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Il dibattito gnoseologico

5 Per una concezione pluralistica del mondo

Uno dei punti fermi che si possono ricavare dalla lettura della rivista è certamente la convinzione che nessuna concezione scientifica o filosofica è in grado di dimostrare rigorosamente che il mondo possa essere ridotto ad un solo principio.

Sbagliano i materialisti576, perché non riescono a rendere conto del significato e della pluralità dei

valori e non sono capaci di scorgere nient’altro al di là degli insiemi di leve in cui vogliono

risolvere tutte le cose; sbagliano gli idealisti, perché non si accorgono che riconducendo l’eterogeneità del reale all’Idea, non si fa altro che svilire proprio il ruolo dell’ideale, depotenziandone l’efficienza ed eliminando una ad una tutte le distinzioni e trasformando l’operosità pratica, di cui l’ideale è imbevuto, in una vacua astrazione; sbagliano gli irrazionalisti, i

575

Ibid., p. 147.

576

Ovviamente quando utilizziamo l’aggettivo «materialista», intendiamo quelle componenti del materialismo totalmente sorde alle esigenze di approfondire i numerosi aspetti non riassorbibili alla pura e semplice materia. A conclusione del suo lavoro sul

Materialismo Inquieto, De Liguori insiste sul carattere eterogeneo e complesso dell’indirizzo materialistico che ci sembra corretto

riportare per esteso: «a seguire perciò le vicende dello scientismo materialistico in Italia, non ci si ingaglioffa in combriccole o in cori vocianti di ripetitori pedissequi del gran verbo moleschottiano; si incontrano pensatori e studiosi severi di diversissima formazione, aperti al confronto con le scienze europee nei loro più avanzati sviluppi, che non si possono spedire con facilità all’inferno dell’anticlericalismo di maniera né chiudere nella sacrestia delle conversioni e delle pacifiche ortodossie. Credenti e non credenti, spiriti liberi e pacati o coscienze torbide e angosciate, vissero, ciascuno entro i limiti delle proprie possibilità speculative, la complicata questione della crisi della cultura positiva e, contemporaneamente, la gestazione delle scienze umane», De Liguori,

129 fenomenisti e i contingentisti perché, criticando l’unilateralismo delle filosofie materialistiche, mettono capo ad unilaterlismi altrettanto imbarazzanti.

Nel paragrafo precedente abbiamo analizzato l’approccio del gruppo di studiosi che ruotano intorno a De Sarlo sulla pluralità e sulla ricchezza dell’attitudine gnoseologica. Ma queste notizie sarebbero mutile se non sottolineassimo anche la concezione pluralistica della realtà che viene teorizzata sulle pagine della rivista fiorentina. In altri termini, ad una concezione plurale della conoscenza fa sponda una concezione plurale della realtà.

Eppure, anche se si tratta di un tema a cui viene assegnata la massima importanza, la concezione pluralistica del mondo propugnata sulle pagine della rivista, non sembra possedere i contorni di una dottrina definita né organizzata in una concezione del mondo ordinata. Inizialmente si tende a difendere il dualismo gnoseologico di fronte alle tentazioni monistiche e su questa base si propone una riforma della cultura che faccia perno sull’interdisciplinarietà (si veda al riguardo il dibattito suscitato dagli articoli di Bonatelli). In un secondo momento si tenta di superare lo stesso dualismo che, preso in sé, rischia di non offrire spazi sufficienti alla comprensione del reale per abbracciare una concezione aperta e plurale della realtà, ostile ad ogni semplificazione rigidamente concepita. Ma la veduta pluralistica rimane una sensibilità, una traiettoria culturale che stimola ricerche particolari, ma che non si ha la volontà (o la forza) di condensare in una filosofia compiuta.

Se il mondo ha un carattere irriducibilmente plurale, allora un gruppo plurale (a aperto) di discipline dialoganti fra loro sarà in grado di comprenderne gli ordinamenti in maniera molto più completa rispetto alle isolate fatiche di un’unica scienza.

Anche se non viene codificata in maniera rigorosa e sotto forma di una filosofia sistematica, la pluralità del mondo è un punto strategico del lavoro condotto sulle pagine della rivista. Una volta eliminato il pregiudizio secondo cui è necessario ridurre tutto ad un principio unico non c’è più alcun bisogno di pretendere che le discipline scientifiche rispecchino con precisione apodittica la realtà oggettiva delle cose, perché le stesse scienze vengono inquadrate storicamente nel loro svolgimento e considerate come modi, plurali e variegati, attraverso cui l’uomo elabora ed interpreta i diversi aspetti del mondo nella prospettiva di raggiungere un grado sempre maggiore di coerenza e ragionevolezza.

Difendere il dualismo e poi sviluppare l’idea della concezione pluralistica del mondo, appellarsi alla pluralità delle scienze e legittimare una idea aperta e flessibile del sapere umano, non significa affatto abbandonare la pretesa e il bisogno di cercare (e trovare) punti fermi nell’indagine scientifica, nell’analisi pedagogica e morale, nella lotta politica, in metafisica e nelle ricerche psicologiche. La credenza nella matrice plurale della realtà, forse, non stimola l’elaborazione di filosofie sistematiche o di inossidabili certezze metafisiche, ma supporta la fatica e l’abnegazione di chi spende il suo tempo nel lavoro artigianale ed umile dell’indagine particolare.

È falsa e va combattuta l’idea che esista un’unica fonte da cui la realtà deriverebbe per necessità, ma è allo stesso modo falsa la veduta di un mondo irrimediabilmente andato in frantumi, ormai privo di punti fermi al di fuori della creatività spirituale del soggetto-mago.

Il concetto di «pluralismo» fa la sua comparsa già dopo un anno di pubblicazioni. De Sarlo utilizza questo concetto in una riflessione sul rapporto fra psicologia sperimentale e fisica. Egli mette in guardia chi si illude di «tradurre» in termini fisici le leggi psichiche e viceversa, dal momento che

130 risulta impossibile considerare come omogenea la struttura di tutta la realtà577. La soluzione non può che essere quella di rinunciare ad un principio primigenio e dominante, perché la realtà è costituita da «forme diverse di esistenza»578.

Ben presto però la riflessione sul pluralismo travalica l’indagine psicologica e diventa un problema filosofico generale. De Sarlo, e non solo lui, comprende che insistere sul pluralismo non significa solamente attaccare al cuore le teorie idealiste, accusate di risolversi in un vero e proprio «dilettantismo»579 solipsistico, bensì mettere in discussione gran parte delle ricerche condotte nell’arco di tutta la storia del pensiero filosofico e scientifico. Egli si dimostra convinto che «un sistema filosofico è tanto più organico quanto più oltrepassa i limiti di vedute definite come il

realismo e l’idealismo, lo spiritualismo e il materialismo e quanto più «giunge a sfidare ed a

mettere a dura prova la sagacia e la pazienza dei classificatori»580.

Soltanto a partire da un ripensamento globale della pluralità del mondo è possibile avviare un vero progresso nel pensiero filosofico. In luogo di inutili ed interminabili questioni, il filosofo moderno deve restringere le possibilità di soluzione dei problemi fondamentali e precisare le alternative. È definitivamente chiusa la stagione dei grandi sistemi, delle costruzioni «aventi valore e consistenza soltanto per l’individuo che le enuncia»581

, e ci si affaccia all’epoca delle ricerche particolari, della solidarietà fra discipline, del confronto fra diversi punti di vista.

Sulla stessa linea stanno i ragionamenti di una figura complessa (dinamica e contesa) del panorama filosofico italiano dei primi anni del Novecento come Varisco. Come abbiamo già avuto modo di anticipare, non sempre Varisco è allineabile sulle posizioni della rivista a cui collabora, ma nel caso della difesa della concezione pluralistica della realtà i suoi testi parlano chiaro. L’unica differenza sta nel fatto che, mentre Varisco ricava la concezione pluralistica da un’impostazione metafisica, per la maggior parte dei collaboratori della rivista si tratta, come abbiamo visto, di una sensibilità ben radicata ma non altrimenti codificabile.

A prescindere da ciò, anche per Varisco la dimensione della realtà è lungi dal poter essere ridotta ad

unum, ed è spiegabile solo se si adotta una concezione plurale e reticolare, capace di rendere conto

di ciò che altrimenti resterebbe soltanto un mistero. Se si vuole comprendere quale sia la genesi del mondo, non basta volgere lo sguardo ad un unico principio, ma diventa necessario prendere in considerazione i diversi «centri di spontaneità»:

Siamo necessitati ad ammettere de’ centri di spontaneità, che dian luogo a cominciamenti assoluti. E che siano insieme centri di interferenza, ciascuno dei fatti incominciati negli altri centri582

Spontaneità e interferenza sono «condizioni necessarie e sufficienti» per spiegare e renderci conto

dell’accadere reale. Varisco si guarda bene dall’infrangere in mille pezzi la concezione della realtà. La realtà rimane numericamente una, ciò che viene abbandonato è soltanto il significato univoco del termine “uno”. Infatti il mondo ha una radice policentrica e reticolare; ogni centro interferisce con

577

Cfr., De Sarlo, “Di alcuni caratteri dello spiritualismo odierno”, C.F., 2, (1908).

578

Ibid.

579

De Sarlo, in un suo pungente articolo scagliato contro il dilettantismo filosofico, compila un vero e proprio elenco di domande filosofiche fondamentali: «La realtà nella sua realtà fondamentale è qualitativamente e numericamente una o più?; Nel fondo è di origine spirituale o materiale?; La coscienza è qualcosa di fondamentale oppure è un epifenomeno?», De Sarlo, “I tipi di soluzione dei problemi metafisici”, C.F., 9, (1907), p. 230.

580

Ibid.

581

Ibid. p. 231.

131 ciascuno degli atti prodotti da tutti gli altri centri. Sviluppando ulteriormente la soluzione dualistica inizialmente propugnata, Varisco giunge ad una Weltanschauung decisamente pluralista, che risolve i problemi del rapporto fra coscienza soggettiva e realtà: dal momento che l’Io è un «centro» della realtà e riconosce un mondo interno «a-spaziale» ed uno esterno «spaziale», è possibile affermare che tutto «è incluso nell’unità della mia coscienza»583

, senza per questo fare della coscienza l’unico fulcro da cui il mondo intero deriva. Tutto, in certo modo, fa parte del mondo interno, perché tutti gli enti con cui la coscienza viene a contatto sono assimilati come se fossero un «mondo mio», senza per questo esserne fagocitati. Il «soggetto» è infatti il luogo dove i fatti spaziali inferiscono nella loro reciprocità ed è anche un «centro di spontaneità», dove fatti nuovi vengono prodotti. Il mondo esterno «spaziale», che noi apprendiamo in qualità di «mondo mio», è comune anche ad altri «centri di spontaneità», i quali a loro volta percepiscono il mondo come «mondo mio». In tal modo viene garantita non solo la pluralità, ma anche il principio di interagibilità, secondo cui ogni «centro di spontaneità» rispecchia tutti gli altri.

Varisco arriva dunque ad abbracciare la concezione pluralistica attraverso la scoperta dei «centri di spontaneità» e proprio questi «centri» diventano la garanzia della consistenza del reale extrasoggettivo. Essi costituiscono un tutto organico, ma non un mondo uniforme, ogni centro infatti compie atti che vanno intesi come «cominciamenti assoluti di fatti di coscienza»584. Agli occhi di Varisco questa è una teoria capace di evitare i due estremi del solipsismo, in cui i «centri di spontaneità» cadrebbero se non fossero relazionabili in un certo modo, e del monismo metafisico, a cui essi verrebbero ricondotti se non fossero in grado di dimostrare una creatività autonoma originaria.

Il «centro di spontaneità» è il luogo dove il bisogno di unità e distinzione è completamente soddisfatto e dove la visione pluralistica non corre il rischio di deviare verso una rappresentazione della realtà pulviscolare. Nel «centro di spontaneità» interferiscono sia i fatti che derivano dal «centro» stesso, che quelli creati altrove in altri «centri». Non c’è contraddizione, difatti «niente interferirebbe se niente cominciasse, ma niente comincerebbe se niente interferisse»585. Come a dire che originalità e relazionalità, creatività e interferenza non sono affatto principi contraddittori ma facce di una stessa medaglia. I «centri di spontaneità» sono luoghi di produzione di fatti, sono fucine di praxis. Anzi, i fatti che costituiscono il mondo reale hanno senso e consistenza solo perché muovono dalla base sicura dei «centri di spontaneità». Per Varisco una tale «essenziale scambievole dipendenza»586 è la sola base concettuale in grado di spiegare insieme l’unità e la pluralità del reale. Esattamente due anni più tardi Varisco interviene sulle pagine della rivista ribadendo e approfondendo le sue teorie587. Gli elementi di cui l’universo è composto sono molti e ben distinguibili fra loro, ma tutti sono collegati da rapporti di reciprocità. Anzi, la relazionalità è una struttura che permea la stessa attività conoscitiva, la quale consiste appunto nel riconoscere i collegamenti fra le cose stesse. Secondo questa prospettiva unità e pluralità non collidono affatto, perché, da una parte, l’elemento relazionale non è riducibile ad un semplice aggregato sopraggiunto alla realtà, ad una sorta di schema ininfluente sul mondo, dall’altra «l’universo è uno e molteplice; 583 Ibid. 584 Ibid., p. 64 585 Ibid. 586 Ibid.

132 non solo: ma è uno in quanto molteplice, molteplice in quanto uno»588: vale a dire che la

molteplicità è comprensibile soltanto se inquadrabile nell’unità interpretativa e viceversa.

Il lettore noterà, anche sulla base di questi pochi stralci, come Varisco vada ben oltre la sensibilità pluralista che anima le ricerche degli altri autori della rivista, alla ricerca di un solido principio metafisico. Egli nutre infatti intenzioni dichiaratamente sistematiche di cui molti altri collaboratori diffidavano. Il compito affidato alla filosofia — sostiene Varisco — è quello di rendere conto dell’«unità di quella cosa molteplice, creata o no che è l’universo»589

, e, a suo parere, non può che trattarsi di un compito risolvibile sul piano metafisico e sistematico. Varisco si differenzia dagli altri autori della rivista per quanto concerne l’ambizione metafisica che ispira le sue ricerche, ma non per quanto riguarda i risultati: «dire: — la realtà è una sola, e non fenomenica; il molteplice non è che apparenza; — non significa niente»590. Nella filosofia di Varisco il problema dell’Inconoscibile perde il suo alone misterioso e paralizzante. Nella sua avventura conoscitiva, l’uomo pur non apprendendo immediatamente le cose, non ha nessun motivo di disperare, perché l’essere molteplice e relazionale del mondo gli garantisce che nulla resti assolutamente precluso e che anzi tutto sia, almeno potenzialmente, conoscibile. Varisco si dimostra convinto che mettere in critica il monismo, non conduca né ad intendere il mondo come irrimediabilmente atomizzato, né a proclamare l’irreparabile disfatta delle possibilità conoscitive:

ciascuna cosa, ciascuna proprietà d’una cosa, ciascuna relazione tra più cose, ciascuna variazione di cose o di loro proprietà o di relazioni tra cose, diverrebbe nota, se le circostanze divenissero favorevoli591

Noi non conosciamo tutti gli elementi dell’universo e conosciamo solo imperfettamente quelli già noti, arriviamo ad intendere la realtà da una piccolissima parte, ma non per questo motivo siamo autorizzati ad ipotecare la possibilità che qualcosa possa essere conosciuto. In tal modo la «possibilità della cognizione»592 si estende a tutta quanta la realtà e la visione pluralistica conduce ad ammettere che l’ordito del mondo è composto da diversi elementi, ma, al contempo, la concezione relazionale ricorda che «non ci sono elementi dell’universo, che non siano in relazione col soggetto conoscente»593.

Solo la sinergia tra pluralità e relazionalità rende possibile ricostruire quell’unità del mondo apparentemente compromessa dalla visione pluralistica. Il soggetto conoscente, depositario del pensiero, è solo uno degli orditi del reale, ma la sua attività conoscitiva implica una insidacabile «necessità logica», altrimenti non si spiegherebbe né la relazionalità fra gli elementi plurali, né la possibilità di ricostruire il mondo a partire da uno di questi punti (l’uomo appunto).

La «necessità logica» è frutto del pensiero, ma riveste al contempo un ruolo importante nel garantire l’“oggettività”

non può esistere né accadere niente che sia in opposizione con la necessità del pensiero: l’assurdo non è reale, mai. L’universo fenomeno è dominato da quella medesima necessità, da cui è dominato il pensare soggettivo594

588 Ibid., p. 55. 589 Ibid., p. 56. 590 Ibid. 591 Ibid. 592 Ibid. 593 Ibid. 594 Ibid., p. 57.

133 Unità e pluralità non sono prospettive contraddittorie. Esse devono diventare anzi direttrici equivalenti di una medesima filosofia. E Varisco mette al lavoro un simile proposito sul piano apparentemente più delicato, vale a dire in campo gnoseologico. L’«esserci» di qualcosa consiste nel suo essere in relazione con il soggetto che lo conosce, vale a dire nel suo essere col soggetto in quella relazione che lo rende, o lo può rendere, noto. In questo modo non solo unità e molteplicità sono strettamente implicate, ma l’attività conoscitiva del soggetto risulta uno dei termini fondamentali del mondo. Varisco risolve le tensioni fra unità e pluralità ricorrendo ad un soggetto conoscente che funge da connettore fra i due termini

le cose di cui sono conscio: ecco il molteplice. Ma di tutte queste cose c’è un solo e medesimo esser conscio; il mio esser conscio: ecco l’unità595

Il risultato di quest’analisi è facilmente riassumibile: l’unità del soggetto non soltanto non esclude la molteplicità, ma esiste solo come unità di una molteplicità e la molteplicità non esiste se non in quanto avvertita e inclusa nell’unità del soggetto596

. Ciò va ad aggiungersi ad una riflessione sul

pluralismo che vede protagoniste anche altre voci importanti, come per esempio quella di Aliotta

che interviene facendo invece il punto sull’aspetto storiografico del pluralismo. Scrivendo il

Pluralismo contemporaneo597 egli vuole ricostruire la storia di un concetto ampiamente utilizzato sulle pagine della rivista, ma che fino a quel momento non aveva trovato una coerente sistemazione da un punto di vista metodologico. Aliotta ricorda che fu il metafisico Wolff ad usare per la prima volta il termine “pluralismo”, intendendo con esso la dottrina che ammette l’esistenza di una molteplicità di esistenze esterne ed indipendenti dall’io. «Pluralismo», nel lessico wolffiano, è lemma opposto a «monismo», che invece denota l’omogeneità qualitativa della sostanza che viene ammessa come principio unico della realtà. Aliotta mette in discussione l’impianto del metafisico tedesco, facendo notare come nell’opposizione fra i due concetti, di monismo e pluralismo, possa anche non esserci alcun dissidio, perché un sistema monistico come quello presente in Leibniz, può presentarsi sotto le spoglie del più radicale pluralismo. Per questo, in luogo del lemma “monismo”, è più corretto parlare di «singolarismo», termine che rende maggiore giustizia alla credenza nell’esistenza e all’uniformità di un solo essere.

Per la stessa ragione Aliotta suggerisce di utilizzare, al posto di «pluralismo», (ritenuto troppo ambiguo), il termine «molteplicismo». Schiller e James parlano per esempio di «pluralità di spiriti»; Boex-Borel e Bourdon si dimostrano più radicali, attaccando l’omogeneità e affermando una serie discontinua di qualità irriducibili, rimuovendo anche le ultime tracce della tradizionale visione del mondo, come l’unità e la continuità del reale che perfino i pragmatisti avevano rispettato. Il termine «pluralismo» viene utilizzato da molti autori per avallare un fenomenismo radicale che riduce ai dati della nostra esperienza gli elementi discontinui ed eterogenei da cui il mondo risulta. Ma

595

Ibid.

596

Non ci prolungheremo oltre sugli altri problemi di cui Varisco da notizia nell’articolo. Tutta una lunga parte è dedicata alla risoluzione della questione – del resto classico – che vede una contraddizione nell’affermare la «molteplicità delle coscienze» da una parte e l’«unicità del pensiero» dall’altra. Secondo Varisco anche questo ennesimo problema trova soluzione nel momento in cui si smette di concepire la realtà in termini polari ed escludenti. I soggetti sono determinazioni dell’Essere, ma questo a sua volta non esiste se non in quanto presuppone una molteplicità di coscienze individuali che lo concepiscono, vale a dire in quanto è pensato da ciascun soggetto particolare. L’Essere insomma è contenuto nelle coscienze singole che ne sono determinazioni, infatti una conoscenza che non pensasse e non concepisse l’Essere semplicemente non sarebbe una coscienza. Varisco avvia alla conclusione il suo ragionamento: «l’esserci dell’Essere consiste nel suo essere pensato» intendendo chiaramente che l’Essere è il pensiero comune a tutti i soggetti; «un pensiero veramente UNO, quantunque i pensanti siamo MOLTI; anzi perché i pensanti sono molti», ibid., p. 65

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pluralisti sono pure i realisti americani che concepiscono i molteplici elementi disgregati come

entità logico-matematiche, le cui relazioni reciproche non sono affatto necessarie («teoria esterna delle relazioni»). In luogo di «pluralismo» Aliotta preferisce usare dunque il termine «molteplicismo» e su questo avvia una profonda revisione di buona parte delle teorie filosofiche classiche e moderne:

l’uno è stato sempre il polo magnetico che ha verso di sé irresistibilmente attratto la ragione umana. E questa tendenza ha assunto talvolta un carattere quasi patologico, giungendo, nelle sue estreme aberrazioni, a rinnegare perfino il