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CAPITOLO II. UN TENTATIVO DI ASSIOMATIZZAZIONE DELLA TEOLOGIA: LE R EGULAE CAELESTIS

4. Le regole di teologia morale (LXVIII-XCIX)

La volontà divina garantisce che tutte le cose siano buone in virtù del loro stesso essere (regola LXVIII: «Omnia, in quantum sunt, bona sunt»), come spiega il maestro di Lilla nel suo commento a tale assioma, riprendendo sinteticamente la raffinata riflessione speculativa del De hebdomadibus. Questa regola segna il passaggio dagli assiomi di teologia trinitaria a quelli di teologia morale, cui si riferiscono le regole successive fino alla XCIX. La maxima LXIX recita infatti: «Cuius finis bonus est, ipsum quoque bonum est». La bontà del fine di una determinata res rende pertanto evidente la bontà della medesima realtà, nella misura in cui Dio è la causa finale cui tende tutto ciò che esiste in senso ultimo e definitivo. Persino il male viene ricompreso in tale ottica e consentito soltanto in quanto Dio riesce a trarre da esso un bene maggiore. Tuttavia non vi possono essere fini diversi della stessa azione (regola LXX: «Unius actionis diversi fines esse non possunt»), ma ogni atto, buono o malvagio che sia, è comunque rivolto a un solo fine. La moralità di un comportamento non dipende però esclusivamente dalla bontà del fine perseguito, ma anche dalla volontarietà di ogni merito, che è tale o per la volontà da cui nasce o in base alla volontà con cui viene realizzato (regola LXXI: «Omne meritum est voluntarium aut voluntate originis aut ab origine voluntatis»), la quale certamente influenza e determina l’azione nel suo svolgimento. Per quanto ogni merito possa prescindere dalla sola volontà (regola LXXII: «Penes voluntatem est omne meritum»), sembra che nelle buone azioni la volontà positiva sia merito a se stessa indipendentemente dalla sua attuazione pratica, poiché «non est maior caritas in inplendo quam volendo», mentre il portare a compimento un’intenzione malvagia implica sempre una trasgressione più grave rispetto alla perversione della sola volontà. Ogni peccato viene commesso o perché si fa il male che non si dovrebbe compiere o perché si omette il bene che bisognerebbe invece

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realizzare (regola LXXIII: «Omne peccatum fit aut committendo quod non oportet aut omittendo quod oportet»). Di conseguenza se da un lato fuggire il male elude la pena e non ottiene alcun merito, dall’altro agire bene comporta il premio a colui che lo compie (regola LXXIV: «Non facere vitat poenam, facere meretur coronam»). Ogni atto deve dunque avere Dio come finis debitus e deve avere un officium adeguato, ossia considerare i mezzi adatti per il raggiungimento di tale fine, per produrre un’actio formata. Al contrario un’azione privata dei mezzi opportuni risulta informe, mentre un comportamento privato del fine debito risulta deforme (regola LXXV: «Omnis actio informis vel deformis formata esse non potest nec e converso. Sic nec magis nec minus potest esse informis vel deformis nec magis nec minus formata»). L’assioma LXXVI («Omne peccatum est poena aut passionis affectu aut consequentis effectu») stabilisce che a ogni peccato segua la rispettiva pena o a causa dell’affectus passionis, ossia per l’affezione di una passione disordinata, come nel caso dell’invidia e dell’odio, oppure per l’effectus consequentis, come nel caso dell’omicidio che, pur non essendo una passione in senso stretto, comporta comunque l’accecamento della ragione. Alla multiforme valenza della pena è dedicato l’assioma LXXVII («Omnis poena aut est in bono conservans aut bonum probans aut malum purgans aut ad maius bonum invitans aut in malo indurans aut sola acredine crucians aut peccato commaculans») che evidenzia come essa sia utile tanto a custodire il bene o a metterlo alla prova, quanto a purificare dal male o a consentire l’accesso a un bene più grande, così come può anche sortire l’effetto opposto, rafforzando nel male, punendo severamente per la propria durezza o accrescendo il peccato stesso. Con la regola LXXVIII («Omnis motus concupiscibilitatis ad illecebras est vitium ex peccato. Omnis motus concupiscentiae in illecebris est peccatum ex vitio») il maestro di Lilla ritorna sulle dinamiche che conducono l’uomo al peccato, distinguendo il

tentazione, dal motus concupiscientiae, che è invece la tendenza successiva ad assecondare le suggestioni prodotte dalla tentazione. Per quanto il peccato originale indebolisca la volontà, l’uomo mantiene ugualmente la propria dispositio al bene che suggerisce e conduce a perfezione ogni merito derivante da una buona azione (regola LXXIX: «Omnis voluntas affectionis est ad meritum faciens. Voluntas effectionis est meritum perficiens»).

Per il riconoscimento di due azioni come parimenti malvagie bisogna allora considerare non l’uguaglianza delle affezioni sul piano del piacere, ma la parità degli effetti generati dalle diverse volontà che le rende perfettamente equipollenti e quindi degne della medesima pena (regola LXXX: «Non paritas affectus in voluptate sed paritas affectus in voluntate paritatem parit in crimine»). Mediante l’assioma LXXXI («Omne peccatum quo poenitentiae poena remittitur poenitentia poenae admittitur non essentia actus sed aequipollentia reatus») Alano nota inoltre come il pentirsi di essersi pentiti, allorquando si presenti una tentazione nella quale si è già caduti in passato, determini spesso un’insorgenza dello stesso peccato. Infatti ogni merito dipende nella pena dall’agire umano, nella gloria dall’autorità divina: la creatura razionale è capace più di compiere il male che il bene, mentre Dio soltanto è l’autore di opere buone, che l’uomo può realizzare esclusivamente come esecutore (regola LXXXII: «Omne meritum poenae penes hominem est actione. Omne meritum gloriae super hominem auctoritate»). Per questo motivo la gloria del merito appartiene più al Creatore, che con la sua grazia corrobora la possibilità della creatura di compiere il bene, che non all’uomo. La volontà di poter il bene viene donata alla creatura come grazia nello Spirito Santo, mentre quella di poter volere proviene dallo Spirito, ma come frutto esteriore alla stessa terza persona divina (regola LXXXIII: «Homo gratia a Spiritu habet posse quo velit. Gratia in Spiritu habet velle quo possit»). Il libero arbitrio dell’uomo, in forza della verità della propria essenza, è sospinto pertanto a fare il male a causa delle infirmitates

del corpo e dell’anima, delle suggestioni del diavolo e dei piaceri mondani. Essendo apparentemente più libera di compiere il male che il bene, in quanto solo la grazia divina gli consente di realizzare buone azioni, la creatura razionale si assoggetta così alle seduzioni della carne, divenendo schiava delle passioni, laddove la vera libertà consiste piuttosto nell’assecondare la grazia infusa dallo Spirito (regola LXXXIV: «Omne hominis arbitrium magis liberum est ad malum serviendo, minus liberum ad bonum liberando ut maior libertas sit servitutis, minor libertatis»). Di qui come ogni azione meritoria può essere incrementata o attenuarsi fino a cessare, a seconda che l’uomo perseveri nel bene o smetta di compierlo, così allo stesso modo ogni atto peccaminoso può accrescersi se la creatura persiste nel male, oppure esser rimesso o cancellato da un sincero e fermo pentimento (regola LXXXV: «Sicut omne bonum meritorium in homine aut progrediendo proficit aut tependo languescit aut cessando deficit sic omne malum meritorium in homine aut continuando augetur aut attritione remittitur aut contritione dimittitur»). Nel commento a questo assioma il maestro di Lilla sottolinea l’esigenza di distaccarsi progressivamente anche dal peccato veniale al fine di tendere a una carità sempre più piena e perfetta. Per quanto un uomo giusto, mediante le sue opere buone, possa favorire e render degno della giustificazione divina un ingiusto, tuttavia non può ottenere per lui la vita eterna, la cui concessione rimane comunque una prerogativa esclusiva del Creatore (regola LXXXVI: «Omnis iustus alii mereri potest meritum praemii non praemium meriti»). È necessaria una duplice grazia operante sull’arbitrio dell’uomo perché egli sia veramente libero di realizzare il bene: una prima gratia, che crea le condizioni di possibilità per il merito, è la remissione del peccato originale, che viene concessa da Dio senza che la libertà umana cooperi al suo conseguimento, e una successiva grazia che è nel merito, la quale suscita il pentimento e concede quelle virtù necessarie affinché il libero arbitrio possa scegliere e compiere il bene (regola LXXXVII: «Gratia ad meritum fit in nobis

sine nobis, libero arbitrio comitante, non cooperante. Gratia vero in merito fit in homine per hominem, arbitrio libero faciente ad hoc, non sufficiente»). Nell’assioma LXXXVIII («Omnes virtutes simul et similiter dantur homini a creatione ut sint per naturam, ex recreatione vero infunduntur homini ut sint virtutes per gratiam, pariter quidem habitu sed dispariter usu») Alano specifica che ogni virtù «potentia est rationalis creaturae qua rationalis creatura nata est apta ad hoc vel illud faciendum». La virtus in quanto tale appartiene al genere della qualità come dispositio o habitus. L’uomo possiede tali virtù per natura, quali connotati costitutivi della sua condizione umana; per disposizione e per uso, quali potenzialità in grado di combattere i vizi e di orientare la libertà al perseguimento del vero bene. Vizi e virtù sono pertanto diametralmente opposti come affermazioni e negazioni, in quanto abbandonarsi ai vizi significa fare il male che non bisognerebbe compiere, ossia l’esatto contrario di un comportamento virtuoso (regola LXXXIX: «Virtus et vitium sunt opposita mediate non medii positione sed utriusque abnegatione»). Il libero arbitrio è dunque l’occasio

meriti, la virtù è la causa formale del merito, la grazia divina ne è la causa efficiente, mentre

l’azione virtuosa compiuta vista dall’esterno è quasi una causa strumentale del merito stesso (regola XC: «Meritum boni consistit penes liberum arbitrium occasionaliter, penes virtutem formaliter, penes motum virtutis essentialiter, penes gratiam efficaciter, penes opus instrumentaliter»). Essendo ciò per cui un’azione può esser considerata buona, la carità è la prima virtù nell’ordine delle cause e «mater omnium virtutum», nella misura in cui imprime la sua forma a tutte le virtù e contribuisce a manifestarle come tali. La caritas è anche il premio remunerativo dell’attuazione delle virtù ed è superiore alle altre per la sua durata, in quanto non avrà mai fine. Tra le virtù essa è la più universale, in quanto ogni atto positivo ha in essa la sua genesi e il suo compimento, avendo come principio e fine ultimo l’amore di Dio (regola XCI: «Caritas inter virtutes est causa prior, diuturnitate maior, mater informatione, forma

apparitione, finis remuneratione, universalior opere»). Eppure la carità viene esercitata secondo forme differenti. In alcuni viene praticata con scarsa costanza, per cui è assimilabile sia a un ruscello talvolta ricolmo d’acqua, talvolta disseccato, sia al fieno ora rigoglioso, ora marcito; in altri invece diviene una disposizione abituale che prepara alla vita senza fine, come una fonte perennemente zampillante (regola XCII: «Caritas in aliquo homine est ut rivus et quasi fenalis cui communicat alienus. In aliquo vero est ut fons et finalis qua non participat nisi domesticus»). L’assioma XCIII («Ex fide dicitur iustificari homo non quod ex ea sit iustificatio sed quia procedit ex eius articulo») scaturisce dall’interpretazione esegetica che Alano fornisce del versetto del profeta Abacuc, in cui si afferma che il giusto vive come tale sulla base della giustificazione che riceve dalla fede. In realtà, come il maestro di Lilla precisa opportunamente, la prima giustificazione non deriva dall’adesione dell’uomo alla fede, quanto piuttosto da un articulus fidei, che è la grazia divina, per effetto della quale il Creatore concede preventivamente alla sua creatura la possibilità della salvezza, a prescindere dal merito personale. In relazione al merito come frutto di una buona azione, egli sottolinea nella regola XCIV («Nullum opus in caritate factum deformatur ad meritum poenae aeternae sed opus ex caritate factum informatur ad meritum gloriae») che ogni atto che proceda ex

caritate sia degno della vita eterna, laddove non può dirsi ugualmente per le azioni realizzate in caritate, come i peccati veniali compiuti mentre l’uomo è ancora in stato di grazia, ma

determinati evidentemente da un’altra causa formale, ossia da un principio estraneo alla carità stessa. Con l’assioma XCV («Sicut in homine consideratur perfectio ratione conparationis, conprehensionis voti facti sufficientiae conscientiae ita in caritate consideratur perfectio signi ratione inpedimenti exclusione continuatione radicatione fervoris intensione») Alano evidenzia le modalità che rendono perfetta la carità, quali l’esser segno visibile dell’amore divino per ogni creatura, la capacità di superare gli ostacoli, la continuità, il radicamento e

l’intensità del fervore spirituale, che aumenta proporzionalmente alla costanza nella pratica di tale virtù. Rientra nell’ambito della carità anche il santo timore di Dio, considerato sia come momento iniziale della fede in sé, nella misura in cui sospinge la volontà umana nel bene per scongiurare la pena eterna, sia come termine finale della fede, nella misura in cui conduce l’anima all’unione definitiva con lo Sposo, in forza della paura di rimanerne esclusa per sempre (regola XCVI: «Omnis timor donus aut est initialis terminus fidei intra sumptus vel extra sumptus aut finalis terminus fidei intra sumptus vel extra sumptus»). Il maestro di Lilla sostiene nella regola XCVII («Sicut caro dicitur obedire rationi quando non agit directe contra rationem ita ratio dicitur consentire carni quando non reprimit carnem») che la ratio consenta di frenare le passioni carnali, limitandole e ordinandole verso i propri fini, anche se talvolta preferisce abdicare all’impeto dei moti istintivi senza trattenerli entro i propri confini. Allo stesso modo la carità della creatura razionale può suscitare l’amore per Dio tanto per i benefici che attende dalla sua misericordia, quanto semplicemente per fruire in eterno dell’amore del Creatore, perché è buono in sé (regola XCVIII: «Caritas, quae ad homine habetur facit aliquid diligi aut quia habet aut ut habeat aut ut habeatur»). La regola XCIX («Sicut homo per caritatem a thesi suae naturae in apotheosim gratiae ascendens est deificatus ita Deus per caritatem ab apotheosi suae naturae in hypothesim nostrae miseriae descendens est humanatus») rielabora e sintetizza quanto già affermato da Alano nella Summa Quoniam

homines relativamente alla scala gerarchica delle facoltà conoscitive umane. Lo schema

gnoseologico è pressoché identico, se non fosse per una lieve sfumatura semantica rispetto all’estasi superiore: laddove nella Summa la facoltà più alta viene definita intelligentia, nelle

Regulae viene denominata intellectualitas, ma la sostanza della facoltà intelligibile per

eccellenza in questione non muta. Tuttavia è significativo rilevare che se nella Summa alle diverse facoltà venivano fatte corrispondere le differenti parti del sapere filosofico e

teologico, nelle Regulae è del tutto assente il riferimento a tale corrispettivo epistemologico. La thesis costituisce dunque l’attività specifica della creatura razionale che rende uomo l’uomo, configurandosi nella sua dimensione teoretica come facoltà in grado di comprendere le cause formali delle realtà sensibili e nella sua dimensione etica come capacità di distinguere il bene dal male; l’extasis superiore (apotheosis) comprende come suoi gradi differenti l’intellectus, che eleva alla contemplazione delle realtà celesti, e l’intellectualitas, che assimila la natura umana all’essenza divina del Creatore, mentre l’extasis inferiore (ipothesis) è il sensus che, mediante la degenerazione nei vizi, rende la condizione umana simile a quella degli animali37.