Ricordate Giacomella? Non era la prima forse, né Liberata l’ultima delle giovanissime servette procurate dall’abate Bartolomeo Colonna a famiglie di ricchi mercanti anconetani tutti nel largo giro della sua parentela, acquisita tramite i matrimoni dei numerosi figli e poi nipoti di Caterinetta, sua sorella.
“In Dei nomine, amen. Addì 31 ottobre 1486 in Matelica, presso il portale della Rocca dei Signori Ottoni sita sul monte San Vicino, alla presenza dei testimoni, Antonio di Marino Tacconi, Matteo di Andrea Angelelli e Giacomo di Massio di Giovanni Massi (patronimico poi volto in Finaguerra) davanti a me, ser Nicolò notaio, sono comparsi Grazioso di Giovanni Ranaldi di Matelica e Caterina sua moglie, i quali danno e consegnano la loro figlia Liberata a don Bartolomeo Colonna che agisce in nome e per conto del nobil uomo Domenico di Martino da Orvieto attualmente abitante in Ancona, perché presti giusto ed onorato servizio nella sua famiglia dovunque sarà residente, per dieci
anni, comportandosi bene, con fedeltà e senza frode.
Domenico si impegna a ben trattare Liberata, fornendole vitto, alloggio, vestiti e calzature, le darà in dote 20 ducati d’oro oltre a donarle un bel vestito da sposa se si mariterà entro i 10 anni in cui sarà a suo servizio. Intanto consegna subito al padre Grazioso due salme di grano (circa 5,5 quintali) del valore di 7 ducati e 8 bolognini, quale anticipo della predetta dote, mentre i restanti 12 ducati e 32 bolognini (un ducato valeva 40 bolognini) saranno versati al termine dei 10 anni.
Ma se Liberata fuggirà o lascerà il servizio prima del termine, i 7 ducati dovranno essere restituiti a Domenico; se dovesse morire, non saranno restituiti. Domenico infine non potrà dare in sposa Liberata senza il consenso del padre. Di tutto questo, io notaio ecc.” (vol. 8, c. 301r).
Per redigere l’atto di affidamento, tutta questa gente è dovuta salire alla Roccaccia, che non è per niente un comodo andare, allora come oggi; ma era la fine di ottobre e, se il tempo era buono, ne avranno approfittato per una scampagnata in un posto incantevole e selvaggio, anche se qualcuno degli Ottoni presente non li ha fatti entrare nella Rocca, giacché l’accordo si fece presso il portale.
Domenico nell’occasione fa grossi affari a Matelica: il 16 novembre 1485 vende ad Angelo di Giorgio Barcelle detto della Bionda e ad altri calzolai, bastari e pellettieri di Matelica 90 pacche di cuoio bovino per 1581 libbre, pari a kg 534, a 43 ducati d’oro veneti, mentre un mese dopo ne vende 685 libbre a Bastiano di Marino Morichetti ed a Valen-tino di Giacomo Boldrini ad un prezzo più alto, segno di miglior qualità del cuoio (vol. 8, carte 101v e 144v).
1487
Ingiuriato in udienza denuncia il giudice
Il caso è bello e fa notizia, come quando è l’uomo che morde il cane.
Da che mondo è mondo, i giudici mandano in gattabuia chi compie un reato, ma non possono permettersi di... mandarli a quel paese, anche se ne hanno a volte una voglia sacrosanta e più di una ragione.
Invece capitò che il 1° novembre 1487, a Matelica, si presentò davanti al notaio ser Nicolò tale Pierpaolo di Evangelista Cristofani di Matelica, il quale denunciò che quel giorno, nella Sala Grande del Palazzo del Comune ove sedeva il Tribunale, il giudice Antonio de Compagnoni da Visso lo ingiuriò più volte dicendogli Arlotto di m..., senza alcun motivo, in presenza di ser Francesco di Angelo, Pietro di Vivano e Gaspare di Venanzo, il quale si è presentato confermando il fatto. Il denunciante chiedeva per l’ingiuria recatagli non meno di 200 ducati d’oro (vol. 8, c. 530v).
Questo atipico atto notarile è assolutamente l’unico incontrato per una questione del genere, proprio perché era raro che un giudice ingiu-riasse in udienza una persona, sia parte, che avvocato, o testimone o quant’altro. Pare che Pierpaolo non aspettasse altro: sebbene arlotto non fosse proprio un complimento, ma un termine quasi scherzoso (non per niente era celebre un autore di scherzi su cui si scrisse pure un bel libro, a quei tempi, Le storie del piovano Arlotto), però la chiara specifi-cazione... cambronniana suonava effettivamente oltraggiosa, per cui via di corsa dal notaio con il testimone a fare la denuncia e poi a portarla, sempre di corsa, dal capitano della guardia perché procedesse agli atti.
Che sarà successo, poi? Non c’è traccia del fatto nei verbali dei processi penali, ma non vuol dire, perché probabilmente, se processo si tenne, non poteva essere davanti al giudice autore dell’offesa, ma davanti ai Sindaci, che erano controllori dell’Amministrazione e garanti dei cittadini, salvo che il titolare della Signoria non preferisse rimettere il giudizio alla Curia Generale presso il Legato della Marca. Le parti
tuttavia potevano evitare il giudizio, mettendosi d’accordo (art. 52 dello Statuto dei Malefici, vero e proprio codice penale di allora).
Colpisce comunque l’enormità della pretesa risarcitoria: 200 ducati d’oro valevano cinque anni di stipendio del giudice, ci si acquistava una gran bella casa con cortile e cisterna! A quei tempi si teneva moltis-simo all’onore, tantoché le ingiurie erano il reato più frequentemente denunciato, più delle percosse a mano nuda o armata che pure erano frequenti: un’infinità di processi riguardava l’offesa di menzogna, che veniva pronunciata con un giro di parole: tu menti per la gola, che oggi non fanno né caldo né freddo.
Dopo le ingiurie, il maggior numero di processi riguardava i danni dati in campagna, che era tutta coltivata, persino le ripe, e pullulante di bestiame di ogni tipo, che spesso invadeva campi altrui nonostante le recinzioni. Denunce a josa, udienze con decine di testimoni dei fatti: si ha la netta sensazione di un brulichio inverosimile per tutti quei piccoli campi in cui era suddivisa la fertile vallata, pieni di gente curva qua e là sulle zolle con tutte quelle bestiole attorno, che era facile svariassero finendo con l’andare a brucare l’erba o le coltivazioni in atto in campi altrui, sicché subito scattava la denuncia. Si doveva risarcire il danno effettivo arrecato, più pagare una multa salata al Comune.