• Non ci sono risultati.

Per una concezione integrale della ragione e un nuovo orientamento epistemologico

6 Mach e gli empiriocritic

Come abbiamo già avuto modo di notare, il riferimento al movimento empiriocritico, risulta della massima importanza per comprendere l’impronta sperimentale e storicista dell’epistemologia sostenuta sulle pagine del periodico fiorentino.

Mach e i suoi allievi avevano messo in discussione la forma mentis di un’epoca intera, travolgendo premesse e convinzioni solidissime, e avevano avuto il coraggio di proporre una revisione integrale

325

Ettore Zoccoli, “La validità e la funzione delle leggi storiche”, C.F., 9, (1907), p. 242.

326

De Sarlo, “I problemi gnoseologici nella Filosofia contemporanea”, C.F., 5, (1910), p. 557.

74 dei presupposti della ricerca scientifica. Non è certamente frutto del caso il fatto che De Sarlo e Aliotta – soprattutto nei primi fascicoli della rivista – dedichino così ampio spazio a Mach e alla sua scuola, andando in tal modo alle radici della «crisi delle scienze europee» e aprendo un confronto non pregiudizievole con scienziati impegnati direttamente sul terreno filosofico. Del resto i due intellettuali non erano stati i soli ad occuparsene o a contestare l’interpretazione che ne avevano dato i nuovi idealisti. Vailati, solo per fare un esempio, nei sui scritti leonardiani, al contrario dell’amico Enriques328

, aveva preso sul serio la lezione di Mach sulla necessità di interrogarsi direttamente circa gli scopi perseguiti dalla scienza e sulla necessità di dimostrarsi cauti verso l’insidia metafisica che, volenti o nolenti, s’annidava nel corpus epistemologico e nel bagaglio terminologico spesso non sufficientemente mondato da interferenze e fraintendimenti. L’idea di fondo del pensatore cremasco è che il progresso delle conoscenze scientifiche sia non di rado rallentato, interrotto o fuorviato da equivoci logico-linguistici, dall’ambiguità o indeterminatezza di certi termini o nozioni329.

Vailati, riflettendo sugli studi e sulle indicazioni di neoempiriocritici tedeschi, pragmatisti americani e della tradizione empirista scozzese, compila brevi ma densi articoli di metodologia, dove sottolinea la necessità di valutare se i problemi ritenuti «insolubili» siano realmente tali a causa della limitatezza del nostro pensiero, oppure siano semplicemente mal posti, perché all’insieme di parole con le quali li enunciamo non corrisponde alcun senso determinato assegnabile. Il ricercatore deve fare sempre molta attenzione e tenere presente il pericolo che alcuni elementi metafisici possano inserirsi nello sviluppo della scienza ed errori logico-metafisici possono fuorviare il cammino dell’indagine epistemologica330

.

Una posizione, quella di Vailati, che esprime bisogno di rinnovamento e ringiovanimento della ricerca e dei suoi metodi suscitando perplessità perfino da parte di personaggi della levatura e

328

Sul rapporto fra Enriques e Vailati rimando allo studio della Faracovi, Il Caso Enriques, cit., in particolare pp. 38-50. Non si tratta di un confronto facile, sia per la distanza fra le due posizioni, sia per la collocazione pragmatista di Vailati (per Enriques incomprensibile). Fra i due però intercorreva una solida amicizia intellettuale ed è veramente interessante sfogliare il carteggio perché ci restituisce il clima di confronto e di dibattito schietto fra posizioni che caratterizzava l’attività di tanti intellettuali dell’epoca. Significativa a questo proposito è anche la nota di Santucci compresa in Empirismo, pragmatismo, filosofia italiana: «quali fossero i motivi che spingevano l’amico matematico Giovanni Vailati e Mario Calderoni ad allearsi con Gian Falco (Papini) e Giuliano il Sofista (Prezzolini), quale il tentativo di aggiornare l’epistemologia e competere con Croce e Gentile nel rinnovamento della cultura, egli non riusciva a vedere fino in fondo. In realtà, il loro riferimento a Peirce e alla sua regola ne Le origini e l’idea

fondamentale del pragmatismo del 1909, conteneva un’indicazione precisa. Essa colpiva anzitutto l’agnosticismo dei positivisti,

considerando l’esperienza come un criterio per stabilire il significato delle nostre asserzioni, senza pregiudizio del tipo di esperienze prese in esame. Così, l’unico carattere utilitario del pragmatismo consisteva nell’eliminare un certo numero di problemi che sono inutili perché non sono dei problemi», Santucci, Empirismo, pragmatismo, filosofia italiana, cit., p. 144.

329

Vailati anticipa molti temi che diventeranno patrimonio dell’indirizzo neo-positivistico, a partire dall’attenzione dell’indagine epistemologica verso il linguaggio utilizzato nell’indagine scientifica. Uno degli ostacoli maggiori al progresso del pensiero sta nell’insidia che continuamente ci tende il linguaggio, in quanto il significato delle frasi che adoperiamo sfugge alla nostra conoscenza e in gran parte al nostro controllo, e in quanto spesso ripetiamo tali parole o frasi semplicemente per effetto di tradizione e di imitazione, indipendentemente da una nozione qualsiasi delle circostanze e dei fatti che hanno dato loro origine. Malintesi ed equivoci per cui chi enuncia una frase, una proposizione, una teoria, crede spesso di dire qualche cosa di più o di diverso di quanto in realtà non dica, o crede addirittura di dire qualcosa quando in realtà non dice niente. Tali equivoci sono spesso la causa di malintesi e di elaborazione di teorie pessimistiche e scoraggianti circa i limiti che la ricerca deve imporre a se stessa, e si crede all’esistenza di contrasti, di dissidi, di antinomie, laddove una analisi dei termini e delle frasi impiegate nella controversia avrebbe rivelato che tali dissidi erano puramente apparenti. Molto spesso l’esistenza di problemi insolubili è attribuibile non alla debolezza del pensiero umano, ma al fatto che tali problemi, nel modo in cui sono trattati, non costituiscono affatto un problema nel senso proprio di questo termine, ma si dileguano interamente o si convertono in problemi diversi non appena vengano posti in maniera corretta ed adeguata. Il pragmatismo nel quale i più non avevano scorto che una forma di utilitarismo applicato alla valutazione delle credenze e delle teorie, fu da Vailati ricondotto alla sua forma originaria e più seria: il tentativo cioè di evitare il sorgere del malinteso e del nonsenso, mediante il consiglio e l’invito, rivolto a chiunque enunci una frase o ponga un problema, di indicare le esperienze particolari e concrete alla cui possibilità od impossibilità egli intenda con ciò riferirsi.

75 dall’apertura critica di Enriques, il quale — scrive Santucci — si chiedeva «quali fossero i motivi che spingevano l’amico matematico Giovanni Vailati e Mario Calderoni ad allearsi con Gian Falco (Papini) e Giuliano il Sofista (Prezzolini)»331.

Il fatto è che all’epoca né Enriques, né molti suoi contemporanei, riuscivano a discernere le differenze tra i pragmatisti magici insofferenti alle regole e alla disciplina scientifica e il pragmatismo mondato dall’illogicità e dalle doppiezze tipiche delle intemperanze di molti epigoni. In effetti il matematico livornese non avrebbe dovuto meravigliarsi, visto che per Vailati il pragmatismo rappresenta la filosofia più adeguata alle rinnovate esigenze della razionalità scientifica332. La sua riflessione — come è noto — s’era appuntata sul carattere «democratico» dei postulati che non potevano più essere considerati come asserzioni evidenti, indiscutibili e assolute, bensì come «delle proposizioni uguali a tutte le altre, la cui scelta può essere diversa a seconda degli scopi ai quali la trattazione mira»333. Ecco perché Garin — fa notare Savorelli — indica proprio nelle sue ricerche logico-epistemologiche il rappresentante di un «serio e vigoroso e sottile positivismo» che non intende sacrificare né «il pensiero né la vita»334. Un «positivismo» eterodosso quello di Vailati — se di positivismo si può ancora parlare —, dal momento che la critica al meccanicismo inaugurata da Mach, come fa notare Paolo Parrini, rappresenta ai suoi occhi il «giusto rifiuto (di sapore humiano) della ipostatizzazione metafisica delle nozioni alla base di quel tipo di spiegazioni» e un ottimo punto di partenza «per comprendere il valore conoscitivo della scienza»335. Su questa base Vailati, pur respingendo «ogni considerazione soggettivistica e utilitaristica delle credenze»336, faceva valere la regola di Peirce che invitava a segnalare «quali sarebbero gli esperimenti a cui potremmo o dovremmo ricorrere, noi e gli altri, per decidere se e fino a che punto le nostre asserzioni sono vere»337. Egli svolgeva una proficua analisi sulle «questioni di parola» che si annidano e resistono nel discorso scientifico, affidando alla riflessione filosofica il compito di procedere ad un’analisi linguistico-concettuale, volta a chiarire

331

Santucci, Empirismo, pragmatismo, filosofia italiana, cit., p. 145. Il passo citato continua chiarendo i termini del riferimento al pragmatismo peirciano da parte dei pragmatisti logici italiani: «Peirce era l’epigono dei filosofi inglesi e scozzesi, di Locke, Gerkeley, Hume, Dugald Stewart, Brown, dei due Mill, che non avevano mai assunto le esigenze sentimentali ed etiche a criterio della validità delle teorie o vi si erano riferiti soltanto incidentalmente, non potendosi considerare inutile ogni affermazione che abbia qualche rapporto con l’esperienza: così il suo pragmatismo invitava in forma suggestiva a “introdurre lo sperimentalismo non solo nella soluzione delle questioni, ma anche nella scelta delle questioni da trattarsi”, a versare nelle parole che sono l’oggetto delle nostre dispute il loro contenuto pratico e osservativo», ibid. p.145

332

Celebre l’idea vailatiana secondo cui «il solo mezzo di determinare e chiarire il senso di un’asserzione consiste nell’indicare quali esperienze particolari si intenda con essa affermare che si produrranno, o si produrrebbero date certe circostanze»,Vailati, Scritti, a.c. di Mario Quaranta, Bologna, Sala Bolognese, I, , p. 116; Per Vailati il richiamo alla «previsione», prima ancora di porsi il problema se una proposizione sia vera o falsa, implica il fatto che occorre stabilire il significato dei termini utilizzati. La previsione rappresenta il solo strumento per definire e interpretare le teorie stesse.

333

Parrini, Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento, cit., p. 37.

334 Savorelli, “L’eredità del positivismo”, G.C.F., LXXXVIII (XC), pp. 252-53. 335

Ibid., p. 38.

336

Santucci, Empirismo, pragmatismo, filosofia italiana, cit., p. 105; Santucci ricostruisce anche le tappe e le sfumature dello sbarco del pragmatismo americano in Italia, ponendo in evidenza come James e Peirce fossero i due diversi punti di riferimento delle due anime magica e logica del pragmatismo: «Il pragmatismo fa il suo ingresso in Italia, appena nato, agli inizi del secolo. Gli studi su William James furono subito numerosi e diramati, riguardando l’autore dei Principles of Psychology e il filosofo della volontà di credere, l’empirista radicale e il metafisico dell’universo pluralistico; mentre appare scarsa l’attenzione per Peirce, citato di rincalzo o contrapposto al primo più che non letto direttamente sui testi. Ma importante su tutte è la vicenda del Leonardo, della rivista fiorentina in cui pragmatisti magici e logici convivevano nell’attacco alla cultura dominante e si dividevano circa il merito della novità d’oltre oceano. Così, se Giovanni Papini traeva dalle dottrine jamensiane la conferma di un primato dell’azione individuale, Giovanni Vailati respingeva ogni considerazione soggettivistica e utilitaristica delle credenze. Per questo valeva la regola di Peirce che invitava a segnalare quali sarebbero gli esperimenti a cui potremmo o dovremmo ricorere, noi e gli altri, per decidere se e fino a che punto le nostre asserzioni sono vere», ibid.

76 analiticamente i problemi che si pone la scienza, ancor prima di entrare nel merito dei contenuti degli problemi stessi.

Tornando al nostro studio, dobbiamo mettere in luce come l’interesse della Cultura Filosofica verso Mach e i suoi allievi, fosse fondato su ragioni storiche profonde e non fosse meno lungimirante e problematico dell’approccio vailatiano. Gli empiriocritici non sono infatti semplici scienziati che affidano alla carta stampata solitarie riflessioni metodologiche; il loro, al contrario, rappresenta uno sforzo collettivo di studiosi, organizzati in corrente, impegnato a ridefinire le premesse teoriche del naturalismo all’alba della crisi. D’altro canto, occuparsi in Italia di Mach vuol dire anche fare i conti con la lettura di parte neo-idealistica. Significa cioè sottrarre terreno all’argomento crociano secondo cui il nuovo idealismo storicistico non farebbe altro che dare respiro filosofico alle conclusioni autocritiche e liquidatorie degli stessi scienziati.

Soprattutto De Sarlo e Aliotta si impegnano a fondo per rimettere le cose a posto, aprendo un confronto serrato e chiaro con le ricerche degli empiriocriticisti. Fra loro e l’esperienza empiriocritica esistono forti motivi di contrasto, a partire dalla concezione della «sensazione» abbracciata dai sostenitori della scuola machiana e dalla stessa valenza da attribuire alla questione dell’«oggettività» del sapere scientifico. Eppure il problema non viene liquidato con leggerezza perché a De Sarlo ed Aliotta interessa distinguere i piani che invece Croce salda: il confronto filosofico ed epistemologico può spingersi anche verso risultati assai critici ed antiintuitivi, ma ciò non giustifica una politica culturale finalizzata alla delegittimazione delle scienze e alla loro subordinazione teorica rispetto alla filosofia speculativa. Detto altrimenti, De Sarlo e Aliotta (a differenza della lettura crociana) percepiscono l’esigenza di riportare i risultati delle indagini empiriocritiche all’interno di un dibattito sul valore delle scienze e delle ricerche positive, mettendo argini precisi ad ogni tentativo liquidatore.

Gli studi su Mach e sull’empiriocriticismo assumono perciò un ruolo strategico nei fascicoli della

Cultura Filosofica, contestualizzandosi in un dibattito di largo respiro sui concetti chiave come

quelli di «scienza», «possibilità della ricerca», «utilità», «relazione», «sensazione».

Al Mach liquidatore della scienza esaltato da Croce sulle pagine della Critica, viene qui opposto un Mach critico, che, sotto la spinta di determinate circostanze storiche, ridiscute le premesse e le fondamenta del pensiero scientifico e dell’azione umana. De Sarlo coglie subito l’aspetto costruttivo ed autocritico di un’indagine epistemologica capace di fare i conti con i facili entusiasmi dello «scientismo» ottocentesco338 diventati oramai inopportuni, e porta la sua rivista su una

338

Qui utilizziamo il termine «scientismo» in senso lato, in riferimento cioè alle esperienze peggiori del positivismo fideistico ottocentesco. Bisogna però prendere atto che le esperienze materialistiche e positiviste, soprattutto in riferimento al panorama italiano, non sono così facilmente steriotipabili come spesso si è sostenuto. Alcuni recenti studi ci ricordano infatti che «lo scientismo non fu in Italia un abito convenzionale per una cerimonia di qualche ora, se mosse tante energie favorevoli e contrarie; non si tratta neppure di un semplice “materialismo dei medici”, di una filosofia “da farmacisti” o di “non filosofi”; sotto l’ambiguità, professioni di fede, affettazioni ed entusiasmi di alcuni, si faceva strada il problema filosofico della scienza, la questione del rapporto filosofia, scienze, fede religiosa; la urgente necessità di studiare l’uomo alla sua complessità ed integrità come momento della evoluzione naturale e come originale creatore di storia, di cultura, di pensieri e di sentimenti, di coscienza e di latenti incubi. Non si trattò di un confronto tra spiritualismo tradizionale (alla Mamiani) e una piatta visione materialistica ricalcata sulle “volgarità moleschottiane o büchneriane”; ma di un ampio, tormentato dibattito in cui furono chiamati in prima persona Vichoff, Claude Bernard, Helmhotz, Maxwell, Darwin e Spencer ma anche Mill e Wundt, Fechner e gli antropologi come Taylor, Frazer e, infine, James per arrivare a Freud», De Liguori, Materialismo inquieto, cit., p.11.

Sempre De Liguori: «se si prescinde dallo scientismo di marca ottocentesca, per tanta parte legato al confronto con le scienze europee, molto più povero appare il panorama della nostra cultura tra i due secoli e come eroso dal vario paesaggio su cui vediamo elevarsi la fenomenologia di Husserl, la psicanalisi di Freud, le differenti figure dell’empiriocriticismo e del convenzionalsimo da Mach ad Avenarius, a Poincaré a Duhem fino agli ultimi sviluppi della filosofia tra le due guerre. Da noi tutto si sarebbe ricondotto al neo-idealismo: intorno, il deserto dei fallimenti, le svendite, le bancarotte, i resti di un madornale equivoco, di una radicale

77 posizione che — come sottolinea giustamente Ferrari — non aveva molte compagnie nell’Italia di quel tempo:

resistente a rivisitazioni simpatetiche si mostra invece il terreno della discussione epistemologica, sul quale il positivismo italiano – nell’epoca di Duhem, Mach, Poincaré, Rey, Stallo e altre figure eminenti della riflessione sulla scienza e sulla crisi del meccanicismo – non seppe innestare alcuna significativa innovazione, arroccandosi a difesa di una concezione della conoscenza e dei suoi fondamenti psicologici che solo sporadicamente e in maniera del tutto ininfluente cercò di tener conto di quanto avveniva sulla scena europea. Del resto basterà procedere a una lettura accurata delle annate della Rivista di Filosofia avviata nel 1909 per riscontrare la sfasatura tra il positivismo italiano che ancora si affidava alle granitiche certezze dell’ottuagenario Ardigò e il contesto internazionale in cui ben altri e ben diversi orientati apparivano gli strumenti concettuali di cui occorreva disporre per leggere la nuova immagine fisica del mondo o il complesso delle ricerche logico-matematiche339

Eppure sarebbe un errore ricondurre l’interesse per Mach e per il fenomenismo in generale ad una semplice attenzione critica o di politica culturale. Per De Sarlo ed Aliotta leggere, commentare e criticare le opere degli empiriocritici, significa — come abbiamo già avuto modo di notare — fare avanzare il programma di dialogo fra filosofia e scienza, riformulare un’idea complessiva della ragione umana sulla base delle diverse modalità attraverso cui essa si esprime e del su carattere storico.

Ed è proprio sull’approccio storicista di Mach che è interessante soffermarsi, ovvero sulla concezione della ricerca scientifica come procedimento storicamente determinato e frutto di precise condizioni di cultura. De Sarlo si ferma a lungo sul carattere storico della ricerca scientifica e dei suoi risultati, mutuando da Mach l’impostazione del problema epistemologico e ponendolo al sicuro dalle interpretazioni liquidatrici di idealisti, pragmatisti magici e convenzionalisti. Egli nota che attualmente il pensiero umano si trova in possesso di nozioni come spazio, tempo, moto, materia,

energia che sono concetti elaborati dall’uomo nel corso della sua esperienza storica. Anche

prescindendo dalle conclusioni di Mach, bisognerà chiedersi come e per quale via l’uomo sia riuscito a determinare tali nozioni e quindi sarà necessario ricostruirne la storia. È chiaro che il problema epistemologico così impostato rompe con gli schemi tradizionali di cui la ricerca scientifica e filosofica si è avvalsa fino ad allora e fa leva sull’impossibilità di considerare il mondo delle scienze naturali come il riflesso di una realtà ultima.

De Sarlo e Aliotta — lo ripetiamo a scanso di equivoci — non si appiattiscono sulle posizioni degli empiriocritici e non condividono assolutamente la maggior parte delle loro tesi fondamentali, come per esempio la negazione della dualità originaria di «soggetto» ed «oggetto». Ma dal momento in cui si mette al riparo la legittimità del rapporto duale fra soggetto e oggetto, da Mach è possibile trarre diversi spunti di riflessione, come appunto nel caso del carattere storico della formazione dei concetti epistemologici e della rilevanza psicologica nel processo di formazione delle nozioni scientifiche. In altre parole, da Mach i nostri autori imparano per esempio che il soggetto, impegnato nella ricerca, non è mai «puro», cioè non può essere ridotto ad una dimensione unicamente logica (panlogismo) o neutralistica, per il semplice fatto che «la scienza, se non tutta la conoscenza umana, è una “formazione”, la quale può essere intesa soltanto a patto che venga inconsapevolezza, da cui ci si dovrà guardare anche in futuro come da una endemica calamità. I recenti studi su quella vasta area culturale hanno ribaltato tale deformante immagine, ma non hanno ancora, nel quadro complessivo della revisione in corso, restaurato il giusto ruolo svolto (più nelle istanze, è ovvio, che negli esiti) da quello che si definì materialismo scientistico», ibid., p. 12. Sulla particolare «fisionomia del positivismo italiano» in relazione alla «teoria della storia» rimando alla brillante lettura di Francesca Rizzo Celonia: F. Rizzo Celonia, Il concetto Filosofico della storiografia, Messina, Giannini Editore, 1982.

78 derivata dalle condizioni psicologiche che nell’individuo la resero possibile e dalle condizioni storiche di cultura che ne determinarono l’intimo sviluppo attraverso i secoli»340

.

In tal modo «storia» e «psicologia» irrompono nel dominio dell’indagine scientifica, mettendo impietosamente in crisi ogni concezione epistemologica fino ad allora dominante. Lo studio della storia delle discipline scientifiche non può essere accantonato come una semplice curiosità intellettuale estranea al dibattito filosofico ed epistemologico e confinata nell’aneddotica, ma ne costituisce invece il nerbo. La scienza diventa incomprensibile se non viene correttamente incardinata in una prospettiva storica e finalmente va a coincidere con la sua storia. Non è un caso se Mach si occupa di storia della meccanica341 e non è un caso se De Sarlo non perde occasione per precisare il fatto che il divario tra la vecchia e la nuova concezione della scienza consiste proprio