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Le ragioni della scelta “autonomista” tra uniformità ed

NOZIONE CONVENZIONALE DI MATERIA PENALE E PRINCIPI DI DIRITTO INTERTEMPORALE

1. La nozione sostanziale di “materia penale” quale presupposto delle garanzie convenzionali.

1.1. Le ragioni della scelta “autonomista” tra uniformità ed

effettività della tutela.

Il problema dell’identificazione dei contenuti della “materia penale” è questione sicuramente non nuova nella riflessione dottrinale

186 Il riferimento è alla nozione di “paradigma” elaborata da T. K

UHN, La struttura

delle rivoluzioni scientifiche, Chicago, 1962, trad. it., Torino, 1984, pp. 168 ss. secondo cui esso rappresenta uno schema di conduzione del discorso risultante dalla correlazione tra un problema e uno schema problematico. L’assunto di base è che ogni elaborazione teorica concernente una forma o un oggetto di conoscenza non può prescindere da riferimenti o problemi ai quali la riflessione cerca di offrire risposte, inserendo l’opera intellettuale all’interno di specifici paradigmi e sfondi problematici. Il medesimo principio è poi stato rielaborato da K. POPPER, La conoscenza oggettiva, un punto di vista evoluzionistico, Oxford, 1972, trad. it., Roma, 1975, pp. 266 ss. Il rilievo del “contesto paradigmatico” nella riflessione penalistica è analizzato da G. LICCI, Modelli nel diritto penale. Filogenesi del

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e filosofica giuspenalistica187, ciò che invece appare del tutto inedita è

la prospettiva dalla quale viene affrontato il problema.

La nozione di materia penale individuata dalla Corte di Strasburgo, per quanto peculiare nei contenuti e nelle direttrici teleologiche, richiede comunque di essere raffrontata con quella propria del nostro diritto interno, di modo da metterne in luce i punti di contatto e gli elementi di novità maggiormente significativi.

Il discorso sulla definizione del diritto penale è stato affrontato tradizionalmente dalla nostra dottrina avendo riguardo ai caratteri distintivi della pena ed alle funzioni ad essa ascrivibili, nonché ai criteri a cui il legislatore deve attenersi nella configurazione delle fattispecie penali e alle condizioni che legittimano l’opzione criminalizzatrice188. Non è difatti un caso che nella manualistica più autorevole la ricostruzione del concetto di diritto penale non prescinde mai da un’adeguata trattazione del concetto di “bene giuridico”, categoria che risponde proprio all’esigenza di contenere ed indirizzare le scelte di

187 Celebre la proposta elaborata agli inizi del ‘900 da J. GOLDSCHMIDT, Das Verwaltungsstrafrecht, Berlino, 1902, pp. 477 ss. di confinare il diritto penale all’area del moralmente rilevante (Wertrelevant), e così distinguerlo dal diritto amministrativo, corrispondente all’area dell’eticamente indifferente (Wertneutral). La tesi ha avuto qualche eco a metà del secolo scorso, ma ha via via perso consensi nella seconda metà del Novecento, fino ad essere quasi totalmente abbandonata dalla dottrina contemporanea. È evidente che, sebbene la maggioranza dei reati sono costituiti da comportamenti riprovevoli, questo è un carattere eventuale e non essenziale rispetto ad una nozione tecnica di materia penale.

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incriminazione in ragione degli effetti pregiudizievoli prodotti dal ricorso allo ius terribile189.

La Corte di Strasburgo affronta invece la questione interrogandosi prevalentemente sull’operatività di determinate garanzie a fronte dell’intervento dello Stato e, pertanto, pone in secondo piano le ragioni del punire, concentrandosi anche sulla condotta proibita e sull’interesse leso ma, soprattutto, sui caratteri della risposta sanzionatoria190. Ciò dipende dal fatto che l’esigenza principale

perseguita dai giudici di Strasburgo non è evidentemente quella di contenere le scelte di incriminazione191, ma di assicurare l’operatività

189 Sulle diverse funzioni (politico-garantista, sistematica, interpretativa e dogmatica) che assume oggi la categoria del “bene giuridico” si rinvia all’ampia trattazione di G. DE VERO, Corso, cit., pp. 127 ss. Sul passaggio dal “diritto soggettivo” al “bene giuridico” v. F. ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di

bene giuridico, Milano, 1983, pp. 79 ss.; G. FIANDACA, Il bene giuridico come

problema teorico e come criterio di politica criminale, in G. Marinucci-E. Dolcini (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, pp. 157 ss.; E. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pp. 59 ss. Sulla teoria del bene giuridico e i giudizi di meritevolezza e necessità di pena nell’ordinamento sovranazionale v. R. SICURELLA, Il Corpus Juris come modello per la definizione di un sistema penale europeo, in Il Corpus Juris 2000. Un modello di tutela penale dei beni giuridici comunitari, G. Grasso-R. Sicurella (a cura di), Milano, 2003, pp. 72 ss.

190 Analogamente F. MAZZACUVA, La materia, cit., pp. 1889 ss.

191 La Convenzione europea, invero, in via più o meno diretta, individua alcuni limiti di intervento della sanzione penale e si occupa anche delle sue modalità di inflizione ed esecuzione, posto che questa, per sua stessa natura, interferisce con il godimento di quasi tutti i diritti fondamentali da essa tutelati. Si pensi al limite generale (che riguarda anche l’applicazione della pena) rappresentato dal divieto di discriminazione in relazione al sesso, alla razza, al colore, alla lingua, alla religione etc. (art. 14 CEDU e all'art. 1 del XII Protocollo addizionale) o al divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, anch’esso riguardante la fase esecutiva della pena. In argomento si rimanda alle più ampie riflessioni di F. VIGANÒ, Diritto

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di determinate garanzie ogniqualvolta un qualunque soggetto sia colpito da sanzioni considerate particolarmente afflittive. Potrebbe in proposito affermarsi, anche se con qualche forzatura semplificatoria, che la definizione della materia penale, nella giurisprudenza di Strasburgo, è prevalentemente definizione della “sanzione penale”.

Tale diversità di approccio, tuttavia, non va oltremodo enfatizzata, posto che anche nella riflessione della dottrina italiana la sanzione riveste certamente un ruolo essenziale ed è comunque riconosciuto l’intimo legame che deve sussistere tra l’entità della stessa e le garanzie in favore di chi la subisce192.

Chiarito ciò, possono adesso analizzarsi i motivi che hanno portato la Corte di Strasburgo ad elaborare una nozione autonoma di “materia penale” e a distaccarsi dalle qualificazioni nazionali. Solitamente, la risposta più immediata – ma non per questo necessariamente errata – che viene data a tale quesito è che solo una nozione autonoma ed unitaria di materia penale consentirebbe di superare le differenze ordinamentali che separano i 47 Paesi membri

penale sostanziale e convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 42.

192 Cfr. F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, 1973, pp. 45 ss., che esclude il rango costituzionale delle garanzie penalistiche nel settore degli illeciti amministrativi in ragione del fatto che la sanzione amministrativa non ha carattere (anche solo potenzialmente) detentivo.

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del Consiglio d'Europa, garantendo così l’uniformità degli obblighi convenzionali193. A tal riguardo, si sottolinea opportunamente come l’eventuale recepimento di categorie giuridiche proprie degli ordinamenti interni tradirebbe la «vocazione universale» della Carta, la cui concreta applicazione, è bene ricordarlo, è sottratta alla volontà discrezionale degli Stati firmatari194.

Se quanto detto non è in alcun modo revocabile in dubbio, a ben vedere, tuttavia, pare esservi una motivazione più recondita alla base della scelta autonomista che può ricondursi più direttamente all’obiettivo di assicurare il rispetto di determinate garanzie ogni qual volta entrano in gioco diritti fondamentali della persona. Proprio in ragione del perseguimento di tale obiettivo, si rende necessario porre in discussione ogni determinazione dell’autorità statuale che può incidere su queste garanzie, a partire dall’etichetta con cui viene qualificato un dato istituto, perché da essa può dipendere l’applicazione di un diverso statuto normativo.

L’approccio “autonomista”, in altri termini, non risponde tanto all’obiettivo di consentire l’applicazione uniforme delle norme CEDU,

193 Cfr. V. MANES, La lunga marcia della Convezione europea, cit., pp. 38 ss., il quale considera il concetto di “materia penale” quale “volano” dell'armonizzazione delle garanzie negli Stati firmatati della CEDU.

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quanto piuttosto alla necessità di evitare che le qualificazioni operate nel diritto interno possano rivelarsi elusive delle garanzie convenzionali. Se la Corte si appiattisse sulle scelte dei legislatori interni, quest’ultimi potrebbero agevolmente aggirare l’applicazione dell’intreccio garantistico previsto dalla Costituzione e dalla CEDU semplicemente qualificando come “non penali” anche delle misure sostanzialmente “punitive”. Con l‘adozione di un concetto autonomo di materia penale, invece, anche in presenza di una sanzione definita di natura «amministrativa» dal legislatore nazionale, non si determina automaticamente lo “smarrimento” delle garanzie procedurali che la Convenzione vuole annesse alla “materia penale”, perché comunque si rende necessaria una seconda verifica operata alla luce dei criteri elaborati a Strasburgo.

Alla base della nozione convenzionale di “materia penale”, pertanto, accanto alle ragioni legate all’uniformità della tutela, ve ne sono altre - e ben più pregnanti – collegate all’esigenza di garantire l’effettività della stessa. A conferma di ciò, basti osservare che anche se vi fosse un solo ordinamento di riferimento - e dunque non vi fossero problemi di “uniformità” - sorgerebbe comunque la necessità di non appiattirsi sulla qualificazione “formale” data dal legislatore nazionale,

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perché si porrebbe comunque il problema di neutralizzare gli effetti di un’eventuale “frode delle etichette”.

Tale chiave di lettura risulta avallata anche dalla stessa Corte EDU nel noto “caso Engel”, ove si è affermato che «se gli Stati contraenti potessero qualificare disciplinaire piuttosto che pénale un illecito […] l'operatività delle disposizioni fondamentali degli artt. 6 e 7 si troverebbe subordinata alla loro volontà sovrana»195.

Può dunque conclusivamente affermarsi che la nozione autonoma di “materia penale” consente di ricondurre ad unità le diverse impostazioni di politica criminale seguite dai vari ordinamenti nazionali e, al contempo, garantisce all’individuo una protezione completa ed effettiva di fronte ad ogni manifestazione dell’esercizio dello ius

puniendi da parte delle autorità statali.

Si consideri, nondimeno, che la lettura sostanzialista impiegata dalla Corte di Strasburgo per l’individuazione della natura della sanzione e delle relative garanzie è stata recepita sia dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea196 che dalla nostra Corte

costituzionale197, la quale ha offerto un’interpretazione estensiva

195 Cfr. Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, ric. n. 5100/71, § 81.

196 Il riferimento è alle sentenze CGUE, 5 giugno 2012, C-489/10, Bonda e del 26 febbraio 2013, Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson, cit.

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dell’art. 25 cpv. Cost., richiamando espressamente la nozione convenzionale di materia penale. La Consulta, difatti, mutando il proprio precedente indirizzo, ha di recente affermato il principio secondo cui «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto»198. Con la conseguenza che, pure in ambito nazionale, deve ormai ritenersi esistente uno statuto di garanzie uniforme per tutte le misure che, alla luce di determinati indici sostanziali e a prescindere dal

nomen iuris, presentino carattere afflittivo. Tale statuto è, dunque,

quello proprio delle sanzioni penali, e vi rientrano pertanto sia il divieto di retroattività sfavorevole che la retroattività della lex mitior.

2. L’evoluzione del concetto di matière pénale nella