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Per una concezione integrale della ragione e un nuovo orientamento epistemologico

3 Il recupero del vitalismo

Non sembrano esserci dubbi sul fatto che il primo tassello di un programma culturale complessivo è quello di favorire una nuova sensibilità epistemologica. Riattivare il dialogo tra saperi significa muovere i primi importanti passi verso la revisione profonda dei loro stessi fondamenti.

Ad un anno di distanza dalla fondazione, De Sarlo riassume il senso dell’iniziativa intrapresa e ricorda le direttrici da seguire nella battaglia contro ogni genere di «dilettantismo»:

ognuno che ci abbia seguito fin qui si sarà reso un conto esatto della posizione che noi abbiamo voluto assumere e difendere. Essa è posizione di combattimento contro il dilettantismo positivistico da una parte, contro il dilettantismo idealistico dall’altra. Ambedue noi crediamo dannosi alla seria speculazione e contrari al progresso della filosofia intesa come scienza, quale noi crediamo che soltanto abbia il diritto di esistere179

Del resto smontare i cardini meno convincenti del positivismo non aveva mostrato particolari difficoltà. Era stata da subito ampiamente combattuta la tendenza a liquidare la filosofia e a scioglierla nelle scienze positive. Era stata pure avversata la posizione, magari più romantica, ma non meno angusta nei risultati, di chi «pur non volendo abbandonare le premesse naturalistiche, sente la nostalgia di certi problemi che prima credeva di aver liquidati e davanti ai quali ora si trova, o lo confessi o no, disorientato del tutto»180. De Sarlo è infatti consapevole — come lo era del resto anche Gentile — che il tardo positivismo fosse intriso di una sorta di «romanticismo», cioè che anche fra i positivisti fosse ormai emersa l’esigenza di recuperare la dignità e la validità della ricerca filosofica e della pura speculazione e di trascendere gli ormai angusti varchi del meccanicismo ortodosso. Del resto noi ormai possiamo usufruire di una vasta letteratura storiografica che fa luce sul carattere non unitario dello stesso positivismo e che ne mette in rilievo le diverse sensibilità. I positivisti non erano tutti ciechi assertori delle «magnifiche sorti e

178

Ibid.

179

De Sarlo, “Dopo un anno di vita”, C.F., 12, (1907), p. 317.

45 progressive» e — soprattutto nel campo della ricerca e della metodologia storica — erano molti gli esponenti, (addirittura dei pionieri del positivismo italiano), a non essere d’accordo con il riduzionismo naturalista181. Sotto questo aspetto è interessante notare come il filosofo di Potenza condividesse almeno un aspetto del programma di riscrittura della storia della filosofia propugnato da Gentile, ovvero l’urgenza di andare oltre l’esperienza storica del positivismo a partire dalle sue evidenti contraddizioni interne, prendendo le mosse proprio dall’aspirazione metafisica e spiritualistica degli ultimi suoi rappresentanti e dalle più acute osservazioni di alcuni dei suoi padri fondamentali. Certamente a De Sarlo non interessa la ricerca di una teoria ripulita da ogni elemento estraneo all’esercizio del puro pensiero (di «una filosofia che sia una filosofia»182

, secondo le parole di Gentile). La severa critica mossa alle ingenuità del positivismo appare solo prima facie analoga alle coeve demolizioni storiografiche pubblicate a puntate sulla Critica dall’idealista palermitano. Ma il direttore della Cultura Filosofica esplicita più volte che le esagerazioni dei positivisti sono in fondo da attribuirsi ad una fase ingenua della scienza, superabile mediante l’affermazione di una «dottrina e critica della scienza umana»183. Per questo motivo De Sarlo di fronte alla vecchia maniera di impostare il problema scientifico e alle nuove correnti che credono di risolverlo inibendo od ignorando ogni interesse specialistico, percepisce come prioritario elaborare una concezione epistemologica adatta ai tempi. Non basta cioè ricordare a parole l’importanza della circolarità fra

filosofia e scienza, facendone magari una bandiera polemica. E non basta neppure asserire che il

punto di vista delle scienze è sempre il «punto di partenza» di un’elaborazione ulteriore, che è compito della filosofia sviluppare sul piano teoretico tenendo sempre ben presente però che anche la filosofia «come ogni altra scienza (…) ha dei problemi ben determinati da risolvere, delle questioni ben definite da trattare e da discutere»184. Dopo che si è fatto tutto questo diventa anche necessario lavorare concretamente in quella direzione, facendo valere nei fatti e nelle ricerche particolari un nuovo modo di intendere il mondo e l’uomo. Così aveva fatto, solo per fare un esempio, Giovanni Vailati, il quale aveva ricordato come il compito della filosofia non fosse tanto «fare delle scoperte», quanto piuttosto preparare il terreno ad esse, creare un clima adatto rigorizzando i metodi del pensiero e circoscrivendo il significato delle parole, individuando i non sensi, le tautologie scambiate per argomenti e sbaragliando i sofismi.

Tornando agli autori che ruotano intorno alla nostra rivista, il notevole interesse dimostrato verso la rinascita del vitalismo, si inserisce appunto nell’ottica del superamento dell’epistemologia scientista, non tanto sul piano metodologico-linguistico (come nel caso di Vailati), quanto su quello di una nuova sensibilità ai problemi della scienza, della filosofia e del loro nesso:

181

A questo proposito rimando a due studi che mettono in luce la complessità della riflessione positivista, soprattuto in campo storiografico e in merito alla riflessione psicologica: ne Il concetto filosofico della storiografia Francesca Rizzo Celona mette in luce come il positivismo italiano di Villari e Tommasi, (con le rispettive opere La filosofia positiva e Il metodo storico e il Naturalismo

moderno), si allontani molto dal positivismo inteso in senso stretto: «se per positivismo si intende genericamente la dottrina fondata

sull’estensione del procedimento delle scienze fisiche a tutte le discipline», Francesca Rizzo Celona, Il concetto filosofico della

storiografia, cit., p. 35.

Alessandro Savorelli invece, in un recente intervento sul Giornale Critico della Filosofia, ricorda come «solo a posteriori la rilettura neoidealistica potè forzare la posizione di Tommasi, come una sorta di palinodia. Tommasi in realtà aveva posto con chiarezza (e con un linguaggio “inaccessibile” – sottolinea Colapietra – a molti dei suoi interlocutori positivisti) il tema della comprensione dei prodotti psichici superiori e della necessaria cautela critica contro le semplificazioni in un terreno carente di impostazioni metodologiche, di griglie concettuali e dati sperimentali convincenti», Savorelli, “Per la biografia di Salvatore Tommasi”, G.C.F., Fasc. III, Settembre-Dicembre 2005, p. 504.

182

Gentile, Introduzione a La filosofia di Marx: studi storici, Pisa, Enrico Spoerri Edit., Tip. Orsolini-Prosperi, 1899, Pisa

183

De Sarlo, “Uno Sguardo alla Filosofia del Secolo XIX”, in Il pensiero moderno, Palermo, Sandron, 1915, pp. 39-66.

46

il rifiorire delle dottrine vitalistiche è senza dubbio uno dei sintomi più significativi della decadenza di tutte quelle teorie, che cercavano di far rientrare i fenomeni della vita nella sfera del meccanicismo universale185

Sarà Aliotta —figura di maggiore rilievo della rivista accanto a De Sarlo — a sollevare il problema. Molte cose andranno ridiscusse da cima a fondo, a partire dal concetto di «evoluzione» che aveva permeato di sé un’epoca carica di aspettative. Una categoria quella di “evoluzione” ormai incapace di spiegare altri concetti fondamentali come variazione, generazione, individualità, eredità su cui poggiava tutta la scienza naturalistica. La storia della sconfitta del vitalismo classico coincide infatti con la storia dell’«età dell’oro» del darwinismo e dell’idea di una selezione naturale ferrea fra le specie. Si diffondeva allora fra scienziati e filosofi la convinzione di aver bandito per sempre dall’indagine epistemologica il concetto di «fine», in primo luogo dalle scienze biologiche. Era il tempo in cui con «poche e magiche parole: variazione causale, lotta per la vita, scelta sessuale e simili si credeva di aver tutto spiegato»186 e non ci si rendeva conto invece che, senza una più chiara consapevolezza filosofica, quei concetti sottendevano la medesima idea di «fine» che si credeva accantonata. Eppure il concetto di «evoluzione» era, nei progetti dello stesso Darwin, totalmente privo di qualsiasi valore filosofico e pure incapace di dare una soluzione esaustiva a molti problemi biologici. Torna qui la polemica contro la «filosofia ingenua» di troppi fra scienziati e positivisti che non avevano tenuto abbastanza in considerazione la necessità di soffermarsi sugli aspetti metodologici della scienza e si erano affidati fideisticamente all’ideologia meccanicistica incapace di aspirare ad essere una soddisfacente visione del mondo187. Il concetto di «evoluzione» — come del resto quello di «legge» — va ripreso integralmente e vagliato con attenzione per smascherare nuovi pericolosi equivoci, anche alla luce della ripresa delle teorie vitalistiche.

A supportare le tesi di Aliotta interviene anche De Sarlo, il quale sottolinea con chiarezza che i «movimenti atomici e molecolari di varia velocità ed estensione»188 possono servire a spiegare i fatti fisici, ma che la realtà, nel suo complesso, dimostra di essere assai più ricca.

Il leit motiv del positivismo — e quello italiano rappresentato nel suo apogeo dalla Rivista di

filosofia scientifica di Morselli, Marchesini e Sergi non fa eccezione — era stato rappresentato

dall’esigenza di partire dai «fatti». Ma i fatti — fa notare il gruppo di De Sarlo — sono di tanti tipi e fra essi vanno annoverati anche quelli psichici e immateriali. I movimentatori della nostra rivista sottolineano che i fatti psichici e le variazioni conoscitive, affettive, appetitive, per esempio, non sono direttamente riducibili ai «movimenti atomici e molecolari»189 e che accanirsi ad utilizzare chiavi di lettura meccanicistiche non fa che prolungare inutili e sterili equivoci. Quindi larghe porzioni della realtà non possono essere spiegate tramite le classiche teorie del meccanicismo e del

materialismo e ancora meno facendo riferimento alla visione necessarista predicata da Moleschott e

Büchner.

Esiste tutta una serie di fatti caratterizzanti la realtà — come del resto avevano testimoniato gli innumerevoli studi di psicologia sperimentale dell’epoca — che «contengono elementi rappresentativi di stati precedenti o preannunziati cangiamenti futuri, (concetti degli scopi da

185

Aliotta, “Il neo-vitalismo”, Recensione di Der Vitalismus als Gheschichte und als Lehre, di Hans Driesch, C.F., 2, (1907), p. 34.

186

Ibid.

187

Una delle tante contraddizioni irrisolvibili per mezzo di una concezione meccanicistica è sicuramente il problema del “caso”. Esso infatti viene concepito come una sorta di deus ex machina e posto alla base della ferrea necessità delle leggi meccaniche governante il mondo. Su questo punto Aliotta si ferma a lungo nel suo articolo.

188

De Sarlo, “Di alcuni caratteri dello spiritualismo odierno”, C.F., 2 (1908), p. 75.

47 raggiungere, piani da eseguire), e per di più si accompagnano con processi o forme di attività, che si distinguono sempre dagli stessi stati, come sono l’interesse selettivo, la coscienza dei rapporti in genere e così via»190.

Il meccaniscismo non sempre è in grado di giustificare l’esistenza di alcuni fondamentali ed accertati aspetti della realtà di cui troppo spesso i suoi teorici negano il valore e perfino l’esistenza. Il problema non sorge tanto per il fatto che esistano studi di meccanica o che alcuni ricercatori avanzino teorie meccanicistiche, bensì quando il meccanicismo, da teoria fra le altre, viene estesa arbitrariamente ad univoca spiegazione, valida per ogni forma di esperienza. Eppure — nota De Sarlo — non bisogna essere grandi scienziati o filosofi per comprendere come le teorie meccanicistiche, da sole ed elevate a verità inconfutabili, ci fanno perdere il senso di fondamentali fatti della vita e annichiliscono il valore e la dignità dell’uomo. Solo per fare un esempio, una semplice asserzione come «prendere una decisione», sarebbe del tutto priva di senso se si facesse riferimento solamente alle teorie meccanicistiche. Dal punto di vista strettamente fisico e meccanico infatti l’unico aspetto comprensibile è quello della trasmissione, della comunicazione del movimento e della conservazione dell’energia. Il meccanicismo non ha alcuna possibilità di spiegare con mezzi propri cosa sia e come agisca la «volontà», senza la quale non è possibile prendere decisioni.

Anche i sondaggi di psicologia condotti da Giovanni Calò191 confermano che esiste tutta una sfera di fatti e di esperienze incomprensibili e inverificabili con la sola concezione meccanicistica, i quali giustificano il recupero di teorie alternative o complementari ad essa. Gli psicologi tedeschi mettono in risalto la capacità degli esseri umani di provare «empatia», (in tedesco «Einfühlung»), verso i sentimenti altrui. L’essere umano ha la capacità di immedesimarsi nell’altro, e non solo negli altri esseri umani, ma anche negli animali e persino negli oggetti inanimati, come accade quando si contempla un paesaggio suggestivo. Le coscienze altrui e persino alcuni insiemi armonici di oggetti come appunto i paesaggi e le opere d’arte, hanno la facoltà di farsi interne a noi, diventando contenuto della nostra coscienza. Soltanto così sono spiegabili la comunicazione fra gli individui, la natura sociale dell’uomo e la capacità di apprezzare la bellezza di un paesaggio, di una melodia o di un’opera d’arte. Le teorie psicologiche che fanno perno sulla scoperta dell’«Einfühlung» per estensione dimostrano tutta la limitatezza delle teorie meccanicistiche.

Calò, recuperando l’«Einfühlung» dagli scritti estetici di Herder arriva a conclusioni simili a quelle a cui, nello stesso periodo, perviene Aliotta cimentandosi con la rinascita del movimento neo- vitalistico. Anche le teorie estetiche del romanticismo tedesco concepiscono, esattamente come il neo-vitalismo in campo biologico, il mondo come un tutto animato e ridimensionano parecchio le ambizioni del meccanicismo. Il punto di accordo di teorie così diverse è la capacità di compatire («einfühlen»), penetrando così nell’intima realtà delle cose umane e mondane.

Tornando alle citate indagini aliottiane sul movimento neovitalistico, è interessante notare come la sua attività di testimone dei dibattiti scientifici — dal carattere anche molto specialistico — si renda funzionale ad una visione del mondo improntata sulla rinascita della filosofia dei valori e sul recupero del finalismo. Vengono passati in rassegna e restituiti all’attenzione della comunità scientifica e filosofica italiana autori che, in piena vulgata meccanicistica, avevano dimostrato la capacità di sondare altri terreni e condurre ricerche ad essa alternative. Fin dalla fine dell’Ottocento

190

Ibid., p. 76.

48 ci sono stati autori che avevano avuto la temerarietà di problematizzare tesi che sembravano consolidate ed acquisite in via definitiva. Ma è all’alba del secolo nuovo che si registra un’ampia ripresa del vitalismo. La ripresa delle teorie vitalistiche del resto è implicita anche nelle posizioni più esplicitamente meccanicistiche. Affermare l’esistenza di «leggi» nel mondo fisico, significa partire dalla «credenza istintiva nella razionalità della natura». Eppure una tale credenza — nota Aliotta — che cos’è se non la «proiezione d’un carattere dello spirito umano nel resto dell’universo?»192

. Non sorprenderà allora che molti fra i più celebri sostenitori del vitalismo, non sono altro che meccanicisti i quali, sviluppando dall’interno del loro sistema la ricerca senza pregiudizi e dogmi, si sono resi conto della necessità di trovare spiegazioni diverse ai «fenomeni organici», arrivando in molti casi ad ammettere l’esistenza e l’azione di un «principio interno regolatore dello sviluppo»193 della realtà.

Edmondo Montgomery sarà il primo ad ammettere l’esistenza di una «sostanza vivente» irriducibile ai semplici aggregati chimici e biologici. Il principio di cui parla Montgomery ha la sua specificità nel «potere di controllo» e di sintesi sull’intera organizzazione biologica dell’individualità organica. Secondo questa veduta l’organismo è una «sintesi organica» e non un aggregato di parti composte a mosaico. All’interno degli individui agisce un «principio vitale»; tale «sostanza vivente» o «attività vitale», ignorata od occultata dal meccanicismo, rappresenta l’elemento che fa la differenza tra ciò che è organico e ciò che non lo è. Ma in cosa consiste precisamente questa «attività vitale»? Si tratta di una «sostanza chimica» distinta dalle altre solo per capacità regolative del proprio sviluppo o di qualcosa di diverso? Montgomery — prosegue Aliotta — non si spinge ancora oltre il chimismo e — quasi spaventato dai risultati delle sue stesse ricerche — riconduce il «principio vitale» a semplice «composto chimico» la cui unica differenza rispetto agli altri è quella di essere «diversamente orientato».

Altri autori raccolgono però il suo testimone e si spingono ben oltre la sua prudenza riabilitando a pieno titolo una considerazione teleologica della realtà. Era ovvio che «il risorgente vitalismo ristabilisse anche l’idea di fine, che il darwinismo di moda aveva relegato tra i ferri vecchi della Scolastica»194 e che — pur continuando a seguire le direttrici di un metodo critico e positivo fondato su una precisa base sperimentale — si cominciasse ad accettare l’idea dell’«autonomia della vita» e si stabilisse una volta per tutte l’insufficienza di una spiegazione unicamente basata sul movimento e sulla forza meccanica.

Date simili premesse, era prevedibile la lunga polemica fra i sostenitori del darwinismo, (o per lo meno dei suoi epigoni meccanicisti), e i nuovi vitalisti. Dopo Montgomery — continua Aliotta — sono diversi i nomi di autorevoli studiosi, fra cui Hans Driesch e Guglielmo Roux, che sostengono oramai con chiarezza che i processi vitali sono «qualche cosa che non si può ridurre ai fenomeni fisici»195 e che «bisogna esser ciechi per non vedere ciò che vi è di caratteristico nei fenomeni della vita e che rende addirittura assurda una tale riduzione»196. Secondo questa nuova veduta l’organismo non è più concepibile come una macchina, perché le macchine non posseggono quella «attività finale» che invece si riscontra comunemente negli esseri viventi.

192

Aliotta, “L’accusa di antropomorfismo”, C.F., 11, (1907), p. 297.

193

Ibid.

194

Aliotta, “Il neo-vitalismo”, recensione di Der Vitalismus als Gheschichte und als Lehre, di Hans Driesch, C.F., 2, (1907), p. 36.

195

Ibid.

49 Si confrontano due maniere di concepire l’insorgenza vitale: da una parte la «finalità statica delle macchine», dall’altra «la finalità propria degli organismi, che il Driesch chiama dinamica»197

. Nei fenomeni vitali agisce un principio finale che «non è riducibile al giuoco delle energie fisiche e chimiche ma presuppone una attività sui generis». Questa «attività finale» — a cui Driesch attribuisce il nome greco di «entelechia»198— non è riducibile a nessuna sostanza materiale specifica, né ha il carattere quantitativo delle altre forze naturali, ma dimostra di essere tuttavia uno dei fattori determinanti dell'intero cosmo. L’«entelechia» — traducibile dal greco come “anima” — non viola le leggi fisiche della «conservazione» e della «degradazione» della energia e quindi non va ad opporsi alle conquiste positive della scienza ottocentesca. Il «principio vitale» piuttosto colma una lacuna su cui la scienza, fino a quel momento, era rimasta scoperta. Esso è la direttrice del processo di formazione della realtà, ciò che porta a «conseguimento dei fini della vita»199. Sulla via tracciata da Driesch, Aliotta ammette dunque l’esistenza di una «finalità che supera e trascende il più perfetto dei meccanismi, come il mondo dello spirito supera e trascende il mondo della necessità naturale»200. Affermare l’esistenza dell’«entelecheia» non significa affatto cancellare con un colpo di spugna i risultati delle ricerche scientifiche sul funzionamento, solo per fare un esempio della psiche, ma ammettere l’esistenza di una sua energia regolatrice. Si tratta del principio vitale che si manifesta nella vita psichica e che raggiunge nella personalità umana il suo massimo grado. Riflessioni e posizioni queste che prendono le mosse dal fallimento storico dell’interpretazione fisiologica della vita psichica di stampo ottocentesco, la quale aveva scambiato l’indiscutibile rapporto di concomitanza fra materia e psiche, come la dimostrazione della necessità di ridurre le differenze qualitative dei fatti psichici a differenze fisiologiche localizzate in alcune specifiche zone del cervello.

La discussione sulla «sostanza vivente» o «attività vitale», non è però l’unico terreno sul quale il movimento neovitalistico ha qualcosa da dire e non è l’unico contributo apportato al delinearsi di una nuova sensibilità epistemologica. A questo proposito Aliotta ritiene utile riportare lo scontro tra neo-darwinisti e neo-vitalisti201 sulla questione dell’«adattamento diretto» e in generale sul valore da attribuire alle ricerche di Darwin sull’evoluzione delle specie viventi. Aliotta riporta le principali vicende della lotta fra neo-lamarkiani e neo-darwinisti sulla questione dell’«eredità dei caratteri acquisiti» osservando, non senza una certa malizia, che i «neo-darwinisti, sconfitti sul terreno dell’eredità dei caratteri acquisiti, non hanno perciò ceduto le armi, ma fiduciosi nella rivincita, si sono trincerati nella teoria della selezione naturale»202. Vista l’indifendibilità di certe loro posizioni sul campo degli esseri viventi, gli epigoni dell’evoluzionismo dogmatico, si sarebbero dunque rifugiati nel campo della «botanica», dato che «le piante sono più docili alle esigenze del cieco meccanismo e sopra tutto son prive d’ogni vita psichica e perciò anche della coscienza dei bisogni,