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Livello individuale – fattori ideali: le teorie delle preferenze

Approcci, teorie, modelli esplicativi: il quadro teorico di riferimento

2.5. Livello individuale – fattori ideali: le teorie delle preferenze

A differenza delle teorie classiche della modernizzazione – che, attribuendo ai macro-processi sociali la capacità di plasmare i comportamenti riproduttivi di un’intera società, hanno lasciato del tutto irrisolta la questione della scelta individuale – ma anche delle teorie della scelta razionale – che, fondando le decisioni riproduttive sugli assunti della razionalità strumentale e della massimizzazione dell’utilità, non sono state in grado di rendere conto delle incoerenze nei comportamenti individuali senza ricorrere alla categoria dell’irrazionalità68 – le

teorie delle preferenze cercano di portare alla luce gli aspetti più intimi e personali

della scelta di avere un(altro) figlio concentrando la propria attenzione sulla dimensione intra-individuale e approfondendo il ruolo delle istanze soggettive che presiedono e precedono il momento della scelta stessa.

Secondo le teorie comprese nel quadrante delimitato dai poli individuale e ideale sarebbero, infatti, aspetti come le motivazioni alla genitorialità, le preferenze per un determinato stile di vita e le aspirazioni personali, professionali e familiari, a rappresentare gli elementi chiave del processo decisionale che regola l’andamento della fecondità. In quest’ottica, avere un(altro) figlio rappresenta il risultato finale di un processo di valutazione di desideri e bisogni del tutto interiori di realizzazione di sé e delle proprie aspettative, condotto da soggetti che, nelle versioni più radicali, non risentono né si curano delle condizioni esterne. Rispetto agli approcci precedenti, dunque, la prospettiva di analisi cambia completamente: le teorie delle preferenze rifiutano sia l’idea che gli individui agiscano/reagiscano in modo omogeneo e meccanico di fronte alle sollecitazioni esterne, sia l’assunto dell’esistenza di un unico modello decisionale e di un’unica gerarchia di preferenze dominati dalla razionalità economica, e riconducono i comportamenti riproduttivi a fattori quali il valore attribuito ai figli in termini di soddisfazione di bisogni non economici (Fawcett,

68 La possibilità di un’irrazionalità nelle decisioni assunte da alcuni nuclei familiari è introdotta dallo stesso Becker per rendere conto di comportamenti non coerenti con la teoria del consumatore razionale che bilancia reddito e beni al fine di massimizzarne l’utilità.

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Arnold, 1973), l’esistenza di tratti di personalità in grado di fornire motivazioni per avere un figlio (Miller, 1992), la condivisione di strutture di preferenze più o meno favorevoli alla genitorialità (Hakim, 2003a).

L’incapacità degli approcci micro-economici di spiegare le scelte riproduttive differenti in nuclei familiari caratterizzati da condizioni materiali analoghe offre lo spunto per i primi approfondimenti sul ruolo del valore dei figli – inteso in senso non economico – all’interno dei processi decisionali. La limitazione della fecondità non deriverebbe da uno squilibrio economico tra i costi e i benefici legati all’avere un(altro) figlio, ma da un cambiamento del tipo di soddisfazione che avere un figlio procura ai genitori: mentre nel passato i genitori si aspettavano di ottenere dai propri discendenti innanzitutto un contributo materiale ed economico alla vita familiare, oggi padri e madri si attenderebbero dai propri figli soprattutto gratificazioni emotive e psicologiche (Fawcett, Arnold, 1973; Moors, Palomba, 1995). Il valore attribuito ai figli, la motivazione ad averne e la decisione di diventare genitori, dunque, non rinvierebbero più ad argomenti economici, ma ad una nuova concezione dell’uomo che prevede il riconoscimento della necessità di soddisfare bisogni di ordine superiore rispetto alla semplice sopravvivenza materiale, tra cui i bisogni psicologici di appartenenza, di stima e di autorealizzazione.

Proprio allo scopo di verificare se in concomitanza con la modernizzazione e la transizione demografica si riscontri anche una transizione nel valore dei figli in grado di influire sull’andamento della fecondità, all’inizio degli anni Settanta viene avviata una vasta indagine comparata – il progetto Value Of Children (VOC) – condotta attraverso interviste e questionari a campioni rappresentativi di genitori residenti in nazioni caratterizzate da livelli di sviluppo socio-economico diversi (Bulatao, 1979). Il modello messo a punto per la rilevazione empirica si basa su un framework concettuale che ipotizza l’esistenza di una relazione tra soddisfazione fornita dai figli, motivazione ad averne e dimensione della famiglia (Hoffman, Hoffman, 1973), operazionalizzato attraverso una serie di indicatori tra cui le attitudini dei genitori, la percezione della soddisfazione e del costo (economici e non) legati ai figli, le aspettative nei confronti della futura vita sociale, professionale e familiare (Fawcett, Arnold, 1973), che dovrebbero rivelare il diverso andamento della relazione nei diversi paesi. In particolare, seguendo la teoria del valore dei

figli69, l’”utilità” economica, psicologica e sociale procurata dall’avere un(altro) figlio risulta influenzata dalla percezione che i genitori hanno delle diverse categorie di costi che devono sostenere per mantenere i figli70 e dei diversi tipi di

69 In proposito va tenuto presente che valore e disvalore dei figli influenzano e sono a loro volta influenzati dalla domanda di figli, ovvero dal numero di figli desiderato, oltre a variare in relazione al sesso e all’ordine di nascita (Bulatao, 1981).

70 Classificati, non diversamente dalla teoria economica, come: costi economici diretti; costi diversi da quelli economici come lavoro aggiuntivo, vincoli e responsabilità; costi relativi alle restrizioni della vita sociale, personale e professionale dei genitori; costi rispetto alle relazioni sociali, comprendenti i vincoli matrimoniali (Bulatao, 1979).

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soddisfazione71 che i figli possono fornire rispetto al benessere personale e familiare (anche in relazione a fonti di soddisfazione alternative) e costituisce la base della motivazione ad averne. I promotori del progetto ritengono quindi che ricostruire le motivazioni ad avere figli nei diversi paesi a partire dal diverso valore attribuito loro consenta di riuscire a spiegare anche i diversi andamenti della fecondità (Bulatao, 1979). Tuttavia, dopo essere stato utilizzato in diverse indagini per tutta la seconda metà degli anni Settanta e aver prodotto una notevole mole di risultati empirici, il modello messo a punto per il progetto VOC viene di fatto abbandonato proprio a causa dell’incapacità di portare a conclusioni sufficientemente generali rispetto al ruolo di mediazione esercitato dalle variabili di contesto72 sulle percezioni dei genitori, sul valore attribuito ai figli e, di conseguenza, sulle differenze nella motivazione ad averne nei diversi paesi analizzati (de Bruijn, 2006). In sostanza, pur non assumendo l’esistenza di preferenze e motivazioni date come le teorie della scelta razionale, anche le spiegazioni offerte dal modello decisionale incentrato sul “valore dei figli per i genitori” non riescono ad andare oltre il meccanismo costituito da una valutazione soggettiva dei costi-benefici della fecondità, intesa quale atto di libero arbitrio individuale, del tutto svincolata dalla realtà economica, sociale e culturale esterna se non per ciò che filtra attraverso le percezioni dei genitori73 (Bulatao, 1979).

Una cornice interpretativa più ampia e più attenta al contesto esterno è fornita dalla teoria del comportamento ragionato – in seguito pianificato74 – elaborata a metà degli anni Settanta da Fishbein e Ajzen (1975) per descrivere il comportamento umano in differenti situazioni e condizioni, recentemente ripresa da diversi autori per spiegare le tendenze di fecondità contemporanee (Micheli, 2006; Barber, 2001; Vikat

71 I figli infatti possono aver un valore per i genitori in termini di assistenza strumentale, contribuendo ad alleggerire gli aspetti economici e pratici dell’esistenza e a favorire i processi di consolidamento dei legami parentali e di status; in termini di interazioni gratificanti, grazie al piacere procurato dalla loro compagnia e alla possibilità di ricevere amicizia, divertimento e benessere emotivo; in termini di

appagamento psicologico, in virtù dell’effetto sull’autostima e delle ricadute positive che generare e crescere un figlio ha a livello di realizzazione personale (Bulatao, 1979).

72 Nonostante il framework concettuale osservi motivazioni e comportamenti a livello individuale, le variabili di contesto avrebbero dovuto giocare un ruolo cruciale nel rendere conto del cambiamento dei valori, ovvero della transizione ipotizzata. Non essendo disponibili dati longitudinali, si riteneva che la comparazione di paesi posizionati su gradini diversi di un’ipotetica scala di sviluppo socio- economico avrebbe garantito la varietà di condizioni necessaria per ricostruire il processo di trasformazione del valore dei figli per i genitori.

73 L’idea di un libero atto di volontà sembra particolarmente inadeguata rispetto ai comportamenti riproduttivi innanzitutto perché la “produzione” di figli non ricade interamente sotto il controllo del potenziale genitore, come rilevato anche da Easterlin (1975), e secondariamente perché la regolazione della fecondità rappresenta un campo in cui, anche nelle società moderne, la pressione sociale non può essere del tutto esclusa.

74 In riferimento alla questione del controllo incompleto che gli individui possono esercitare su determinati comportamenti, merita di essere ricordato come la teoria del comportamento pianificato costituisca una rivisitazione della teoria originale dimostratasi inadeguata rispetto a tali comportamenti e integrata con l’inserimento della misura della capacità di controllo percepita a proposito del comportamento in questione (Ajzen 1991).

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et al. 2007; Billari et al. 2009; Klobas, 2010)75. Nel modello Fishbein-Ajzen le

intenzioni di fecondità sono considerate un indicatore attendibile dei successivi comportamenti, poiché si ritiene che consentano di catturare i fattori motivazionali alla base dei comportamenti stessi, precisando anche la quantità di sforzo che l’individuo intende esercitare per realizzarli secondo una relazione positiva per cui maggiore è l’intenzione di impegnarsi in un determinato comportamento, maggiore è la probabilità che sia compiuto76. In realtà, sia la forza dell’intenzione sia la probabilità di realizzazione concreta del comportamento emergono dall’interazione tra atteggiamenti e percezioni che l’individuo ha rispetto al comportamento in questione e di cui ne costituiscono le antecedenti prossime. In particolare, ad entrare in gioco sono innanzitutto le attitudini, le valutazioni e le percezioni individuali rispetto ai costi-benefici (non solo economici) e ai vincoli-opportunità che possono influenzare il comportamento in questione; in secondo luogo, vanno considerate le norme soggettive interiorizzate e la percezione delle norme sociali che l’individuo ha rispetto al comportamento stesso; infine, va valutata la percezione della propria capacità di controllo in generale e del grado di controllo effettivo che si ritiene di essere in grado di esercitare su quel determinato comportamento (Fishbein, Ajzen, 1975; Ajzen, 1991; Billari et al. 2009). In questo modo è possibile rendere conto, oltre che della varietà dei fattori individuali – attitudini, percezioni e valutazioni – anche dell’influenza proveniente dal contesto inteso tanto come insieme di opportunità e vincoli materiali quanto come ambiente normativo e sociale, coniugando le dimensioni individuale e sociale (per questo la teoria è posizionata all’incrocio degli assi). Tuttavia, secondo alcuni studiosi77, l’assoluta centralità dell’individuo e dei suoi processi psicologici renderebbe quanto meno dubbia proprio tale asserita capacità di rendere conto dell’ambiente di vita, dal momento che la realtà esterna resta sullo sfondo e risulta incorporata nel modello solo in termini di percezioni soggettive non di incentivi/vincoli concreti (Bachrach, Morgan, 2011).

D’altra parte, la difficoltà di sfuggire ad una sorta di psicologizzazione dei comportamenti, rifiutando l’immagine di un individuo ripiegato su se stesso e sulla propria lettura soggettiva della realtà per prendere in considerazione le caratteristiche oggettive del più vasto contesto sovra-individuale, sembra rappresentare l’aspetto che accomuna tutte le teorie comprese in questo quadrante. Nonostante

75 Per quanto riguarda alcune obiezioni rispetto agli assunti di fondo della teoria, alla sua sostenibilità empirica nonché alle sue recenti applicazioni in tema di comportamenti di fecondità, si rinvia, tra gli altri a Armitage, Conner (2001); Barber (2001); Bachrach, Morgan (2011).

76 A questo proposito, si segnala come uno dei fronti di insoddisfazione rispetto alla teoria del comportamento pianificato derivi proprio dalla priorità attribuita alla previsione dei comportamenti piuttosto che alla loro effettiva spiegazione e comprensione (Miller, 2011).

77 Gli stessi autori hanno recentemente elaborato e proposto una teoria alternativa per analizzare i comportamenti riproduttivi, denominata Teoria dell’azione congiunturale (TCA), in cui viene inserita anche la dimensione temporale (intesa come processo path-dependent, ricorsivo e cumulativo di vantaggi/svantaggi e di reinterpretazione di esperienze, norme, ecc.) e in cui ogni comportamento risulta ancorato ad una congiuntura ovvero ad un «insieme di circostanze, specifiche per un luogo e un tempo concreti, in cui gli attori, gli assetti, i vincoli socio-strutturali e le aspettative normative si intersecano» (Bachrach, Morgan, 2011, 14; Bachrach et al. 2011).

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l’articolazione dei quadri teorici proposti, la possibilità di generalizzare e/o trasferire le conclusioni raggiunte si rivela di fatto inferiore anche a quella consentita dalle teorie della scelta razionale che, pur con tutti i limiti evidenziati, appaiono comunque in grado di rendere conto in modo unitario di uno spettro sufficientemente ampio di situazioni diverse.

Del tutto diversa è invece la prospettiva su cui si colloca il contributo teorico elaborato da Miller (1992), volto innanzitutto a colmare una lacuna nello studio dei processi psicologici che dalle motivazioni conducono ai comportamenti di fecondità e che solo di rado risultano esplorati in modo realmente sistematico78. Il punto di partenza per spiegare i comportamenti riproduttivi infatti non sarebbero le motivazioni, ma i loro antecedenti psicologici ovvero quei tratti di personalità che, plasmati dalle esperienze dell’infanzia dell’adolescenza e della vita adulta, portano a vedere positivamente o negativamente l’idea di avere un figlio e che in seguito possono trasformarsi o meno in desideri, intenzioni e, infine, comportamenti. Per approfondire e spiegare la relazione tra motivazioni e scelte di fecondità è dunque necessario concentrarsi da un lato sui fattori intra-individuali che presiedono alle motivazioni e dall’altro occorre approfondire la distinzione tra motivazioni, desideri e intenzioni di fecondità79, definire le relazioni che intercorrono tra i tre concetti e precisare il rapporto di ciascuno di essi con il comportamento.

Per quanto riguarda l’origine e lo sviluppo delle motivazioni, Miller mostra come si tratti di un processo evolutivo che si dispiega lungo tutto il corso dell’esistenza dell’individuo. Durante l’infanzia, sarebbero la qualità della relazione instaurata con la madre, l’acquisizione di un sistema di valori centrato sulla famiglia e l’identificazione con i ruoli genitoriali a rivestire un ruolo centrale nel consolidare i tratti psicologici che, attivando sentimenti di protezione, cura e attaccamento, sono alla base dello sviluppo delle motivazioni80. Nel corso dell’adolescenza sarebbero invece esperienze esterne alla vita familiare, come la scuola e eventuali attività a contatto con i bambini (baby sitter), a rafforzare o ad affievolire l’interesse ad avere figli. Infine, nella vita adulta, una varietà di istituzioni e di attività (dal matrimonio all’occupazione), avvalorando o contraddicendo le norme sociali relative alla fecondità, renderebbero le motivazioni ad avere figli più o meno forti (Miller, 1994; Miller, Pasta, 1995).

78 Si ricorda, ad esempio, che nella teoria del valore dei figli, la motivazione ad averne (frutto del bilancio tra soddisfazione e costi percepiti) era considerata l’antecedente diretto della dimensione familiare (Bulatao, 1979).

79 Tale distinzione e, a maggior ragione, l’operazionalizzazione dei tre concetti rappresenta un tema molto dibattuto negli studi sulle scelte di fecondità dove a volte, pur avendo livelli diversi di stabilità e concretezza (oltre ad avere antecedenti diversi), vengono utilizzati in modo interscambiabile come predittori dei comportamenti (Bongaarts, 1990; Ajzen, 1991; Miller, Pasta, 1995; Klobas, 2010; Miller, 2011; Hayford, Agadjanian, 2012)

80 In particolare, le motivazioni risulterebbero positivamente correlati con affiliation e nurturance, considerati in grado di orientare all’attaccamento e all’accudimento, negativamente con autonomy e indipendenti dal grado di achievement (Miller, 1992, 282).

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Prima di tradursi in un risultato concreto in termini di azione compiuta, però, le motivazioni devono attraversare una serie di trasformazioni, secondo una sequenza ben definita: innanzitutto, le motivazioni che in generale sono disposizioni latenti e inconsapevoli, con un aspetto energizzante (prontezza ad agire) ed uno direzionale (direzione dell’azione), una volta attivate emergono a livello cosciente e vengono esperite come desideri; neppure i desideri conducono direttamente ad un’azione fino a quando, in seguito ad una valutazione della realtà e all’assunzione di una decisione, non si trasformano in intenzioni81; sono infatti le intenzioni che, implicando un certo grado di impegno personale ad agire, quando il momento e le condizioni sono giuste danno luogo al comportamento strumentale ovvero al comportamento calcolato per produrre un determinato effetto (Miller, 1992).

Se dal punto di vista teorico, l’illustrazione delle relazioni tra motivazioni, desideri e intenzioni, consente di analizzare le intenzioni – di avere un(altro) figlio, di avere un certo numero di figli e di averli con una determinata cadenza temporale – e, risalendo la sequenza, valutare il peso delle diverse antecedenti psicologiche sui comportamenti di fecondità (Miller, Pasta, 1995; Miller, 2011), dal punto di vista pratico focalizzare l’attenzione solo sulle intenzioni e sui processi intra-individuali che le determinano rischia di escludere ancora una volta dalla spiegazione di un comportamento sociale come quello riproduttivo tutti gli aspetti extra-individuali che, insieme con le caratteristiche psicologiche, contribuiscono a “costruire” l’individuo stesso, definendo il panorama di relazioni sociali, di condizioni materiali e ideali, di vincoli e di opportunità a partire dal quale anche la personalità, le percezioni e le motivazioni stesse si sviluppano.

La consapevolezza del rischio di un ripiegamento individualistico e/o di un eccesso di astrazione sembra essere tra le ragioni alla base della proposta di Catherine Hakim di analizzare le preferenze concrete delle donne per stili di vita diversi: grazie alle due rivoluzioni – nella contraccezione e nelle pari opportunità (Hakim, 2003a, 355) – le preferenze femminili sarebbero oggi da ritenersi la chiave primaria per spiegare l’andamento della fecondità di donne che possono scegliere, liberamente, di vivere la vita che desiderano (Hakim, 1998; 2000). Il ragionamento della Hakim prende avvio dalla constatazione di come le trasformazioni della società82 abbiano creato un nuovo scenario per le donne, ampliando le loro opportunità di vita e la loro libertà di scelta fino a livelli mai sperimentati in

81 Rispetto alla fecondità si distinguono tre tipi di intenzioni - le intenzioni relative al numero dei figli, alla cadenza e all’avere o meno un figlio - legate tra loro e alle rispettive motivazioni e desideri secondo una specifica sequenza che vede al primo posto motivazione, desiderio e intenzione di avere un figlio (Miller, 1992, 267).

82 In particolare, Hakim fa riferimento a cinque cambiamenti epocali, verificatisi alla fine del ventesimo secolo, centrali per la creazione del nuovo scenario di opportunità per le donne: la rivoluzione contraccettiva, la rivoluzione delle pari opportunità, l’espansione delle occupazioni dei colletti bianchi, la creazione di lavori per un percettore di reddito secondario e la crescente importanza delle attitudini, dei valori e delle preferenze personali nelle scelte di vita delle società contemporanee (Hakim, 2000).

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precedenza, e come questo abbia portato alla luce tutta l’eterogeneità e le differenze che ci sono tra loro.

A partire dall’analisi dei dati longitudinali dell’indagine statunitense National Longitudinal Survey83 e poi applicate ad un campione inglese, vengono individuati tre “modelli” qualitativamente diversi di donna – intesi come idealtipi sociologici – definiti in base alla preferenza per un determinato stile di vita e al modo di risolvere il conflitto famiglia-lavoro, sempre più frequente nelle società contemporanee: uno

centrato sulla famiglia – che dopo essersi sposata preferisce l’attività casalinga al

lavoro per il mercato, anche abbandonandolo per dare la priorità alla vita privata e alla famiglia, uno centrato sul lavoro – che è fortemente impegnata nella carriera professionale o in altre attività competitive simili, che in molti casi rimane senza figli e anche non sposata – e uno definito adattivo84 – che partecipa al mercato del lavoro

con dedicandovi un impegno e un tempo ridotto, spesso con attività part time, si occupa contemporaneamente di famiglia e professione ed è intenzionata a conciliare i due fronti, prendendo il meglio di ciascuno senza privilegiare nessuno dei due85 (Hakim, 2003a).

Il merito principale della teoria risiede nell’avere, per la prima volta, sottolineato l’esistenza non solo di una specificità delle visioni, delle prospettive e degli obiettivi femminili rispetto a quelle maschili, ma anche di una profonda eterogeneità degli stili di vita scelti dalle donne stesse che, a seconda del gruppo a cui appartengono, condividono anche valori e interessi diversi, aspetti fino ad ora ignorati da tutti i contributi esplicativi. Se al centro dell’analisi si pongono le persone concrete, o meglio le donne reali di un determinato tempo e di un determinato paese, riconoscendone la loro eterogeneità, allora diventa possibile comprendere e spiegare anche la mancata omogeneità nelle loro “risposte” in termini di fecondità alle influenze socio-economiche, senza chiamare in causa variabili – come i livelli di reddito o di istruzione – prive di un collegamento diretto con le motivazioni di chi si trova dietro alle misure statistiche. La teoria delle preferenze consente infatti di prevedere i diversi comportamenti di fecondità e i diversi obiettivi femminili perché nel momento in cui le trasformazioni della società contemporanea hanno messo la

83 Si tratta dell’indagine che dagli anni Sessanta in poi ha raccolto dati longitudinali sulle aspirazioni e gli obiettivi di vita degli americani; la Hakim fa riferimento in particolare alla coorte di donne che nel

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