È accaduto a novembre 2005, quando esplose in tutti i periodici locali e sulle pagine provinciali di un quotidiano uno scoop inatteso e clamoroso, sul ritrovamento di documenti che facevano finalmente piena luce sulla vicenda di un celebre tavola, oggi ammiratissima in una sala della National Gallery di Londra, ove pervenne dopo la forzata emigrazione dalla Chiesa di San Francesco in Matelica, per il cui altare maggiore venne dipinta da Carlo Crivelli. Qualche “strillo” delle locan-dine gridava persino l’eclatante novità di un ritrovamento della pala stessa: uno stile della comunicazione che chissà quanto avrebbe diver-tito il più grande scrittore italiano del ’900, che sulla “Madonna della Rondine” e sul suo autore scrisse per “Il Giorno” da par suo, già nel lontano 1962, quasi un’intera emozionante pagina, autentica reliquia ingiallita che gelosamente conservo: lo scoop era infatti non altro che una balla sesquipedale, alias una bufala (absit iniuria verbis!), giacché le carte di cui si annunciava il ritrovamento erano bell’e pubblicate da tempo da don Sandro Corradini, in “I da Varano e le arti”, a cura di Andrea De Marchi e di Pier Luigi Falaschi, edito a Camerino nell’a-prile 2003, vol. I, pagine 306-308, ma di cui l’illustre ricercatore aveva dato lettura al Convegno del 4-6 ottobre 2001, i cui atti detto volume raccoglie e che sono ben noti agli studiosi di Carlo Crivelli.
Non solo, perché di seguito ai due distinti atti di commissione della tavola da parte rispettivamente di frate Giorgio guardiano e di Ranuccio Ottoni, Corradini pubblicava quello da me ritrovato con la quietanza del pittore per l’avvenuto pagamento della quota-parte in capo ai frati, insieme ad un altro collegato, con cui gli stessi vendevano un appezza-mento di terra (e non “delle piante” come erroneamente riportato da Corradini, riservandosi anzi “uno bedullo de maioribus et melioribus”) per far fronte all’ingente somma da pagare all’esoso pittore. Né basta,
perché Corradini aveva comunicato - giusto 20 anni fa - il ritrova-mento da parte sua dei due atti di commissione a Pietro Zampetti, che ne riportava il regesto nella monografia sul Crivelli, edita a Firenze nel 1986, a pag. 16. Non finisce qui, giacché più di uno studioso, dato il ritardo della loro pubblicazione dall’avvenuto annuncio del ritrovamento, ansioso di leggerli, cominciava scrupolosamente a cercarli invano dove dovevano pur stare e non stavano: gli è che erano inavvertitamente finiti fuori luogo dentro il vastissimo Archivio di Stato a Camerino - essendo contenuti in uno dei quinterni slegati per il lungo uso dal bastardello originario - in cui di nuovo li ritrovava Corradini due anni fa, sicché dal 1986 al 2003 nessun altro aveva potuto leggerli.
Insomma un flop madornale e memorabile, in cui ha la sua parte di gloria un tipo inglese che non ha mancato l’occasione per l’ennesima gaffe: nella lettera di complimenti e di elogi per il clamoroso ritrova-mento, sbattuta in fotocolor in prima pagina su un periodico locale, quel tipo dimenticava che nella monumentale monografia di Carlo Crivelli, splendida per gli apparati e documentatissima oltreché illustrata come nessun’altra mai (non per nulla stampata in Italia!) edita a Londra e New Haven l’anno scorso dalla Yale University Press, a pagina 529 nota 4, il suo futuro suddito Ronald Lightbown riportava correttamente la notizia del ritrovamento delle famose carte da parte di Corradini.
Questo divertente episodio dà occasione di sollevare una questione di non poco conto a proposito della lamentata esportazione londinese della “Madonna della Rondine”, senza dubbio tardiva ai fini pratici, ma che la dice lunga su un aspetto particolare di quel fenomeno grave che oggi va sotto il nome di “Marche disperse”: legittima o meno - la discussione iniziata appassionatamente da Zampetti ha avuto seguiti importanti anche se non decisivi sul punto - l’autorizzazione all’espor-tazione venne rilasciata da parte del Governo Piemontese, in persona del suo Commissario Valerio, sull’essenziale presupposto della proprietà privata della tavola in capo al Conte De Sanctis, subentrato ai Conti Ottoni nel patronato della Cappella in S. Francesco a Matelica sul cui
altare era posta la tavola, che comunemente si riteneva commissionata e pagata interamente dagli Ottoni, cosa che in base agli atti ritrovati risulta falsa. Venendo meno il requisito o titolo, il contratto di compra-vendita tra il De Sanctis e gli inglesi era totalmente nullo, o - meglio - lo sarebbe stato se i frati avessero eccepito la loro maggior quota nella comproprietà della tavola, costata loro ben 310 fiorini versati sull’unghia al Crivelli, raggranellati con una questua decennale dimostrata da una miriade di lasciti testamentari fino alla vendita in ultimo di un piccolo terreno, contro i 90 ducati sborsati dagli Ottoni, pari a 110 fiorini secondo il cambio dell’epoca, quindi 3/4 della proprietà ai frati, 1/4 agli Ottoni. Ma i poveri frati non lo sapevano, o non poterono dimo-strarlo, sicché la loro appassionata protesta fu resa vana dall’intervento della forza pubblica, disposto dallo stesso venditore in qualità di Capo della nuova Giunta di Governo, chissà se si dibattesse anche allora di conflitto di interessi.
La scena, in Chiesa e poi sul sagrato, si svolse - per evitare pubblicità noiosa - di sera, il 2 luglio 1862, ma fu osservata e descritta da un padre del vicino Oratorio filippino, il cuo orto confinava con quello dei fran-cescani, in una memoria ritrovata dal compianto Mons. Tarcisio Cesari e da me pubblicata nel lontano 1966 in un numero de “L’Azione”, di cui mi ero del tutto scordato ma che non è sfuggito a Zampetti che l’ha ampiamente riportato nella scheda sulla “Madonna della Rondine” nella citata monografia. Certo, “a babbo morto” non vale, ma ce ne fossero stati nell’800 ricercatori di archivio a rinverdire la memoria esausta di questo povero paese stranamente scordevole, dove l’intero patrimonio memorialistico di un millennio consiste - con la fortunata eccezione di Giambattista Razzanti - nella miseria delle due pur preziose pagi-nette dell’oratoriano! Per colmo di sfortuna, quei documenti erano incredibilmente sfuggiti all’occhio attento del prodigioso Giuseppe Antonio Vogel, che peraltro mostra di apprezzare la splendida tavola: li avesse annotati, questa starebbe ancora sul suo altare! Ma, a rinforzare la smemoratezza, sussisteva malauguratamente quell’elegante stemma
che gli Ottoni imposero al Crivelli di rimarcare in bella vista, in basso al centro, con una pretesa eccessiva certamente sgradita ai frati, che però non poterono farcela contro i prevaricatori Signori di Matelica, che non li sopportavano, tanto che ne provocarono quarant’anni dopo l’allontanamento, chiamando a sostituirli - erano “conventuali”- i seco-lari avversari “osservanti” già “clareni”. A riprova del sospetto, il fatto che Antonio Ottoni, padre del con-committente del Crivelli, era stato Sindaco della Chiesa e del Convento dei “clareni” in San Giovanni de Foro, per i quali aveva molto probabilmente fatto dipingere, dal suo
“impiegato di ruolo” Luca di Paolo, la bella pala emigrata anch’essa con la Collezione Campana in Francia ed ora al Musée del Petit Palais di Avignone, in occasione delle nozze della figlia Selvaggia col Bongiovanni da Fermo, con i due stemmi unificati dipinti dal matelicese in bella evidenza a destra della “mandorla” ed alla sinistra la data del matrimonio 1488 sotto il monogramma bernardiniano, pare esclusivamente usato in opere di committenza francescana propria degli “osservanti”.
Saranno pure tardivi, questi chiarimenti, ma si segnala il caso intri-gante a qualche studioso del Crivelli, che sia insieme un ferrato giurista in campo civile ed internazionale - ce ne sarà di sicuro qualcuno - che voglia vederci più chiaro.