“Il 10 aprile 1486, a Matelica, sulla pubblica via davanti a casa di ser Giuliano di Gaspare Bracci nel quartiere Banda, alla presenza dei testimoni Tartaglia, Francesco di Domenico Vagnelli e Mariano di Moscardello tutti di Matelica, i coniugi Sante di Tommaso Vegnati e Nastagia si impegnano a ricevere in casa loro, assistere, custodire e conti-nuamente vigilare su Giovannina, figlia di fu m° Matteo e di Caterina
“schiavona” (slava), che è ammalata “de morbo” (la peste, che non si nomina nemmeno, per paura) fino a che non ne sia libera e sana o fino a che morrà, promettendo di bene e fedelmente medicarla, cambiandole la biancheria secondo bisogno. In cambio di tutto quanto, Liale Bare di Matelica (tutore della ragazza) si impegna a pagare sei ducati. Ed io, ser Nicolò notaio, ecc.” (vol. 8, c. 258v). A Liale Bare era stata affidata da piccola dopo la morte del padre, capo-mastro venuto a costruire a Matelica insieme a tanti altri “longobardi” di Como, Lugano, del Lago Maggiore, lui veniva da Voltolina (Valtellina). Si era sposato a Matelica con Caterina, venuta con i suoi di là dal mare, con altra gente che aveva saputo (e non c’era la televisione) che da queste parti si riusciva a vivere decentemente bene in ogni senso, così non era per caso che ci si sposasse tra “lumbard” e “slavi o albanesi”, sul che poi nessuno aveva che ridire.
Mastro Matteo, ammalato, sentendo prossima la fine, aveva fatto testamento il 28 gennaio 1477, lasciando le sue cose a metà tra moglie e figlia e il notaio stende l’inventario il giorno stesso. Di Caterina non si sa più nulla, ma doveva esser morta quando la figlia si ammala di peste, che altrimenti l’avrebbe curata lei. Non era raro che si affidassero malati ai medici, per la cura, o a privati per l’assistenza, con un compenso forfettario stabilito prima. Ma Giovannina muore cinque giorni dopo l’affido e Liale Bare paga subito i 6 ducati pattuiti (vol. 7, c. 262r).
L’epidemia, insorta il secolo prima, non era più scomparsa, ma serpeg-giava qua e là, vera spina nel fianco ad un secolo che appare altrimenti
felice. Dei suoi corsi e ricorsi a Matelica sappiamo ben poco, giusto quanto ci dicono queste carte notarili, perché i matelicesi, avari come sempre di memorie, la volevano esorcizzare ed allontanarla tacendone i misfatti ed ignorandone il nome: chi volesse saperne di più, per le nostre zone, deve ricorrere agli “Annali di Recanati” di Monaldo, padre di Giacomo Leopardi, che ne parla ampiamente.
Qualche cenno: il 15 gennaio1487, presente il notaio ser Bona-grazia di Domenico, si procede al sequestro della biancheria in una casa dove s’era verificato un caso, per ordine di m° Luca di Paolo pittore ed
“ufficiale della peste”, oltre che cassiere del Comune (vol. 41, c. non numerata ma 8v).
Un foglietto volante (in vol. 7) reca questo lasciapassare originale:
“1494 adì 16 de setembre. Se fa fede per nui soprastanti de Mathelica come Angela et Fatorino se parte in questi dì da Mathelica, deve per grazia de Deo (ritenersi) sana et netta de peste. P. Batista soprastante”.
Appare del tutto eccezionale la sequenza continua di 36 testamenti dettati tra aprile e giugno 1486 al notaio ser Bonagrazia (vol. 16, da c. 666r a c. 751v) da persone generalmene anziane che, malate del
“crudelissimo morbo” o temendone contagio, disponevano delle loro cose: l’epidemia in quell’estate fece una strage ovunque, teste Monaldo Leopardi.
Per finire, il 16 luglio 1502 quando si affaccia alla finestra posteriore del “ponte” tuttora esistente in Arco S. Maria, che univa le case dei Bracci a quella poi Campanelli, don Gregorio Bufali (in italiano del Bufalo) detta il suo testamento al notaio ser Cristoforo Tassini (vol. 25, c. 336r). Cosa fosse venuto a fare a Matelica il gran signore romano, non è possibile dedurlo dalle notizie del testamento: chi scrive sta seguendo una traccia che potrebbe portarlo a risolvere un piccolo mistero: dove siano stati confinati - in tutta fretta e nel più stretto segreto - Agnolo di Cristofano del Bufalo e sua moglie, la giovanissima Clarice figlia del Cardinale Giuliano della Rovere, che brigava per essere eletto al soglio pontificio, come di fatto avvenne nel 1503. Gli sposi non dovevano
più tornare a Roma. Non che siano venuti a stare a Matelica, ma è probabile che don Gregorio vi sia venuto per cercare un posto adatto alla coppia, in segreto. Un motivo ufficiale probabilmente lo aveva: il suo testamento ne attesta la straordinaria ricchezza e l’appartenenza alla nobile famiglia romana, il che non escludeva che potesse far qualche affare, magari con i Bracci suoi ospiti, grandi mercanti di pannilana con bottega a Roma già a quei tempi, cui poteva fornire tanta lana proveniente dagli allevamenti di pecore della loro campagna romana.
Lo potrebbe aver trovato il luogo adatto, ad una giornata di mulo, di là del monte Canfaito in un castello chiamato Frontale, da dove traggono origine i pochi Bufali sparsi tra Marche ed Umbria. Della figlia di Giulio II e di suo marito a Roma non si seppe più niente, a maggior gloria del padre. Gli è che un episodio di gioventù, non dimenticato ma messo in archivio dopo averlo raccontato a tutti quelli di casa a suo tempo, è tornato alla mente d’improvviso a chi scrive leggendo la storia di Clarice in una intrigantissima biografia di suo padre: giovanissimo seminarista, tornando a casa per le vacanze estive, incontrò casualmente in treno da Falconara a Matelica un anziano signore assai distinto ed elegan-temente vestito di scuro, con borsa nera, bastone dal pomo d’argento massiccio e cappello, che come lui ne ha incontrato solo un altro in vita sua, il grande armatore Carlo Cameli, venuto a vedere il paese dove per quasi mille anni erano vissuti i suoi antenati e peccato che il giovane impiegato dell’anagrafe non avesse ancora letto le carte antiche: oggi ne avrebbe da raccontare di cose dei suoi a quel grande signore, negli anni ’60 il più ricco d’Italia. Il signore del treno simpatizzò col ragazzo in veste da prete, cui chiese di dov’era e della sua famiglia: appreso il cognome e sentito del luogo di origine del padre, disse che conosceva bene il luogo e la sua storia e soggiunse: “fra le tue antenate c’è una figlia di un Cardinale”, senza null’altro aggiungere, chissà se fermato da un certo stupore diffuso sulla faccia del ragazzo. Divagò parlando di altre storie, tantoché il ragazzo pensò che fosse davvero uno storico, e poteva esserlo, anche se non è riuscito ad individuarlo tra quelli più affermati
in provincia. Finì lì, il ragazzo scese a Matelica. Solo oggi che è vecchio, riflette e ragiona: o quel signore era uno storico e conosceva i fatti di Giulio II, compreso il patronimico del genero, e buttò là una battuta scherzosa, oppure sapeva di più e non osò scandalizzare il giovanissimo seminarista completando il racconto: si fermò al Cardinale, restando sul vago e pensò: di storie come questa ne avrà sentite, il ragazzo. Per vedere di sciogliere il rebus, si dovrà ricominciare da capo a frequen-tare altri archivi, cercando sempre tra i “bastardelli” e le “vacchette” di fine ’400, sia detto senza seconde intenzioni: gli amici lettori sanno bene che quei termini indicano i libri dei notai e dei parroci. Il gioco è divertente e vale la candela, sai che faccia farebbero amici aiutati nella ricerca di una prova storica di “nobiltà”, se per caso... che accoppiata e che stemma! della Rovere e del Bufalo!