Paradosso come arma letteraria
CAPITOLO SETTIMO
7.8 Le parole di Chesterton, in Tolkien e Lewis
Chesterton, e i due scrittori che lo hanno seguito ed in qualche modo ne hanno preso idealmente in mano l’eredità, si sono spesi per difendere quella che ritenevano fosse la verità. La fama di cui godono gli ultimi due, è forse testimonianza che non tutto è perduto nella grande battaglia culturale del nostro tempo. La
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110 battaglia per la ricerca del senso, per non brancolare nella follia di un caos informe e indifferenziato dove l’uomo non conta nulla, è una battaglia che vale la pena combattere.
I tre scrittori lo fecero con le parole: parole che sono recentemente apparse sugli schermi nelle trasposizione cinematografiche di alcune delle loro opere. Nonostante la dote da polemista di Chesterton, ciò che sopravvive di lui sono soprattutto gli innumerevoli aforismi paradossali e le storie di Padre Brown. Questo perché il nostro autore, assieme a coloro che l’hanno seguito, aveva capito che forse il modo migliore per entrare nelle case e nelle idee delle persone, era quello di dare loro una narrativa che potesse opporsi a quanto queste dovevano e devono subire tutti i giorni, con scarsi mezzi per difendersi.
Chesterton scrive a proposito della narrazione: «Shakespeare non afferma che il poeta si perde nel Tutto, dissolve cose concrete in un crepuscolo nebuloso, trasforma questa nostra casa in una veduta o in qualcosa di ancora più confuso. Sostiene l’esatto contrario. Il poeta offre “una concreta dimora e un nome” a ciò che altrimenti non sarebbe nulla. Questa apparente limitatezza di cui gli uomini si lamentano sull’altare e attorno al focolare è vasta quanto l’opera di Shakespeare e l’intera inventiva umana e dovrebbe incutere rispetto perfino in quanti credono che il culto del Natale sia in realtà solo una fantasia»205.
La limitatezza della nostra condizione, che per qualcuno è la dannazione, diventa la base su cui costruire una positiva ricerca di senso nella vita delle persone. Questo senso che esse possono trovare a partire dalla loro limitatezza le mette in grado di guardare in maniera positiva alla possibilità di affrontare l’apparente caos che si erge di fronte a loro.
Chi ritenesse che la possibilità di trovare un senso nella nostra vita o di scoprire che la realtà è buona, sia una storiella per bambini, compirebbe un atto di estrema arroganza. Nonostante i progressi culturali dell’umanità, infatti, non si può in alcun modo dire che la nostra comprensione del male sia più profonda di quella che potevano avere i nostri antenati. Il riconoscere che il male esiste era un tempo una condizione necessaria per impostare la propria vita: all’interno della visione cristiana si trattava di riconoscere il peccato originale. Questo riconoscimento implica, la necessità di valutare le proprie azioni secondo un criterio morale non legato alle proprie propensioni soggettive, dal momento che queste ereditano dalla condizione lapsaria una profonda ambiguità.
Il pensiero di Chesterton, e dei due autori che a lui fanno riferimento, recupera questa consapevolezza in funzione di una vita sensata e autenticamente orientata alla felicità.
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CONCLUSIONE
Nel nostro lavoro abbiamo visto quale sia stato il percorso di Chesterton. Capire da dove lo scrittore inglese fosse partito con le sue riflessioni è stato complicato; ma andando a cercare nella prefazione di Ortodossia, abbiamo ricostruito il suo debito verso J. H. Newman, e da lì abbiamo proceduto a scavare – a ritroso –, cercando, anche attraverso le citazioni, quali fossero i “padri nobili” del nostro autore.
L’attenzione che Chesterton aveva riservato a San Tommaso d’Aquino è importante, perché ci mostra come egli abbia preso dal “Bue Muto” diversi concetti che ritroviamo nelle sue opere: primo dei quali è il pensiero che ogni cosa nel mondo sia buona. Questo vuol dire che se rimaniamo ancorati alla realtà, possiamo rimanere più fedeli a noi stessi e possiamo anche riuscire a mettere a frutto i talenti che ognuno di noi possiede.
Il pericolo che il nostro autore aveva dovuto affrontare al riguardo derivava da un certo tipo di intellettualismo, che alcuni pensatori della sua epoca ritenevano di dover seguire. La società inglese, molto pragmatica allora e piuttosto pragmatica anche oggi, aveva cominciato a pensare che con le giuste dosi di ingegneria sociale fosse possibile modificare la società in modo da renderla perfettamente efficiente e tale da non richiedere l’impegno morale dell’uomo.
Altro riferimento Chestertoniano è risultato essere John Locke, che sottolinea come sia l’esperienza a guidarci attraverso la realtà. Il fatto che la realtà sia una cosa buona, come mostratoci da San Tommaso, e che l’esperienza della realtà è ciò che ci guida ad agire all’interno di essa, sono due idee che trovano naturale fioritura nel lavoro di Newman, e quindi di Chesterton.
Il cardinale inglese sosteneva che si dovesse fare esperienza del mondo, ma anche si dovesse comprendere quell’esperienza, al fine di usarla in maniera adeguata per comprendere e agire nel mondo stesso. Nell’epoca di Chesterton il problema infatti era che si faceva esperienza della terribile povertà degli operai inglesi, come si faceva terribile esperienza dei bevitori di gin o del malessere negli orfanotrofi. La soluzione a quei problemi, però, non era prospettata seguendo una logica corretta, che avrebbe voluto forse l’applicazione di un criterio di carità nei confronti di quelle persone, ma veniva identificata nel progetto di eliminare gli esseri umani che di quei problemi erano portatori.
Dopo questo percorso ideale, e dopo diverse vicende personali, Chesterton comprese che era necessario trovare il modo di argomentare in favore delle persone che venivano attaccate tutti i giorni. Le sue doti oratorie fecero di lui l’uomo giusto nel posto giusto, e così si mise alacremente al lavoro per riuscire a scalfire a colpi di parole e di inchiostro quel muro di indifferenza che si era creato attorno ai problemi dei più poveri. Non bisogna certo dimenticare che era proprio nell’epoca di Chesterton che cominciavano a
112 circolare e a diffondersi a macchia d’olio le riviste di eugenetica. Non è certo un caso che subito dopo la morte del nostro scrittore sia nato un movimento politico che promuoveva apertamente la supremazia della razza ariana e l’eliminazione di tutte le forme di umanità che, secondo i suoi fautori, l’avrebbero resa più debole.
La difesa della persona umana, fu il punto cardine dell’attività di Chesterton, come si evince da quello che fu in qualche modo il suo manifesto letterario di vita, e cioè Le Avventure di Uomo Vivo. Il testo va inteso, a nostro parere, come un manifesto del nostro scrittore, perché ne riprende in forma letteraria il risveglio dal sonno in cui si era addormentato: il sonno che gli faceva percepire il mondo come un luogo vuoto e informe. Il paradosso diventa l’arma preferita per smuovere le coscienze, ma soprattutto per svegliare una società che rischiava di dimenticarsi della bellezza della vita, che non poteva venire sterilizzata da nessun meccanismo statale o da nessun esperimento di ingegneria sociale.
All’epoca di Chesterton si progettava – come anche ai nostri giorni – di eliminare scientificamente tutte le forme possibili di sofferenza. Il paradosso intrinseco di questo progetto è però quello di implicare l’eliminazione dell’uomo, insieme a quella della sofferenza, “buttando via il bambino assieme all’acqua sporca”. La sofferenza è talmente radicata nell’esperienza umana, che cercare di eliminarla radicalmente, vorrebbe dire, a ben vedere, eliminare anche chi ne è portatore.
Chesterton assisteva anche al tentativo sistematico di distruggere l’idea stessa di una moralità oggettiva, con personaggi come Bernard Shaw e Bertrand Russell si appellavano di volta in volta in modo approssimativo a rappresentanze di studi legati all’evoluzionismo e alla sociologia. Questo tipo di percorso, si riflette nel mondo moderno con un tipo di moralità che è la cosiddetta “moralità al ribasso”. Questo tipo di moralità vuole eliminare dalla scena qualunque tipo di fatica o lavoro che bisogna fare nella ricerca di un’oggettività e quindi: dal momento che la sofferenza non è più una cosa accettabile da una sempre più larga fetta della società moderna, vengono accettate tutte le cose che non intaccano la mia persona in una forma di vivi e lascia vivere, totalmente indifferente al prossimo. Se per qualcuno infatti la vita diventa troppo pesante, e non vuol più viverla, si cercherà di appoggiare tendenzialmente chi sostiene il diritto all’eutanasia; invece di cercare di aiutare quella persona a ritrovare un significato per quello che sta vivendo. Si ricorre a pratiche come l’aborto quando le possibili problematiche economiche minaccerebbero la salute della madre, ma nessuno sostiene chi invece la vita l’ha appena ricevuta.
Chesterton si batteva contro tutte queste cose, perché sapeva che venivano dalla paura intrinseca della sofferenza e della fatica che la vita richiede per essere vissuta in maniera positiva. In tutto questo, ai suoi tempi, come ai giorni nostri, coloro che difendono i più piccoli e gli indifesi sono sempre di meno, proprio perché la tendenza al “vivi e lascia vivere” spinge le persone a disinteressarsi al vicino di casa, ma a sottoscrivere convintamente petizioni per fermare la caccia alle tigri nelle foreste del Bangladesh.
113 Chesterton sapeva che bisognava svegliare le coscienze e far loro presente la possibilità di trovare un senso a quello che stavano vivendo.
Trovare un senso alle cose vuol dire esplorare la realtà attorno a noi, e per fare questa cosa Chesterton pensava fosse necessario cogliere nella realtà un certo fascino, in modo tale da spingere le persone ad avvicinarsi ad essa. L’uomo vivo è un uomo che scopre che il vino è gradevole al palato, ma che quel vino sarà molto più gradevole una volta assaporato in compagnia di qualcuno. La realtà buona si vede meglio nel momento in cui esiste una condivisione che mostra il valore delle cose. Chesterton focalizzava l’attenzione su queste cose, in maniera quasi edonistica; e forse si può dire che egli rappresenti una sorta di “edonista cristiano”, il quale vuole mostrare ciò che di gradevole c’è al mondo facendolo gustare ai sensi e allo spirito. È certo più facile solleticare i sensi piuttosto che spiegare i passaggi della Summa contra Gentiles; ma la genialità di Chesterton sta nel mostrare quanto siano belli i fiori in primavera, facendo appello ai concetti dell’opera di San Tommaso che ho appena citato.
Eredi spirituali di questo messaggio, Tolkien e Lewis hanno proceduto a rafforzare il lavoro di Chesterton, anche se non in maniera diretta, con un loro specifico e notevole apporto letterario. Il vero volto dell’eugenetica si era rivelato a tutto il mondo per ciò che era veramente, nel momento in cui alla fine della seconda guerra mondiale si scoprì che cosa fosse successo all’interno dei campi dei lager nazisti, rivelando la natura inaccettabile dei presunti fini umanitari degli eugenisti. Quel nemico non doveva ripresentarsi se non pochi qualche decennio dopo, ma le sfide per i due scrittori inglesi erano quelle di un mondo che aveva cominciato a trasformarsi e a diventare più fiacco e meno combattivo nei confronti dei pericoli che lo minacciavano.
Il messaggio dei due scrittori era forse più cupo di quello di Chesterton, ma proprio nella sua cupezza; e nella sfida titanica contro le grandi forze che minacciavano di soffocare ciò che era rimasto di bello nell’occidente dopo due guerre mondiali, si distingueva per la sua chiamata al coraggio. Il coraggio è una virtù che Chesterton aveva non a caso definito “una cosa da deboli”, per il fatto che un forte non può per definizione essere coraggioso. I coraggiosi protagonisti delle storie di Tolkien e Lewis, sono dei mezz’uomini e dei ragazzini, i quali vengono trasformati in eroi in virtù dei loro sforzi quotidiani volti al bene e alla verità .
I loro eroi, come quelli delle avventure di Chesterton, non sono superuomini invincibili, ma sono persone comuni, che hanno messo a frutto i loro talenti e che trattano gli altri secondo principi di carità. Il loro diventare eroi deriva dal fatto che sono stati resi forti dalle piccole opere di bene che hanno compiuto; e anche quando vengono sconfitti, il bene che essi hanno compiuto trova in qualche modo la forza di germogliare e portare frutto.
114 Va da sé che l’unico modo per poter attingere a questo tipo di eroismo è quello di trovare una chiave d’interpretazione per la realtà che mostri come questa abbia senso. Questo è un percorso difficile, dal momento che siamo stati martoriati negli ultimi decenni dal peggior tipo di relativismo, e i un diffuso abbandono di ogni responsabilità costruttiva.
Chesterton, e gli autori che a lui si rifanno, sostengono che se vogliamo vivere ed essere felici, dobbiamo cominciare ad apprezzare la realtà a partire dalle cose belle che abbiamo: siano esse una cena accompagnata da una buona conversazione oppure un’amaca per riposare durante una giornata di sole. Solo a partire da questi spunti quotidiani possiamo capire che la realtà è buona, così da vedere che il grande caos che ci appare è in realtà decifrabile. L’invito ad essere coraggiosi è prima di tutto un invito ad essere allegri: qualità che in un mondo che guarda con tanta disperazione all’avvenire è di massima importanza per evitare di perdere noi stessi e la nostra vita.
115 Un dovuto e sentito ringraziamento va a Paola Perin e Raffaello Trevisiol per avermi aiutato a sostenere le spese che hanno portato alla conclusione dei miei studi.
Si ringraziano anche il professor Giuseppe Goisis, per aver fornito un’ampia bibliografia dalla quale partire per definire il percorso filosofico di Chesterton, il professor Paolo Pagani per la cura del presente lavoro e il professor Roberto Buffolo, per i preziosi suggerimenti di stile.
Un ringraziamento va anche al professor Jeremy Cubas, per le delucidazioni sulla filosofia tomistica e la corretta formulazione della stessa; al dott. Kevin Kok, per le correzioni e aggiustamenti alle formulazioni filosofiche riguardo al nichilismo e al relativismo nelle accezioni intese da Chesterton; alla dott.ssa Erika Slachmuylders per gli approfondimenti circa gli aspetti psicologici e neurologici della ricerca di senso nella vita negli studi di Viktor Frankl e Jordan B. Peterson.
Si ringrazia infine Andrea Buffolo, per l’aiuto nel reperire buona parte dei testi consultati in questa tesi e nella stampa della stessa.