodo storico in cui si tende a privilegiare l’esperienza vissuta in funzione mistica.

Sulla stessa lunghezza d’onda interviene De Sarlo, il quale ricorda che l’esperienza interna costituisce uno dei domini speciali a cui è rivolta l’attività conoscitiva. S’illude certamente chi crede di ricavare tutto dall’esperienza vissuta (l’Erlebniss tedesca), ma sbaglia anche chi deriva ogni conoscenza possibile dal puro pensiero e desidera addirittura – come rivela di Croce nei suoi quaderni – diventare tutto pensiero:

anche coloro che credono di poter trarre dal puro pensiero i vari ordini di realtà e di poter prescindere nelle loro speculazioni da qualsiasi riferimento all’esperienza, parlano continuamente di volontà e di desiderio, di passioni e di sentimenti, d’interesse teorico e di interesse pratico, di tendenze e di gusti530

Per De Sarlo è chiaro che l’aver distinto — e addirittura opposto frontalmente — l’esperienza interna a quella esterna, è stato uno dei più grandi malintesi della storia del pensiero filosofico e scientifico perché, una volta avallato tale pregiudizio, si giunge ad assorbire ogni realtà nella psiche, oppure a scavare fra oggetto fisico ed esperienza psichica un solco incolmabile.

Posizioni che risultano opposte soltanto in apparenza dal momento che si basano su argomentazioni parimenti fallaci. De Sarlo, qui come in altri luoghi, torna ad insistere sulla non riducibilità dell’essere e pensiero. Se il mondo presenta un aspetto irriducibilmente plurale, anche l’accesso al mondo da parte dell’esperienza conoscitiva non può essere concepito come unilaterale ed esclusivo esercizio delle facoltà di ragione, per di più se si riduce la ragione all’esercizio della logica.

527

Enzo Bonaventura, “Il giudizio particolare, sua natura e sua funzione nel ragionamento”, C.F., 6, (1914).

528

Ibid., p. 514.

529

Ibid., p. 515

120 Chi ha tentato di ridurre ad una «la relazione in cui l’esperienza psichica si trova coi vari ordini di realtà»531 è incorso in un fallimento, perché il rapporto fra esperienza psichica e realtà consiste «non di una sola relazione, ma di molteplici relazioni»532.

Dato che il mondo non risulta un monolite uniforme, neppure la conoscenza potrà essere concepita in maniera univoca e rigida e presenterà infinite facce, infinite possibilità di accesso lungo un infinito percorso storico di esperienze, errori e successi. L’attività psichica che si verifica nei singoli «centri di coscienza», non coincide con gli enti e non si riferisce a loro nella forma di «duplicati», (come pensava la gnoseologia di matrice cristiana). Fra conoscente e conosciuto esiste tutto uno spazio dove si apre la possibilità di un ventaglio vastissimo di accessi al sapere, e variegate «condizioni atte a provocare l’esplicazione dell’attività psichica»533.

Cosa accade dunque secondo De Sarlo quando conosciamo qualcosa? Innanzi tutto «dirigiamo sempre la nostra attività verso un qualche obbietto»534 che può essere reale o fittizio, particolare od

universale, concreto od astratto, ma costituisce sempre il termine di ogni esperienza psichica.

Conseguenza immediata di questo ragionamento, (oltre naturalmente la dualità di soggetto ed

oggetto di cui abbiamo ampiamente trattato), è che l’esperienza conoscitiva deve essere intesa come

una forma di «attività». La conoscenza pertanto non consiste in categorie e schemi astratti, bensì in un insieme di atti e azioni. Essi sono però «qualcosa che accade nel tempo, qualcosa che sorge e si dilegua in un determinato punto della durata»535, da non confondere con l’«atto puro» dei gentiliani o con l’«azione» dei pragmatisti.

Riflettendo sul fondamento del sapere empirico, De Sarlo si rende conto che una volta smentita «ogni forma di immanenza e di inclusione dell’obbietto nell’atto psichico corrispondente»536

, la filosofia deve anche rinunciare ad indicare vie d’accesso al sapere esclusive ed escludenti. Il mondo degli enti in cui noi siamo immersi e di cui siamo parte organica è capace di entrare «in un rapporto specialissimo, irriducibile e non altrimenti definibile con la coscienza»537, ma tale rapporto non avviene necessariamente su un solo binario:

molti credono che col cancellare ogni differenza tra sensazione e pensiero, tra volere e intelligenza, tra agire e contemplare si possa assurgere ad una concezione più profonda della realtà; ma questa è pura illusione538

Una volta sancito il valore delle distinzioni, è anche necessario ricordare che ridurre l’attività conoscitiva a termini minimi o ad un solo fattore significherebbe sbarrarsi la strada verso una comprensione più piena del significato.

Sta probabilmente qui il senso della dura polemica condotta contro Enriques nell’articolo Il

problema della realtà539. Si tratta di una recensione dove viene aspramente criticata la riduzione della realtà, compiuta dallo scienziato livornese, a «due tipi fondamentali», vale a dire al «tipo scientifico» e al «tipo religioso».

531 Ibid., p. 184. 532 Ibid. 533 Ibid., p. 188. 534 Ibid., p. 189. 535

Ibid., p. 190; all’«atto puro» di Gentile, Gramsci opporrà nei Quaderni l’«atto impuro» in una prospettiva comunque ben diversa da quella sondata da De Sarlo perché legata alla teoria del valore di Marx e al modello politico di Lenin.

536

Ibid., p. 191.

537

Ibid.

538

De Sarlo, “Il soggetto”, C.F., 2, (1914), p. 119.

539

De Sarlo,“Enriques, Il problema della realtà”, C.F., 2, (1912). L’articolo di Enriques era stato pubblicato su Scientia, vol. IX, XVIII-2, pp. 257-274.

121 Una polemica a tratti incomprensibile quella contro Enriques, il quale era rimasto fra i pochi in Italia «a sostenere il lavoro degli scienziati e non degli specialisti»540 e a lavorare ad un concetto di «realtà» incentrata sul «coordinamento dei dati [epistemologici] convenientemente associati»541. Le vedute religiosa e scientifica — argomenta Enriques — si escludono a vicenda, perché i giudizi

artistico, etico, e sentimentale (che costituiscono le fondamenta del «giudizio religioso»), sono

«perturbatori» rispetto al giudizio scientifico.

Da quello che abbiamo avuto modo di vedere, De Sarlo e collaboratori non potevano accettare una simile visione del giudizio, dal momento che lavoravano ad allargare, e non a restringere, la sua portata. Enriques, al contrario, ricade nel pregiudizio positivistico che pretendeva di separare le facoltà conoscitive, stabilendo gerarchie ingiustificabili e archiviando come «secondari» o «marginali» molti aspetti che invece risultano fondamentali nella vita intellettuale e morale degli uomini. Il risultato del lavoro enriquesiano — incalza De Sarlo — è quello di isolare ermeticamente la facoltà di ragione stricto sensu da tutto il resto, e contemporaneamente di inaridirla e corromperla in maniera irrimediabile.

Il passo falso, di matrice positivistica, in cui cade il matematico livornese, è appunto la scissura tra i due «tipi fondamentali» del giudizio (religioso e scientifico); Enriques, una volta posta tale differenza, non può infatti evitare di cadere in contraddizione sul problema cruciale del valore. Se le cose stessero realmente così, se l’«approccio religioso», (nel senso con cui Enriques chiarisce il significato di questo concetto e cioè dell’insieme di giudizi artistici, etici e sentimentali), fosse qualitativamente differente da quello scientifico, se i giudizi etici fossero nettamente distinguibili da quelli analitici e sintetici, ci si troverebbe nell’impossibilità di estendere la copertura del valore a tutta la realtà, perché ciò andrebbe contro l’evidenza della ragione e dei fatti e perché il tipo dei giudizi grazie a cui è possibile esprimere il coefficiente di valore rientra nel campo dei «giudizi religiosi» e non «scientifici». Eppure una volta introdotte simili lacerazioni e ricondotta l’attività conoscitiva umana ad una dimensione rigorosamente e puramente razionale, l’«approccio scientifico» si troverà comunque a dover giustificare l’estromissione del valore dalla considerazione della realtà, dal momento che l’indifferenza per i valori implica anche l’indifferenza per il sapere, (visto che la conoscenza, fin dai tempi di Aristotele e Platone è innegabilmente un valore) e questa impostazione condurrebbe necessariamente alla morte della scienza.

Enriques — conclude De Sarlo — si fa banditore di una concezione della scienza mutuata dai positivisti, con idee del tutto incapaci di reagire alle prime ondate della Krisis. La soluzione del

540

Santucci, Eredi del positivismo, cit., p. 12.

541 Enriques, Scienza e razionalismo, Bologna, Zanichelli, 1990, p. 19; riportiamo la citazione integrale, perché può essere utile a

stabilire un confronto tra la soluzione enriquesiana del problema epistemologico e la prospettiva di De Sarlo: «la realtà significa [è] sempre un rapporto invariante di successione o di concomitanza tra certe sensazioni e certe condizioni volontariamente disposte, in breve un rapporto fra volontà e sensazione. Di guisa che la conoscenza di un reale implica sempre il coordinamento dei dati convenientemente associati. In altre parole la realtà non è un dato puro ma qualcosa di costruito mercé l’attività razionale coordinatrice. Al pari della realtà che appartiene alla vita comune, anche la realtà scientifica è una costruzione razionale che coordina i dati sensibili. Il concetto costruito dalla scienza rappresenta i fatti in modo approssimato; perciò nella sua determinazione entra – è vero – un elemento arbitrario ed una scelta economica; ma l’arbitrio è contenuto nei limiti dell’approssimazione segnata dalle esperienze e per quanto riguarda al progresso della costruzione scientifica dev’essere ritenuto non già convenzione ma ipotesi, cioè disposizione preordinata di esperienze future. Così nel rapporto scientifico fra ipotesi ed esperienza si ritrova in forma più alta il rapporto invariante fra atto volontario e sensazione, che costituisce il significato comune della realtà. La scienza è un processo di approssimazione successive che prolunga indefinitamente le sue radici nelle induzioni inconscie della vita comune e spinge sempre più in alto i suoi rami, toccando ad un sapere ogni ora più vasto, più certo e più preciso. Le conclusioni scettiche a cui ha potuto condurre oggi come nel passato la critica della scienza hanno sempre per base di disconoscimento di questo carattere del sapere scientifico e la vana pretesa di conferirgli un valore assoluto, nettamente distinto dalla conoscenza volgare», Enriques, Scienza e

122 problema della conoscenza, (che poi in definitiva è intrecciato con quello della realtà), deve battere piste diverse da quelle suggerite dal matematico livornese e non può che utilizzare gli stessi strumenti con cui i filosofi affrontano l’«antinomia dell’infinito»: bisogna «considerare cioè la realtà non come un tutto compiuto, ma come un processo indefinito»542, liberandosi dalle tentazioni classificatorie di cui Enriques sente evidentemente ancora la nostalgia.

Soltanto nella riconciliazione fra conoscenza e valore sta la possibilità di ricavare un’idea della conoscenza capace di fare presa sul mondo senza tralasciarne gli aspetti più significativi. Ciò, tradotto in termini pratici, significa che scienza e valore non possono essere considerati approcci contraddittori, perché «ciò che muove l’attività scientifica è in fondo la fiducia di scoprire un valore nel disegno dell’universo, onde essa può dirsi anche in senso più largo un’attività d’ordine religioso»543.

Strana polemica — abbiamo detto — quella su cui insiste De Sarlo e non solo nella contingenza di questa recensione. La storiografia contemporanea ha scagionato definitivamente la figura di Enriques dall’accusa di filopositivismo, mettendo in rilievo come «egli intendeva il reale come un rapporto invariante di successione o concomitanza tra certe associazioni e condizioni volontariamente disposte e lo stesso valeva per la “realtà scientifica” che è una costruzione in cui l’elemento arbitrario del concetto si mantiene nei limiti di una approssimazione segnata dall’esperienza e deve considerarsi un’ipotesi o meglio un progetto aperto ai controlli futuri»544

. La Faracovi, studiosa che forse più di tutti ha lavorato a sottrarre la figura di Enriques al facile cliché del «matematico profano di filosofia», (etichetta adoperata sia da Croce che da De Sarlo), ha fatto notare la particolare “sfortuna storiografica” a cui è andata soggetta la sua opera teorica ed organizzativa:

da una parte, gli studiosi di provenienza neoempiristica hanno visto nella critica svolta da Enriques nei confronti del pragmatismo, del logicismo, del neopositivismo, il segno di una fondamentale appartenenza all’orizzonte metafisicizzante e romantico di un positivismo deteriore. Il profilo del nostro autore è stato allora descritto come quello di un epistemologo arroccato su posizioni arretrate, se non proprio segnato dal marchio dell’incompetenza e della genericità. […] Dall’altra parte, l’individuazione dell’asse umanistico-letterario come via regia, asse portante, luogo di formazione e di definizione di una intera identità culturale; la considerazione del neoidealismo, come momento privilegiato della vicenda filosofica del Novecento italiano, in rapporto di continuità e di sviluppo con gli elementi migliori della tradizione; l’idea, infine, che un metodo di indagine per le scienze umane e sociali costituisca il portato più valido del pensiero positivo, porta all’assorbimento di tutto il resto, e in particolare delle elaborazioni filosofiche nate sul terreno delle scienze matematiche e naturali, all’interno delle tendenze dogmatiche proprie del tardo positivismo545

Le obiezioni di De Sarlo ad Enriques anticipano sotto molti aspetti quelle mosse dai neo-empiristi, con lo specifico però della centralità del valore a cui il matematico livornese non attribuirebbe la dovuta importanza. Il valore non può essere scambiato come una tendenza sentimentale soggettiva per il semplice fatto che ciò che spinge il ricercatore, non meno che l’uomo comune, a cercare «invarianti nei processi della realtà»546, non è il «sentimento», ma la ragione stessa, la quale esige dalla natura «coerenza ed unità». È proprio la fede in questa coerenza la base d’ogni induzione scientifica e il motivo profondo che ci spinge al difficile impegno epistemologico. Senza la fiducia

542

De Sarlo, “Enriques, Il problema della realtà”, C.F., 2, (1912), p. 218.

543

Ibid.

544

Santucci, Eredi del positivismo, cit., p. 12.

545

Faracovi, Il Caso Enriques, cit., p. 10.

123 in «un valore più vasto, d’un armonia più larga nella realtà inesplorata»547 è impossibile parlare di

conoscenza, di morale, di vero, di falso, ecc..

Il senso dell’opposizione desarliana ad Enriques, (a prescindere dalla sua opportunità nell’ordine della strategia culturale), sta proprio nella necessità di mettere in risalto la pluralità dei sentieri che ci conducono alla conoscenza del mondo, conciliando razionalità e «intuizione spiritualistica della realtà»548 che sono entrambi motori della ricerca e dell’impegno del ricercatore. Mentre Enriques divide ed oppone religione (intesa come dimensione dei valori) e scienza (intesa come dimensione dei fatti accertabili), De Sarlo sostiene che, seguendo coerentemente la razionalità dell’ordine universale, si arrivi alla «Coscienza Assoluta» (Dio), unica entità capace di rendere intellegibile e sensata la razionalità della realtà:

Col rischio di vedere arricciato il naso a qualche scienziato che si ostina ancora nel keine Metaphysik mehr, noi non esitiamo ad affermare che chi non crede in Dio, non può e non deve credere nel valore obbiettivo ed universale della sua scienza549

Ma non bisogna dimenticare che quando De Sarlo parla di Dio ha in mente una concezione personalistica di esso. Basta sfogliare le pagine di Metafisica, scienza e moralità per rendersi conto che per lui Dio è da concepire come persona, soggetto concreto che si esprime continuamente ed eternamente nel mondo, mai come entità scissa dalle cose, o come sublimazione delle singole coscienze.

Del resto il filosofo di Potenza non vuole neppure confondere i piani, o appiattire il discorso della

ratio alle esigenze della fides; per lui — scrive Ponzano — l’essenza della fede consiste nell’essere

«costruzione fantastica», «immaginazione», «forma di condotta […] in necessario rapporto con certe credenze e certi dogmi»550. La religiosità è insomma una «necessità a carattere spontaneo, istintivo», una «forma di vita», cioè «forma di condotta e atteggiamento di tutta la personalità», e quindi è ben lungi dal determinare la coscienza teoretica e dall’essere base di «costruzione e sistema di concetti, opera di riflessione»551. Una volta messo bene in chiaro questo aspetto, non è però più possibile riproporre l’opposizione fra ragione e valori stabilita da Enriques, dato che una tale scissura non può sussistere se non tra una scienza unilaterale ed inconsapevole dei suoi confini e dei suoi presupposti ed una forma contingente di religione mistica e dommatica. La concezione spiritualistica552 e teologica del reale, di cui De Sarlo si fa portatore, non esclude affatto, ma anzi implica, una spiegazione scientifica, cioè razionale, della natura:

essa non combatte la scienza, ma solo coloro che pretendono che questa possa bastare a darci una visione totale, mentre essa per l’indole dei suoi procedimenti ci dà solo un aspetto unilaterale, incompleto ed astratto della realtà, lasciando fuori di sé la vita del soggetto nella sua concretezza individuale, l’esperienza morale ed estetica, che sono fatti non meno reali della caduta d’un grave553

Il pericolo concreto che si corre nello stabilire scissure troppo nette fra conoscenza e valore, è quello di favorire la tendenza a cercare scorciatoie fideistiche e religiose e accessi immediati e facilitati al soprasensibile. Mentre noi

547 Ibid. 548 Ibid. 549 Ibid., p. 219. 550

Ponzano, L’opera filosofica di F. De Sarlo, cit., p. 230.

551

Ibid., p. 224.

552

Sul terzo numero della rivista del maggio-giugno 1913 viene pubblicato un lungo articolo di Aliotta significativamente intitolato “Linee d’una concezione spiritualistica del mondo”. Cfr., Aliotta, “Linee d’una concezione spiritualistica del mondo”, C.F., 3, (1913), pp. 189-213. L’articolo verrà ripreso sul numero successivo di Luglio-Ottobre (4-5), pp. 360-375.

124

sappiamo che per De Sarlo non c’è nessun apprendimento diretto del soprasensibile, nessuna idea o impronta innata originaria dell’oggetto religioso (come invece sosteneva Rosmini)554

Tornando alla critica della separazione enriquesiana fra valore e conoscenza, può certo sembrare che De Sarlo sia poco lungimirante e talvolta ingiusto, ma dobbiamo andare al nocciolo della questione e capire il senso dei suoi duri ma significativi incisi. La polemica non è mai condotta nel segno di una mentalità confessionale, piuttosto si incentra sulla necessità di ampliare la concezione della ragione. Una conferma a questa tesi è certamente l’importanza che De Sarlo attribuisce alla

fantasia. Lo schierarsi a difesa del valore della fantasia, del sentimento, della sensazione e in

generale affermare la «pluralità» dell’approccio gnoseologico, non implica affatto la rimozione o la degradazione della ragione in ciò che di rigoroso questa possiede, vale a dire nella sua indiscutibile presa sulla realtà:

Una certa reazione all’intellettualismo arido e non sempre consapevole di matrice ottocentesca è positiva ma il pericolo di una deriva irrazionale e decadente va denunciato e combattuto con forza: una delle note caratteristiche del pensiero contemporaneo è senza dubbio la reazione all’intellettualismo: è una rivincita del sentimento e della fantasia sulla ragione fredda e calcolatrice, che s’illuse lungamente di poter schematizzare in poche formule astratte l’inesauribile ricchezza della vita universale. E tale reazione sarebbe certo legittima e salutare se si limitasse ad affermare il valore