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CAPITOLO QUARTO

4.2 Rompere l’incantesimo della pazzia

La pazzia nella società moderna viene trattata come qualcosa da rompere, nello stesso modo in cui gli sciamani rompevano un incantesimo che impediva ad una persona di vivere la sua vita in maniera sana. Il pazzo è sì una persona che ragiona, che pone la logica al di sopra di ogni altra cosa; ma, invece di

69 G. K. Chesterton, Ortodossia, pag. 24. 70

Ivi.

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38 combatterlo punto per punto sulla base del raziocinio – ambito nel quale egli troverà sempre delle scappatoie – ; bisognerebbe provare a convincerlo della sua irragionevolezza sulla base della percezione estetica.

La tentazione di ridurre il reale in schemi concettuali è costantemente presente nel pensiero filosofico. Questa tentazione, seppur sostenuta da una logica ferrea, è una prigione estetica in cui un autore peraltro geniale come Emanuele Severino si è a sua volta rinchiuso.

La filosofia di Severino sembra dare spiegazione totale a ogni fenomeno, ma la soluzione che offre lascia in realtà aperta ogni questione. A che cosa si riduce un mondo che si risolve negli infiniti cerchi dell’apparire? Dove sì il foglio di carta brucia, ma non se ne va, perché viene conservato integro nell’apparire complessivo delle cose?

Il mondo rinchiuso in Essenza del Nichilismo, è un mondo troppo piccolo, di fatto rattrappito. Chi vorrebbe stare vicino ad una persona mai attraversata da un dubbio? Sembra che con il suo lavoro Severino abbia in qualche modo voluto eliminare quel senso di inferiorità che provano gli uomini di fronte alle sconfitte o alla vastità della vita; ma per fare questo ha chiuso fuori dal suo orizzonte la vita stessa. Nel tentativo di salvare l’uomo dalla paura della morte, che secondo lui è stata sfruttata dalla religione o dalle filosofie nella loro comprensione inautentica dell’essere, ha creato un mondo dove la morte o il difetto non esistono, perché è tutto salvo nell’eternità dell’essere.

Re Lear, nella omonima tragedia di Shakespeare dirà: «Andiamo, ragazzo mio. Come va, ragazzo mio? Hai Freddo? Anch’io ho freddo. - Dov’è questa paglia, amico mio? L’arte del bisogno è straordinaria: essa ha la virtù di rendere preziose, per noi, le cose più vili. Mio povero matto, povero ragazzo mio, c’è ancora un pezzo del mio cuore che si affligge per te»72. La sofferenza ammaestra Re Lear, lo riporta nel mondo degli uomini e gli mostra la grandezza della carità, dell’umiltà e della pazienza, attraverso il suo soffrire. La compassione, nel suo senso compiuto di sofferenza condivisa, ci ricorda appunto che la storia di ogni persona è in fondo la storia di una sconfitta: «il dolore ce ne strappa [alla commedia della vita] e ci rivela che siamo peccatori, che dobbiamo amarci gli uni gli altri, che non dobbiamo temere la sofferenza ma abbracciarla, farla nostra, che dobbiamo così espiare»73.

La storia della sconfitta dell’uomo è in fondo come la storia della sconfitta di Cristo. Accettare la fallibilità del nostro pensiero e mostrare quanto il mondo rinchiuso in una sola mente sia piccolo, rispetto al vasto mondo che ci circonda, è il primo passo per rompere questo incantesimo.

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William Shakespeare, Re Lear, a. III, sc. II.

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39 4.3. In difesa dell’uomo libero

Una filosofia che imponga l’inesistenza di qualsiasi mutamento è una filosofia che schiavizza l’uomo. Qualche filosofo è assolutamente libero di non credere nella libertà del volere, ma è «cosa assai grave ed importante che egli non sia libero di lodare, di bestemmiare, di ringraziare, di giustificare, di stimolare, di punire, di resistere alle tentazioni, di eccitare le folle, di far propositi per il nuovo anno, di perdonare ai peccatori, di biasimare i tiranni, o anche di dire “grazie” prendendo la mostarda»74. La salvezza dell’uomo, in Chesterton, è sempre stata nel suo ammettere il mistero e nell’ammetterne la possibilità.

I cerchi dell’apparire hanno certo il loro fascino di perfezione, ma seppur infiniti racchiudono nella loro figura un senso che racchiude uno spazio finito. Non se ne esce mai. La forza centrifuga dell’ammissione che nella vita c’è un mistero, e che la sofferenza e la debolezza fanno da vero collante a tutte le esperienze umane, riesce invece a darci la spinta che ci porta ad essere delle persone più umili e attente ai bisogni e alla sofferenza degli altri.

Coltivare la verità per la verità, sarebbe infatti come coltivare una verità senza pietà. Questa è l’immagine che Chesterton propone per le “virtù impazzite” che si svincolano l’una dall’altra. Una verità che è senza pietà, si trasforma in una verità superba, che allontana l’umiltà e il senso della sorpresa e della meraviglia che essa porta con sé. Un uomo che diventi un gigante, rimpicciolisce il suo mondo attraverso la sua nuova prospettiva, rendendo tutto quanto piccolo. Un uomo umile, invece, costruisce le più mirabolanti opere di fantasia e di architettura, proprio perché conserva l’umiltà di fronte alla grandiosità di un cielo stellato. Questa virtù era quella che portava l’uomo a non fermarsi mai nel coltivare le sue attività, ma è quella che nella sua versione moderna e slegata dalla realtà, impedisce ogni forma di pensiero. E perché l’umiltà moderna impedisce ogni forma di pensiero? Perché non sostiene più una verità oggettiva al di fuori dell’uomo, tanto che «corriamo il rischio di vedere dei filosofi che dubitano della legge di gravità come di una loro fantasia»75.

Come si difende quindi la libertà dell’uomo? Secondo Chesterton bisogna difendere la ragione dalla sua possibilità di autodistruggersi e renderci schiavi di un mondo rattrappito nel puro astrattismo. Immobilizzare il pensiero, porta l’uomo ai paradossi che aveva individuato il nostro scrittore inglese: «il materialismo, come l’idealismo, per cui tutto è illusione personale, producono alcuni effetti identici: se l’anima è meccanica, il pensiero non può avere una sua attività, e se il mondo è irreale, non può essere

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G. K. Chesterton, Ortodossia, pag. 36.

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40 oggetto di pensiero»76. Il mondo non può essere pensato, se quello che i nostri sensi ci fanno esperire non è autentico.

Per mantenere la sua libertà, l’uomo deve conservare l’idea della sua limitatezza e, insieme, della sua debolezza. Un po’ come la cornice di un dipinto preraffaelita77 conserva il suo limite, che ci lascia un senso di curiosità per il mondo nel quale il quadro ci immerge, ma questo rimane alla nostra immaginazione. Conservare l’idea della propria limitatezza è importante per capire che non possiamo mai sperare di conoscere appieno tutte le cose che esistono nel mondo. La limitatezza serve anche per aiutarci a capire che possiamo trarre il meglio dalla nostra vita, scegliendo di dedicarci ad una scelta – sia essa professionale o di vita –, invece che dedicarci a tutte le possibilità che ci passano davanti.

Mi vengono alla mente, per contrasto, le vicende del giovane Amory Blaine in Di qua dal Paradiso, che citerò perché nel romanzo di Fitzgerald il protagonista legge Chesterton e presto se ne disinnamora. Egli si perde nella sua personale visione estetica della realtà e non riesce più a ritrovarsi, tanto che finirà invischiato nei più sordidi affari della società proibizionista americana. Egli legge Chesterton, fra i vari autori, se ne innamora e lo ammira per le sue battute sagaci e lo sguardo penetrante; ma di per sé non è in grado di fare niente per combattere la sua apatia nei confronti della vita che lo circonda. Al contrario di Humphrey Pump, oste della “Vecchia Nave”, – l’osteria nel romanzo di Chesterton intitolato l’Osteria Volante –, che molla tutto per seguire il capitano irlandese nel civile intento di restaurare il diritto al consumare birra e rum in un’Inghilterra occupata dai turchi.

Difendere l’uomo vuol dire non solo conservare l’umiltà e accogliere la sofferenza, ma vuol dire anche mantenersi in un assetto di guerra, pronti ad affrontare i misteri del mondo e le sue crudezze. Non si può infatti sperare di mantenere l’uomo libero in una pace immobile: bisogna che una persona si tempri anche nel corpo con il lavoro e la fatica richiesti da chi vuole sostenere i propri ideali, o semplicemente i propri progetti di vita.