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I nomi degli animali

G. A. Vogel non trascurava gli animali, naturalista e studioso non alieno da interessi scientifici al pari di molti altri illustri eruditi del suo tempo, secondo quanto traspare dalle lettere, come quando chiede al fedele discepolo Camillo Acquacotta che gli mandi a Cingoli delle vipere (Biblioteca Comunale di Recanati, Fondo Vogel, 5 C I 4, n. 43) o una camera oscura (ibidem, n. 49 e 50). Una pagina del suo incredibile zibaldone (ibidem, 5 C III 4, carta n. 209) elenca i “Nomi dei buoi e delle vacche nel Piceno” con l’enigmatica annotazione “ex protocollis XO” dove la sigla va probabilmente sciolta in “Cristoforo”, il notaio Tassini attivo a Matelica dal 1481 al 1513, che ha lasciato 17 grossi volumi di atti tra protocolli e bastardelli. Li elenchiamo tutti stavolta, quei pochi nomi: era tradizione millenaria che fossero quasi sempre invariabili, limitati al ricordo del loro mese di nascita, ad evidenziare qualche qualità esteriore utile a distinguerli dagli altri, a ricordarne la lontana origine o provenienza o ad indicarne qualche nota dell’indole:

allegrì, armellino (bianco e nero, come l’ermellino), aprì (sta per aprile), altobello (un complimento usato anche per le persone), biondo, bufa-lino, caffè (questo è notevole, essendo tra i primi casi in cui si incontra la parola, introdotta con l’importazione della bevanda avvenuta verso la fine del secolo XV), castello, camerino (dalla vicina città rivale), faorì (favorito), fallorì (forse da “fallo” nel senso di errore, peccato), garbatì, galantì, levantì, maggio, melarancio, namorà, paladì (del Re Artù), polino, perugì, peranzino (speranzino), spagnolo, venturino.

Le vacche: armellina, argentina, biancolina, cerviola, civetta, conta-dina, donzè (donzella), fiorentina, maggiolina, mascolina (non molto gentile, anche per una come lei), maggiorana, palomba, padovana.

A quel tempo i bovini a Matelica erano in numero assai maggiore che non oggi, che sono presenti soltanto in qualche grande allevamento;

venivano comunemente utilizzati per il lavoro nei campi tutti inten-samente coltivati compresi i piani dei monti, fino agli ultimi anni ’50

del secolo scorso quando assommavano ad oltre 5.000 unità (il dato preciso non mi è stato possibile rilevarlo presso gli Uffici Comunali, che non dispongono delle pubblicazioni Ufficiali dell’Istat per il I Censimento Nazionale dell’Agricoltura del 1960). Poi fu il tracollo, totale ed immediato, quando le oltre 700 case di campagna e delle frazioni si svuotarono di uomini, come le loro stalle (ogni casa ne aveva una - nota per giovani e bambini) di buoi, vacche e vitelli. Per la tota-lità dei campi, sradicate le viti a filari, gli olmi, i meli, i peri, i ciliegi, ecc. non si sentirono più muggiti, né le grida dei contadini incitanti al duro lavoro sotto il giogo i vari “Namorà” e “Gentilina”, sostituiti dal rombo e dallo sferragliare dei trattori.

Le memorie di Matelica di G. B. Razzanti edite per computer

Lasciamo per una volta ... gli altri tempi per stilare a modo nostro una cronaca di questi giorni che farà piacere a chi ha a cuore la cultura altra di questo paese, non già quella della moda di giornata, che è tanto à la page così da venire prioritariamente promossa ... e finanziata.

È una notiziola piccola piccola, che però rinfranca chi legge carte antiche, per studio o per diletto, o per tutt’e due le cose assieme, che è pure meglio. Si tratta di storia o di memorie, ma sono la stessa cosa: noi matelicesi non ne abbiamo scritte tante, nella nostra trimillenaria vicenda di cui andiamo molto fieri, ma ne abbiamo scritto sempre tanto poco che c’è da vergognarsene, non c’è paese attorno che ne abbia scritto di meno. Non vale nascondersi dietro i due volumi di Camillo Acquacotta, la solita eccezione che conferma la regola, anche perché non erano tutta farina del suo sacco, anzi lì dentro riversata fino a traboccare da quello ben più capiente di un altro Canonico, piovuto qui dall’adorata Alsazia discacciatone dalla rivoluzione vittoriosa, lui fedele al Papa! Faticò e sudò ben più delle sette tradizionali camicie il tetragono Giuseppe Antonio Vogel per guadagnarsi pane e companatico, quasi due anni di lettura matta e disperata di tutti gli archivi matelicesi, compreso quello nota-rile almeno fino agli inizi del 1600, cavandone una miriade brulicante di appunti messi insieme a formare uno sterminato zibaldone (termine da lui inventato e suggerito a un prodigioso ragazzo, figlio di un suo amico, a nome Giacomo Leopardi, per la raccolta alla rinfusa di quanto veniva elaborando la sua titanica ragione). Gli aveva trascritto impec-cabilmente le più importanti pergamene in due fittissimi volumi, di cui uno perduto. Avrebbe sicuramente steso da par suo gli Annali di Matelica, se non lo avessero distolto e disgustato personalità locali che, alla ricerca di una impossibile nobiltà, pretendevano da lui genealogie di comodo, così costringendolo ad andarsene a Cingoli, a respirare aria migliore. Lasciò il più già fatto, nelle mani di un allievo riottoso, che guidò da lontano nella compilazione finale degli Annali.

C’è da dire che poco prima, attorno al 1793, un altro Canonico della serie, Giovan Battista Razzanti, aveva terminato un’opera meno ambiziosa eppur cospicua, ripromettendosi di mandarla alla stampa poi a malincuore rinunciandovi quando seppe che altri - più attrezzati di lui - era lì lì per farlo, più tardi dandosi briga perché Vogel passasse le consegne ad un caro nipote, Camillo Acquacotta appunto, figlio di una sorella del Razzanti. Il caro nipote mise da parte il manoscritto dello zio, di cui si ricordò quando, appressandosi la fine, nel 1843 lo affidò a sua volta a un ennesimo nipote con una lettera eloquente che la dice lunga sulla vicenda. Il manoscritto rilegato, con la lettera dell’Acquacotta a modo d’introduzione, passò quindi a Mons. Adriano Tarulli, il cui erede G. F. Paloni ne fece dono al Comune. Nell’aprile di questo 2005 l’opera, stesa con grafia ingrata e defatigante, è apparsa in un’edizione da computer rigorosamente scientifica, depositata presso la Biblioteca Comunale, di circa 500 pagine in tre volumi, dotata di un indice dei nomi che è quanto di meglio si possa augurare lo studioso o il comune lettore. Autrice della inappuntabile trascrizione, delle cui difficoltà dà atto nella stringata, illuminante avvertenza, è Maria Adelaide Salvaco, napoletana di nascita, romana per esercizio della funzione di Consigliere del Senato della Repubblica, matelicese per parte materna e per avervi intermittente ma costante dimora. Per pura passione e per autonoma scelta ha affrontato questa fatica, giorno per giorno per circa un anno curvandosi sulle ingiallite, ostiche carte del Razzanti passate al vaglio di uno scanner impeccabile: il suo occhio interiore, impagabilmente superiore in questo ad ogni strumento informatico, così rendendo immediatamente fruibili allo studioso ed al lettore le fatiche storiche del Canonico annalista premuratoriano. Fatiche tutt’altro che inutili nelle parti 2a e 3a, contenenti le memorie delle associazioni civili e religiose, delle famiglie e dei cittadini illustri.

Nella desolante, emblematica assenza e disinteresse delle cosidette istituzioni culturali locali, una parte di studenti e di studiosi matelicesi si stringe idealmente attorno a Maria Adelaide Salvaco per esprimerle il grato apprezzamento per il magnifico lavoro, atteso da tanti anni.