Nel quinto trattato Alano approfondisce il tema del peccato dell’uomo dalle sue radici alle sue conseguenze. Innanzitutto egli definisce il peccato come «actus debito fine privatus» e tra le azioni malvagie distingue gli atti esteriori, quali per esempio l’omicidio e la fornicazione, dagli atti interiori o actus mentis, quali l’invidia e la superbia201. L’uomo commette il peccato allorquando non orienta a Dio le proprie azioni, dal momento che il fine ultimo di ogni suo atto dovrebbe essere sempre il Creatore:
Debitus autem finis omnis actionis est Deus, cum enim Deus sit alpha et omega, id est principium et finis rerum, omnis actio ad eum dirigi debet tamquam ad certum finem. Cum ergo contrarius finis constituitur, debito fine privatur et ita deformatur, et fit mala, et ita peccatum202.
Riallacciandosi alla riflessione speculativa altomedievale, in specie agostiniana e boeziana, sul problema del male, il filosofo di Lilla sostiene che esso non ha alcuna consistenza ontologica: la malitia non è sostanza ma corruptio boni, cioè una forma di privatio debiti
finis203. Ecco perché nell’uomo «quod est peccatum non subsistit» se non come perversione di quella tensione al bene cui la creatura è ordinata204. Se tutto ciò che esiste è buono perché creato da Dio, allora anche le azioni umane «in quantum sunt, bona sunt», purché esse restino
201 Cf. ibid., tract. V, 187, p. 327. Sulla trattazione del peccato dell’uomo nella SQH, cf. C.V
ASOLI,Temi e motivi della riflessione morale di Alano di Lilla cit. (alla nota 174), in partic. pp. 241-255.
202 SQH, II, tract. V, 187, p. 327. 203
Tra le fonti citate da Alano per mostrare l’inconsistenza ontologica del male rientrano AGOSTINO, Contra
Faustum manichaeum, 1. XXII, 27 [PL 42, 418]; PSEUDO-DIONIGI,De divinis nomibus [PL 122, 1111C-1170B],
1145B: «Privatio igitur est malum et defectus et infirmitas».
orientate al loro fine naturale. Data la sua natura accidentale e non sostanziale il male non può provenire da Dio, anche se il creatore permette che abbiano realtà tutte le azioni che scaturiscono dalla volontà dell’uomo, compresi gli atti peccaminosi: «Homo ergo peccatum facit esse peccatum; Deus vero facit ut actus ille qui est peccatum, sit»205. In questo modo se da una parte sembra che anche la natura divina cooperi al peccato, dall’altra Alano osserva acutamente come ogni azione sia «opus hominis secundum peccatum, opus Dei secundum actum» allorquando la forma che Dio concede all’azione umana viene deformata dalla volontà perversa della creatura206.
Rispetto alla natura del diavolo Alano non ammette che essa fosse originariamente e intrinsecamente malvagia, poiché è consapevole che sostenere questa tesi significherebbe dare credito all’idea manichea. L’esistenza del diavolo non contraddice l’inconsistenza ontologica del male, poiché il diavolo non può essere considerato subiectum malitiae, dal momento che la sua malvagità non gli consente di essere propriamente una res in senso stretto. Perciò il filosofo di Lilla conclude che «diabolus est bonum, sed non est bonus; est malus sed non est malum», nella misura in cui la sua natura originariamente buona si perverte al punto tale da attuare tutte quelle potenzialità malvagie che lo radicano nel male per l’eternità207.
In relazione ai comportamenti umani Alano sostiene che un’azione non può essere giudicata buona o cattiva soltanto sulla base dell’intenzione che la ispira in quanto la volontà è soltanto uno degli elementi che caratterizza lo svolgimento di un atto. Rubare ai ricchi per dare ai poveri oppure mentire consapevolmente per scagionare un innocente sono da considerarsi azioni comunque malvagie, poiché il fine buono non può giustificare l’impiego di mezzi illeciti: «illa vero quae in se mala sunt de genere malorum, bona voluntate fieri non
205 Ibid., 188, p. 331. 206 Cf. ibidem.
possunt»208. Egli prosegue mostrando come rientrino nel genere delle azioni cattive tutti quegli atti peccaminosi «quod meritoria sint penae aeternae»209.
A questo punto Alano si domanda se acconsentire ai motus primitivi delle passioni carnali sia peccato o meno. Per rispondere a tale questione egli distingue tra un primus
primitivus e un primus post primitivum, cioè tra una forma innocente di seduzione scaturiente
dalla fragilità della condizione umana alla quale si può resistere e una forma di delectatio più intensa che la volontà decide colpevolmente di assecondare, la quale trasforma una semplice seduzione in peccato veniale:
Primus primitivus, id est titillatio quaedam quae surgit tunc in nobis praeter
nostram voluntatem et potestatem, peccatum non est. Sed post illum sequitur alius qui dicitur primus, sed non primus primitivus, sed primus post primitivum, scilicet quaedam delectatio quae surgit post titillationem, quae refrenanda esset ne surgeret; et ideo quia in potestate nostra est ut comprimamus eam nec reprimimus, peccatum veniale est210.
Tale distinzione risulta particolarmente significativa perché permette opportunamente di delineare il confine sottile tra la tentazione e il consenso della volontà umana a essa.
Dopo aver indagato le possibilità della volontà, egli focalizza la sua attenzione sulla natura altrettanto problematica dei fini delle azioni umane. Rispetto al fine ultimo di una res che coincide con la consumptio rei ossia con la sua fine, per cui il fine proprio di una candela è la candela consumata che ha terminato di bruciare, il finis actionis è invece indicativo di ciò a cui l’azione tende, tenendo presente che il finis specialis et supremus cui ogni atto buono aspira è sicuramente Dio, dal momento che «omnis bona actio fit propter dilectionem Dei»211. Per questo motivo i meriti di un’azione buona non dipendono esclusivamente dalla volontà che ne determina lo svolgersi, ma anche dall’intervento della grazia operante nella creatura e 208 Ibid., 193, p. 338. 209 Ibid., 193a, p. 338. 210 Ibid., 193b, p. 338. 211 Ibid., 195, p. 343.
della misericordia divina. Richiamando la parabola evangelica degli operai chiamati a lavorare in orari differenti dal padrone della vigna, il filosofo di Lilla precisa ulteriormente che «non ex operum multiplicatione vel ex caritatis continuatione fit aliquis dignus maiori premio»212. Per quanto riguarda le azioni cattive sembra che «quanto magis aliquis perseverat in peccato, tanto magis contemnit; ergo tanto magis peccat; ergo tanto maiore pena dignus»; tuttavia anche il peccatore più ostinato se compie un’opera buona, convertendo il proprio cuore, può diminuire il peso dei propri peccati, attenuando il giudizio divino nei suoi confronti213.
Una volta distinto il peccato veniale «quod fit citra deliberationem et consensum» dal peccato mortale, «quod fit cum deliberatione et consensu», Alano individua i diversi gradus
peccandi che si dipanano da una forma lieve di concupiscenza nei confronti di una realtà
desiderabile al deliberato consenso al male:
Praecedit cogitatio id est rei exterioris perceptio aliqua quam concupiscere potest homo; sequitur concupiscentia, quae vocatur delectatio; quam consequitur
deliberatio; deliberat enim utrum post concupiscentiam eat. Consequenter
adnectitur alteri parti deliberationis consensus, qui cum premissa delectatione peccatum veniale dicitur; consensus dico in delectando non in eundo post concupiscientiam214.
Tra i peccati mortali egli individua quelli contra naturam («directe contra Deum, ut blasphemia, desperatio, praesumptio») e quelli contra inferiorem naturam («indirecte autem contra Deum, ut furtum, homicidium, rapina, adulterium»)215. L’opera rinvenuta nel manoscritto di Londra s’interrompe su questo punto, per cui manca l’analisi dettagliata di ogni singolo peccato che avrebbe dovuto completare presumibilmente la ricerca accurata condotta da Alano in questo trattato.
212
Ibid., 199, p. 352. Il riferimento biblico è Mt 20, 1-16.
213 Cf. ibid., 199a, p. 352. 214 Ibid., 200, p. 355. 215 Cf. ibid., p. 357.
Nella Summa Quoniam homines, opera giovanile del filosofo di Lilla, Alano riflette sulla scienza teologica, sul suo metodo e sul suo subiectum mediante il filtro della translatio, nello sforzo di conciliare l’esigenza di parlare di Dio in termini appropriati con le difficoltà logico-linguistiche che l’attuazione di tale compito comporta. Per questo motivo egli cerca di coniugare l’incommensurabilità del Creatore, che sembra sfuggire alle maglie di ogni forma di concettualizzazione, con le regole della grammatica e della dialettica che, seppur
translative, devono poter esser applicate anche al discorso teologico perché esso sia
scientifico, cioè universalmente valido e condivisibile. Alano è il primo filosofo che accoglie dunque la sfida di fornire uno statuto epistemologico al sapere teologico, distinguendo l’ambito d’indagine della philosophia naturalis da quello del sermo theologicus, ma considerando al contempo la reciproca implicazione di filosofia e teologia. Parallelamente a tale processo di conciliazione, nel testo si avverte il tentativo di far convivere questa sintesi teologico-epistemologica con la presenza particolarmente pervasiva di una teologia negativa di matrice pseudodionisiana, che ridimensiona conseguentemente la portata della vera
theologia, subalternandola da un lato a una theologia supercoelestis o apothetica destinata a
compiersi pienamente soltanto con la deificatio e limitandola dall’altro attraverso una
theologia ipothetica o subcoelestis che focalizza la propria indagine sulla natura delle
intelligenze angeliche e delle anime piuttosto che sull’essenza del primo principio, in quanto il mistero trinitario eccede ogni possibilità di comprensione.