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SPAZIATORE

L’approccio complesso “a gambero”: ricadute, risultati, formazione18

In che senso si può parlare di ricadute della formazione continua? In particolare, quali sono le ricadute che la formazione continua può generare sul piano delle responsabilità politiche e manageriali? Si tratta, innanzi tutto, di ricadute strategiche, dal momento che la dimensione politica e la dimensione gestionale sono la chiave di volta delle ricadute della formazione nel lavoro di ogni giorno del personale tecnico-amministrativo, nel senso che se non c’è un’assunzione politica e gestionale dei guadagni formativi che vengono dalla formazione, la formazione rimane bloccata nelle sue attese e anche nei suoi risultati.

Per rispondere alla domanda bisogna chiedersi, preliminarmente, che tipo di approccio adottare. E’ corretto parlare solo di ricadute della formazione, senza introdurre le variabili di contesto? Quindi, seguire un approccio di tipo lineare? Non c’è dubbio che l’approccio lineare sia inadeguato. Va utilizzato un approccio complesso. Lo conferma l’ esperienza quotidiana nell’Università: basta osservare il cammino di una pratica di un qualunque ufficio per sapere come è complesso, se non complicato il giro delle procedure, dall’istruttoria alla decisone finale.

L’approccio complesso richiede di esaminare le diverse variabili del sistema amministrativo, nel nostro caso, del sistema Ateneo. Si possono riepilogare le ricadute andando a ritroso: le ricadute ci possono essere se ci sono risultati della formazione. Qual è allora il rapporto tra ricadute e risultati della formazione? Andando ancora a ritroso, come

18 Nella presente relazione, oltre al contributo di personali studi e ricerche di teoria e pratica della

formazione (al riguardo, una sintesi è nel volume Pedagogia, Ed. Riuniti, Roma, 2006), si fa riferimento indiretto all’esperienza di gestione della vita universitaria, come Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze e Presidente della Conferenza dei Presidi delle medesime Facoltà, e poi come Pro Rettore all’Innovazione ed alla Qualità della formazione presso l’Ateneo fiorentino, e certamente all’esperienza quotidiana di docente e ricercatore universitario.

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fanno i gamberi, si può affermare che i risultati della formazione ci possono essere a seconda

del tipo di formazione continua adottata.

Cosa vuol dire, allora, approccio complesso riferito alle ricadute della formazione sui versanti politico e manageriale? La complessità diventa maggiore quando poi ci si interroga sulle relazioni che vi sono tra i due versanti: si tratta di coglierne le specificità e le non sempre esplicite correlazioni, trattandosi di livelli decisionali di diversa natura. E’ la condizione per non cadere in massimalismi, che poi alla fine inibiscono analisi approfondite e, dunque, soluzioni sostenibili. L’approccio complesso richiede che si prenda in esame non soltanto il sistema di relazioni nel suo insieme - e l’Università è un sistema di relazioni -, ma anche le sue componenti strutturali, smontandolo e cogliendo i nessi che ci sono tra ricadute,

variabili e tipo di formazione.

In definitiva, siamo di fronte al delicato rapporto tra la cosiddetta realtà oggettiva e le interpretazioni soggettive che diamo della realtà medesima. Se la realtà è complessa o se l’esperienza è complessa, ci dobbiamo domandare se nutriamo la mente complessa indispensabile per analizzare una situazione complessa. E’ uno dei punti strategici, tra i più delicati: non è raro il caso in cui, di fronte a esplicite dichiarazioni politiche e manageriali sulla necessità dell’analisi complessa, il modo poi di fare politica e management da parte degli attori non dispone di una mente complessa in grado di gestire adeguatamente il sistema nella sua articolazione e di governare variabili profondamente intrecciate, dal momento che poi non si vedono i nessi dei fenomeni presenti nel lavoro quotidiano. Anche se è vero che abbiamo venti anni di autonomia universitaria alle spalle, la cultura dell’autonomia nella gestione di sistemi complessi probabilmente non è ancora entrata “a regime” negli stili delle politiche accademiche, ai vari livelli e ordini decisionali. Va da sé che in questa sede ci si limita a portare elementi di riflessione sul modello complesso, senza alcuna pretesa di volere insegnare niente a nessuno, vivendo tutti in una realtà esaltante, nonostante le limitazioni politiche e amministrative della vita universitaria: il lavoro universitario rimane un patrimonio fondamentale tra i più antichi delle società del passato, ma anche tra i più importanti per lo sviluppo delle società e delle culture contemporanee.

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L’approccio complesso “a gambero”: ricadute, risultati, formazione

Applicando il modello del “lavoro del gambero” nell’approccio complesso alle ricadute della formazione, possiamo impaginare le ricadute in interne, che riguardano il personale e l’organizzazione, e in esterne, che invece riguardano il rapporto tra l’Università e il territorio, inteso nell’accezione tradizionale di bacino di utenza, ma anche in quella più vasta di area di influenza, nazionale e internazionale.

Bisogna allora riferirsi alle ricadute sui beneficiari: dagli studenti ai professori, dal personale amministrativo e tecnico a ogni soggetto individuale e collettivo che a vario titolo entra in contatto con il sistema ateneo. Inoltre, deve essere chiaro che se parliamo di ricadute si tratta di ricadute di qualità: ovviamente non interessa la qualità formale, ma la qualità sostanziale.

Se vogliamo parlare di buone ricadute abbiamo allora bisogno di interrogarci sulla fonte che le genera: abbiamo bisogno di chiarire se la formazione chiamata ad indurle abbia realizzato i buoni risultati. Altrimenti, non ha senso parlare di ricadute da sole. Sogniamo quello che vorremmo accadesse, ma poi la frustrazione è molto alta perché i cambiamenti non avvengono: le ricadute non ci possono essere perché la formazione non ha dato risultati apprezzabili.

Vi è dunque una relazione diretta tra ricadute e risultati e, dunque, tra buone ricadute e buoni risultati. Continuando la metafora del cammino del gambero, è anche vero che non possiamo aspettarci buoni risultati se non ci interroghiamo di quale formazione continua si tratta.

In conclusione, va mantenuta l’attenzione sulla “catena” che tiene insieme questi elementi: se voglio parlare di ricadute, paradossalmente la questione è che, prima di pensare al da farsi dopo la formazione, devo avere chiaro quali risultati occorre ottenere dalla formazione e, per ottenere quei risultati, quale formazione è in grado di raggiungerli.

Figura 11 – Approccio complesso all’analisi delle ricadute

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I buoni risultati e le buone ricadute della formazione continua nel personale

Il versante interno delle ricadute va riferito al personale, ma anche all’organizzazione di cui è parte. E’ assodato che i buoni risultati di una buona formazione del personale sono fondamentalmente di due tipi: il miglioramento delle conoscenze e delle competenze e l’utilizzazione delle conoscenze e delle competenze acquisite: queste non possono restare nel cassetto, ma devono essere valorizzate nei luoghi di lavoro. Se si forma il personale, ci si impegna poi ad utilizzarne le competenze maturate nella formazione e, dunque, ad accoglierne le aspettative ulteriori, alimentate appunto dalla formazione.

Se dunque, per chi riceve formazione continua i buoni risultati sono visibili nel miglioramento delle conoscenze e delle competenze e nell’attesa della loro valorizzazione nel lavoro, quali sono allora le ricadute che ci dobbiamo aspettare?

Non è difficile rispondere: le ricadute si riscontrano nel miglioramento della professionalità. Ma non è una risposta acquisita nella realtà lavorativa.

La buona formazione nel settore pubblico cambia la professionalità: mette in crisi la figura tradizionale del funzionario, centrato sul compito e ne attiva un’altra, di diverso tipo: l’esperto in grado di mettere a fuoco problemi e di risolverli. Buon medico non è quello che scrive la ricetta, ma quello che di fronte al problema del paziente è in grado di indicare la via per risolverlo. E’ la macrocompetenza di ogni professione, che più si specializza più è capace di risolvere problemi complessi e sofisticati.

Vi sono poi i risultati indotti dalla formazione per il personale: passano dal livello della professionalità a quello della realizzazione personale. Anche nel dibattito europeo è superato il concetto che la formazione professionale è fuori dal Lifelong Learning: la formazione professionale coinvolge la formazione permanente del soggetto umano in quanto tale. La formazione continua a maggior ragione. Qual è allora il risultato finale di una buona formazione del personale ? Una migliore realizzazione di se stessi. Il lavoro è chiamato a realizzare parti del soggetto, come è chiamato a farlo la vita privata o la vita sociale e culturale. La ricaduta indiretta della formazione professionale è, dunque, il benessere del soggetto nel lavoro: esso è chiamato in causa come fattore di umanizzazione e non come fuga da qualcosa, sia nel privato che in altri versanti dell’ esistenza individuale, che dallo stadio di insoddisfazione è chiamata a passare a quello della soddisfazione grazie alla realizzazione umana.

I precedenti guadagni per il lavoratore si completano con quelli del riconoscimento della sua posizione lavorativa e del suo avanzamento professionale. E’ un grosso problema: in mancanza di tale valorizzazione non è raro che si indeboliscano gli avanzamenti di competenze realizzati attraverso la formazione, determinando un danno alla stessa struttura lavorativa.

Figura 12 - Buoni risultati e buone ricadute interni: nel personale

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Politiche e Management del personale: strategia condivisa su formazione continua – risultati - ricadute

L’analisi fin qui condotta invita ad una riflessione attenta sulle politiche e sul management del personale, che sono il punto di arrivo, ma anche di partenza di tutta la problematica fin qui affrontata, anche se intermini solo introduttivi. In breve, la sequenza dell’analisi “a gambero” risulta questa: 1) formazione, 2) risultati, 3) ricadute. Ma prima, durante e dopo ci sono le strategie e le politiche del personale, evidentemente da condividere nel fare formazione, anche se con responsabilità diverse: politiche e amministrative.

A tale riguardo, quali sono i confini tra l’ambito amministrativo e l’ambito politico? Ma anche, quali sono le relazioni che li investono? Esiste, evidentemente, un livello meta-politico e meta-amministrativo che li accomuna, coinvolgendo quella che è la concezione stessa del sistema e della struttura universitaria, che va al di là delle specifiche funzioni, anzi le avvolge e le impregna.

La questione si sposta sul piano della comune e unitaria strategia politico-amministrativa. L’autonomia universitaria ha giustamente distinto i due aspetti della sua vita interna: ognuno dei due può e deve portare il contributo della sua istanza e della sua esperienza; ma le due braccia dello stesso corpo non possono non viaggiare di concerto. Purtroppo, non è raro vedere la non comunicazione tra i due poteri all’interno della stessa struttura universitaria, se non addirittura un’azione divaricante tra i due, sulla base della regola consuetudinaria che la mano destra non deve sapere quello che fa la sinistra.

E’ dunque necessaria una strategia della sequenza formazione-risultati-ricadute che non può essere basata sulla contingenza del problema, ma sulla condivisione del primato della professionalità: su questa le due componenti, politica e amministrativa, sono chiamate non solo a sottoscrivere dichiarazioni e documenti strategici, ma a realizzare il miglioramento qualitativo della professionalità sia di docente e ricercatore che del personale tecnico e amministrativo.

Come l’esperienza insegna, quando c’è un’assunzione politica debole del problema, l’amministrazione non raggiunge gli obiettivi; viceversa, se c’è un’assunzione politica forte e l’amministrazione non la condivide, le politiche non transitano negli apparati amministrativi. In ambedue i casi i processi migliorativi del sistema e delle prestazioni si inceppano e regrediscono.

L’azione sinergica dei due poteri si articola comunque nelle scelte congruenti e coordinate di ciascuno. Alle politiche tocca dare le direttive per lo sviluppo del sistema ateneo, a cominciare dalle priorità di azione: come, dare grande spazio all’internazionalizzazione, ai servizi agli studenti, alle aree di intervento in sofferenza (ad esempio, quando si introduce l’innovazione organizzativa, come il decentramento interno attraverso Poli di servizi, dai quali dipendono le altre strutture periferiche).

Sulla base delle direttive politiche degli organi di governo dell’ateneo, tocca poi all’amministrazione verificare se nei vari servizi e uffici dell’ateneo è presente l’architettura delle professionalità richieste, se vanno fatti degli aggiornamenti di competenza o ne vanno acquisite delle nuove. L’analisi dei fabbisogni professionali è in relazione alle strategie di sviluppo dell’ateneo e delle persone che vi lavorano: è da qui che si innesta il processo formazione professionale- risultati pertinenti- ricadute funzionali.

E’ la logica organizzativa che viene chiamata in causa: si richiede il passaggio dalla logica dell’autorità fondata sulla figura istituzionale che decide alla logica dell’autorità fondata sulla garanzia del sistema: sono qui, come è risaputo, la differenza e il valore aggiunto della cultura dell’ istituzione e della cultura della democrazia, dove il potere non è funzionale al soggetto che lo detiene, ma al sistema condiviso ed ai soggetti che vi lavorano.

Le direttive non bastano a garantire i cambiamenti decisi e attivabili dalla formazione. Si richiede che essi siano tradotti in dispositivi messi in atto dall’amministrazione. I dispositivi qui presi in considerazione sono di contesto lavorativo “benefico”, accogliente e professionale.

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Per crearli il primo scontro è con spazi carenti, impersonali, trascurati, affollati di personale. Purtroppo, ancora non sono diffusi l’architettura e l’arredamento finalizzati al benessere del lavoratore. Il contesto diventa benefico lì dove facilita il lavoro professionale ed esprime una situazione accogliente, che va dall’organizzazione degli spazi agli arredi, dall’ambiente ordinato alla luminosità. E’ un modo concreto di parlare di risultati e ricadute della formazione.

Tra i risultati, come si è anticipato, vi sono anche i miglioramenti. Anche questi devono essere supportati da direttive e misure, altrimenti le ricadute sono poco sostenibili e di corta durata: si tratta di direttive e misure sugli incentivi e sui sistemi di valutazione. Al riguardo, il controllo di gestione lo fa l’amministrazione, mentre le direttive incentivanti e valutative coinvolgono la dimensione delle politiche del personale.

Questo rapporto risultati/ricadute è da vedere nella loro stretta relazione: se si ottengono buoni risultati dalla formazione e si sostengono politicamente e amministrativamente le ricadute, queste hanno un effetto benefico sulla valorizzazione di quei risultati, che allora non si perdono per strada, vengono in qualche modo amplificati. E’ anche per questo che quando si parla di ricadute bisogna parlare prima di risultati.

Figura 13 - Politiche e Management del personale: FC, risultati, ricadute

I buoni risultati e le buone ricadute della formazione continua nel sistema organizzativo

Passando al sistema organizzativo, il ragionamento segue lo stesso andamento. Nel sistema organizzativo quali sono i risultati diretti attesi dalla formazione? L’abbondante letteratura è molto esplicita al riguardo. Qual è il vantaggio che il sistema organizzativo può trarre dai buoni risultati della formazione continua?

L’esperienza insegna che se, ad esempio, si cambia un sistema organizzativo consolidato, come l’introduzione dei servizi di Polo, e il personale non ha competenze adeguate o sufficienti, c’è poco da fare, il cambiamento organizzativo non avviene, non raggiunge gli stili lavorativi, anzi la costituzione di nuove strutture organizzative diventa un elemento dannoso. Qual è

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allora il vantaggio diretto della formazione che crea le competenze? Essa attiva i processi di cambiamenti innovativi nei lavoratori, che fluidificano la modifica dei servizi e delle relative azioni.

Come sappiamo, c’è una relazione molto stretta tra la “struttura immateriale” di un’organizzazione, che è il capitale umano, la risorsa umana e la sua “struttura materiale”, che è data dal sistema organizzativo. Il capitale umano ed il sistema organizzativo sono due facce della stessa medaglia: se il capitale umano è valorizzato rispetto al nuovo modello organizzativo è chiaro che questo processo di cambiamento nella mentalità e nei comportamenti rende feconda l’attivazione del nuovo servizio. Inoltre, come i processi di qualità insegnano, si crea quel ribaltamento che fa la differenza tra il professionista e il funzionario. Il lavoro del funzionario, assolvendo una funzione appunto, si basa sull’offerta, sulle procedure, sulle norme, non osserva il processo di cui è parte e, dunque, non si preoccupa degli effetti dell’ azione compiuta, se sono validi o meno rispetto ai risultati da raggiungere.

Il lavoro basato sulla professionalità, invece, cambia completamente l’approccio: l’azione professionale è risolutiva di problemi in funzione del beneficiario, cioè deve produrre un miglioramento, nel nostro caso, nell’apprendimento degli studenti, nella didattica e nella ricerca dei docenti. Si tratta di servizi di supporto e di facilitazione alle attività istituzionali. Non che il buon rendimento dello studio, dell’insegnamento e della ricerca dipendano dal personale amministrativo. E’ evidente che è responsabilità degli studenti e dei docenti ricercatori (sulla cui formazione rimane tutta aperta la questione nel nostro Paese). E’ però certo che buone strutture, buoni servizi e buoni apparati, gestiti dall’amministrazione, fanno la differenza, come si vede più di frequente nelle università private.

In ogni caso, ci si aspetta che dal processo a cascata (obiettivi del sistema organizzativo- formazione del personale-suoi risultati-ricadute nel sistema organizzativo) migliorino le competenze del personale e si attivino i cambiamenti nei servizi, ma senza saltare l’altro anello della catena del miglioramento qualitativo: si recepiscano e si accolgano le ricadute dirette e indirette nel sistema organizzativo da parte delle componenti politiche e amministrative dell’ateneo.

Sia detto di passaggio, una delle critiche maggiori al modello di qualità CampusOne da parte della stessa CRUI era l’eccessiva attenzione data ai processi migliorativi senza controllare contemporaneamente la loro relazione con i prodotti-risultati, compreso l’impatto migliorativo dei servizi sui beneficiari. Il rischio è conosciuto: cadere in una qualità più formale che sostanziale.

Per quanto riguarda i risultati indiretti sul versante dell’organizzazione, va ripresa la riflessione precedente sulla mente complessa. Questo è il beneficio maggiore che viene agli amministratori: la diffusione di una mente educata al pensiero articolato e multidimensionale per gestire il sistema organizzativo complesso dell’ateneo. Per formazione basata sui saperi specialistici separati siamo troppo abituati a ragionare con la mente duale: o è così o non è così. Siamo abituati a pensare per antitesi: o stai dalla mia parte o stai all’ opposizione. Morin, a proposito della testa ben fatta, afferma che questa passa dal mondo della necessità al mondo della possibilità: non vero/falso, bene/male, ma assunzione sistematica della categoria della possibilità, che ammette preliminarmente varie soluzioni per risolvere un problema. E’ un tema affascinante. Riportato al tema che qui si sta sviluppando, significa che con il pensiero complesso alimentato dalla formazione si crea un circolo virtuoso tra modello organizzativo e management di qualità, se è vero che buone competenze creano attese positive, assunte dalla produttività del management di qualità.

Guardare l’operazione complessa che dagli obiettivi organizzativi e dalla formazione arriva all’assunzione delle ricadute dei suoi risultati dà grande valore innovativo ai movimenti di riforma in atto nelle università e, soprattutto, offre loro strumenti di progettualità reale e realistica, che facendo perno sulla formazione nei termini detti innescano radicati circoli virtuosi di cambiamento.

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E’ chiaro che per le ricadute indirette questo significa che gli stessi modelli, dinamiche e

management organizzativi devono essere in grado di accompagnare tali circoli virtuosi:

passare dal sistema organizzativo rigido, che ci viene dal centralismo burocratico, ad un sistema decentrato autonomo, non significa ripetere la stessa fissità di modellizzazione che c’era nel modello centrale, ma introdurre modelli flessibili. Tale introduzione, d’altra parte, non vuol dire che i modelli si possono cambiare sotto la pressione delle emergenze. Sono flessibili perché in grado di entrare nel circolo virtuoso “buona formazione - buoni risultati - buone ricadute dirette e indirette - assunzioni amministrative e politiche” e di adottarlo attraverso precise regolamentazioni del modello organizzativo: in tal modo si rendono possibili le riforme reali e si assumono responsabilità precise codificate in modelli operazionali ugualmente ben definiti.

Qui non si sta parlando ovviamente di ideologia general-generica, ma di strategie politiche: la strategia è la scienza, ma anche l’arte di tradurre i grandi principi in criteri operazionali. Adottare criteri, e non ricette, ha anche una precisa e importante ripercussione sulla