Questa volta, della sontuosa pala dipinta da Marco Palmezzano nel 1501 a Matelica per l’altar maggiore della Chiesa di S. Francesco, niente è presente alla mostra in corso a Forlì, dedicata al pittore (Forlì 1470-1539) attivo dal 1484 al 1539. Aveva iniziato giovanissimo, sotto la guida di Melozzo degli Ambrogi, forlivese come lui ma dalla carriera più breve seppur compensata da gran fama: viaggiò con lui, accompagnan-dolo a Roma ed a Loreto, collaborando stabilmente con lui nei cicli di affreschi lì eseguiti oltre che in patria, fino alla scomparsa del maestro nel 1494 a 46 anni. Da allora Marco, tornato a Forlì, sembra non se ne sia più allontanato, se non per brevissime trasferte a Faenza, Cesena, Dozza e Brisighella, ad incassare pagamenti per lavori eseguiti a casa: a Matelica tuttavia potrebbe esser venuto, dato che non è attestato a Forlì dal 21 luglio 1500 all’agosto 1501: intervallo sufficiente per iniziare e portare a termine la grande macchina d’altare. La cosa però non è certa: l’unico scritto che la riguardi è steso con la punta di un finissimo pennello sul cartiglio trompe l’oeil alla base del trono della Vergine e reca Marcus de Melotius foroliviensis faciebat al tempo de frate Zorzo guardiano del 1501, nessun’altra citazione è stata ritrovata nelle carte antiche, di modo che ci è negato conoscere altro di questo capolavoro, se non la sua intatta bellezza smaltata, nemmeno quanto sia costato a frate Giorgio di Giacomo di Giorgio da Matelica, l’anziano guardiano del convento sin da prima del 1469, instancabile nel raccogliere offerte per ornare gli altari della sua chiesa di belle cone ordinate a celebri pittori del tempo, da Luca di Paolo, a Carlo Crivelli, fino a Eusebio da S. Giorgio, oltre a Palmezzano. Ne fanno piena fede centinaia di testamenti a partire dal 1494, con lasciti spesso consistenti ai frati per la pittura della pala per l’altar maggiore: la spesa non dovette allontanarsi molto dagli incredibili 420 fiorini pretesi dal Crivelli, dato che l’ornato è altrettanto ricco di intagli e d’oro e di colori preziosi nella più vasta composizione. Frate
Giorgio procedeva a scadenze decennali, nella commissione delle pale d’altare: aveva iniziato nei primi anni ’70 con una di cui ci resta solo il ricordo, basato sulla testimonianza di don Sennen Bigiaretti di aver visto, abbandonata nella legnaia del convento, una lunga tavola a modo di predella recante i nomi dei sindaci pro-tempore e la data 1474 dipinti da mano ritenuta maestra, tavola che non si adatta per ragioni temporali a nessuna di quelle già note e che forse era pertinente a qualche opera del giovane Luca di Paolo finita chissà dove o non ancora individuata;
dieci anni dopo circa ancora Luca licenzia la Madonna col Bambino e Santi in loco; dieci anni ancora per la Madonna della Rondine (conti-nuiamo per favore a chiamarla così, invece che pala Odoni per di più sbagliando, dato che gli Ottoni non se lo meritano, avendola pagata tre volte meno dei frati eppur pretendendo - ma erano purtroppo loro a comandare - che alla base Crivelli dipingesse il loro stemma);
ancora quasi dieci anni per l’ordine a Palmezzano, per finire dieci anni dopo con il bravo Eusebio da S. Giorgio, discepolo di Pietro Perugino insieme a Raffaello: un palmarès da primato per un frate guardiano di un piccolo convento!
Ritornando a Palmezzano, quella firma così strana Marcus de Melotius, ripetuta una sola volta dal pittore, testimonia la sua fedeltà al maestro quasi come di figlio e forse fu apposta per meglio accreditarsi presso un pubblico lontano dalla Romagna, dando però origine ad un garbuglio durato secoli e sciolto solo a metà dell’800, fino ad allora ritenendosi la pala opera di Melozzo, che però non si chiamava affatto Marco: fu l’ottimo Cavalcaselle ad operare il chiarimento, avendola accuramente studiata fino a disegnarla nei suoi taccuini.
Alla celebre Mostra di Melozzo e del Quattrocento romagnolo, voluta fortemente da Mussolini a Forlì fra giugno e ottobre del 1938 per esal-tare il genio della sua terra e diretta da Roberto Longhi, furono esposte solo la tavola centrale e la gran lunetta: tanto bastò per farla definire in catalogo da Cesare Gnudi fra le opere più alte del Palmezzano. Alla mostra in corso Marco Palmezzano - il Rinascimento nelle Romagne,
alle-stita in modo assolutamente esemplare nel Convento di S. Domenico a Forlì - nella parte recuperata e restaurata con esiti di altissima qualità e destinata a sede della ricca pinacoteca comunale - non è invece presente la gran pala, essendone troppo costoso il trasporto, ma è ben presente e variamente riprodotta nel magnifico catalogo, cui manca - per essere perfetto - un sistema di indici adeguato alla sua complessità scientifica ed alla miriade di nomi di persone e di luoghi disseminata lungo l’af-fascinante percorso del mezzo migliaio quasi di fittissime pagine.
Palmezzano fu pittore eminentemente recettivo di tutte le tendenze maggiormente affermatesi ai suoi tempi, che seppe fondere in uno stile composito con l’ausilio di mezzi tecnici e di elementi materiali ricercati che magnificamente padroneggia, con una predilezione per gli aspetti geometrici delle sue rigorose prospettive, nella costruzione della visione di interni, di larghi e pur nitidi paesi, di singoli oggetti come i mazzocchi alla base dei troni - di cui si ricorderà Raffaello e per i quali lo ammirò fra Luca Pacioli - o come gli sportelli scorciati e le pagine aperte del libro pur esso in scorcio sul leggio nella grande Annunciazione di Forlì, fino ai candidi sbuffi del velo sul braccio destro della Vergine, cui si richiama l’aerea polizzina ove sono svanite firma e data.
Lì ed a Matelica è il momento zenitale del pittore, che nella lunghis-sima carriera lentamente volgerà a calare nella ripetizione stanca di moduli, recuperando di soprassalto in alcuni ritratti o nei migliori Cristi portacroce la forza di un tempo, perdipiù arricchita da uno sfumarsi dei toni prima affatto conosciuto.
A Matelica ci abbiamo fatto l’occhio, a questo splendore dell’aria e del colore, ma basta una giornata di sole per ravvivarne la pacata magia, specialmente nelle scene della predella, che hanno l’incanto di un momento domestico come la Cena Domini, o delle legende che ai lati raccontano l’Estasi della Verna ed il Martirio dei Frati in Oriente, in un incanto da fiaba.