Benché ormai da alcuni decenni vi sia unanimità tra gli studiosi nel rifiutare l’idea dell’esistenza di un equilibrio ottimale della popolazione che le dinamiche demografiche, rispondendo a leggi omeostatiche, tenderebbero spontaneamente a raggiungere, è tuttavia evidente come il protrarsi nel tempo di tendenze di fecondità molto basse o molto elevate possa avere, a lungo andare, ricadute sulla sostenibilità e la vitalità stessa di una società. Rientrati – o comunque ridimensionati – gli allarmi sul collasso mondiale causato dalla sovrappopolazione, oggi le preoccupazioni di scienziati e politici si concentrano sugli effetti legati al calo delle nascite, in particolare la diminuzione e l’invecchiamento della popolazione.
Come è già stato sottolineato, non è la prima volta che alcuni paesi vedono ridursi il numero di nati; la novità del fenomeno attuale risiede nella sua ampiezza nello spazio e nel tempo: per restare solo all’ambito europeo, da quasi cinquant’anni la caduta del tasso medio di fecondità è proseguita senza sosta praticamente in tutti i paesi e, se in alcuni si è verificata una ripresa nell’ultimo decennio, nessuna nazione è ancora risalita al livello sufficiente per assicurare la sostituzione delle generazioni. L’Italia non sfugge a questo andamento ed anzi, dal 1993 al 2003, si è segnalata come uno dei paesi a “bassissima fecondità” ovvero con tassi inferiori ad 1,3 figli per donna.
Nonostante la leggera ripresa attuale sia ritenuta da alcuni autori l’inizio di una vera e propria inversione di tendenza (Goldstein, Sobotka, Jasilioniene, 2009; Caltabiano, Castiglioni, Rosina, 2009), non può sfuggire come il periodo trascorso comporti strascichi rilevanti sulla composizione e la struttura della popolazione nei prossimi decenni. Merita inoltre di essere presa in considerazione anche l’ipotesi dell’esistenza di una “trappola della bassa fecondità”, dovuta proprio al perdurare dei bassi tassi, che potrebbe prolungare a tempo indeterminato la situazione (Lutz, Skirbekk, 2005). Secondo gli studiosi che l’hanno proposta, infatti, tre meccanismi ormai innescati renderebbero difficile un recupero spontaneo dei livelli di fecondità: - composizione attuale della popolazione: il fenomeno della bassa fecondità,
mantenendosi inalterato per decenni, provoca una modifica nella struttura della popolazione per cui la base della piramide delle età si restringe e le coorti giovani diventano man mano meno numerose; anche se il calo delle nascite si arresta, coorti più piccole genereranno meno figli che, a loro volta, continueranno a generare sempre meno figli delle precedenti;
- dimensione ideale della famiglia: le nuove generazioni, socializzate in un ambiente con pochi bambini e cresciute per lo più in famiglie con uno o nessun fratello, interiorizzano un ideale della dimensione familiare sempre più ridotto; questo le induce a limitare ulteriormente il numero di componenti della propria famiglia e, di conseguenza, a trasmettere tale modello alla generazione successiva;
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- feedback economico negativo: secondo la teoria del reddito relativo di Easterlin (1987), le giovani generazioni crescono con l’aspirazione ad un maggior benessere; lo squilibrio dei sistemi di protezione sociale, tuttavia, imponendo un aumento di imposte e contributi, provoca la diffusione di un sentimento di deprivazione economica che si traduce in un ritardo nella formazione della famiglia (Lutz, Skirbekk, 2005).
Diventa importante, dunque, comprendere le potenziali ricadute delle dinamiche di fecondità di ieri e di oggi e, soprattutto, riuscire ad anticiparne le manifestazioni nel lungo periodo sul piano economico e sociale per potervi fare fronte: sostenere un mutamento duraturo nella piramide delle età della popolazione richiede l’adeguamento di istituzioni e norme pensate per una società caratterizzata da una composizione diversa. Nel breve periodo, infatti, le conseguenze del calo delle nascite appaiono spesso positive – migliore educazione, minore competizione per il lavoro, maggiori redditi – ma, come ricorda anche la già citata trappola della fecondità, è quando le variazioni si sommano, alterando in modo permanente dimensione e struttura della popolazione, che gli effetti possono sbilanciare e rendere difficile da sostenere un sistema socio-economico fondato su altri presupposti.
La diminuzione della dimensione delle coorti ha come primo effetto quello di ridurre il numero di individui che si offrono sul mercato del lavoro. Dal punto di vista strettamente quantitativo non si tratta di un fenomeno necessariamente negativo: in contesti caratterizzati da elevata disoccupazione può tradursi in un vantaggio; inoltre, la dimensione complessiva può mantenersi inalterata grazie ad una maggiore partecipazione femminile, ad un prolungamento dell’età pensionabile o al ricorso a lavoratori immigrati. A lungo termine, però, la scarsità di risorse umane agirà da freno sull’espansione industriale e sulla crescita economica; lo sviluppo dovrà così puntare tutto su un incremento della produttività intensivo e sull’innovazione tecnologica (McNicoll, 1986). Tuttavia, il minor numero di giovani presenti sul mercato del lavoro, in grado di alimentare la struttura produttiva con professionalità e competenze nuove, riduce proprio l’apporto di energie creative e di conoscenze tecnologiche necessarie per sopravvivere in un mercato globalizzato e competitivo: una forza lavoro sbilanciata verso le età più elevate rischia, dunque, di essere meno dinamica e innovativa (McDonald, 2006; 2008).
La modifica nella composizione per età della forza lavoro si ripercuote anche sulle prospettive di carriera aperte per le giovani generazioni. La piramide gerarchica delle aziende, infatti, è piuttosto simile a quella delle età, per cui i giovani lavoratori all’inizio tendono a ricoprire incarichi di basso livello, scarsamente retribuiti, per poi migliorare la propria posizione professionale e il proprio reddito nel corso del tempo, man mano che i posti apicali si rendono vacanti per il pensionamento dei lavoratori più anziani (Coale, 1986). Contrastare la diminuzione della forza lavoro disponibile posticipando i pensionamenti blocca, quindi, questo meccanismo di scorrimento – già in sofferenza a causa della sproporzione numerica tra le coorti – comprimendo le
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prospettive di carriera e di guadagno su cui si basa anche una parte delle decisioni relative alla formazione della famiglia.
Sul piano dei consumi, poi, la mutata composizione della popolazione porta ad un cambiamento nella domanda di beni sia materiali sia immateriali; in particolare, diminuirà la richiesta di servizi per l’infanzia e di istruzione, mentre aumenterà quella di servizi sanitari e per la terza età, imponendo modifiche alla ripartizione degli investimenti statali (McNicoll, 1986). Ancora una volta, però, si tratta di mutamenti che si intrecciano, rendendo difficile individuare soluzioni univoche: da un lato, dovendo sostenere una crescita basata sulla qualità del capitale umano piuttosto che sulla “quantità”, le spese per l’istruzione non potranno essere compresse in modo esattamente proporzionale al numero dei destinatari; dall’altro, l’esigenza di servizi di assistenza a lungo termine potrebbe crescere in modo più che proporzionale rispetto alle proiezioni sul numero dei potenziali beneficiari poiché, all’aumento dell’indice di dipendenza tra anziani e popolazione attiva, si affianca la riduzione di quanti potranno essere assistiti in modo informale da famiglie nel frattempo divenute sempre meno numerose.
Un ulteriore contesto in cui lo squilibrio della piramide delle età può provocare ripercussioni a lungo termine è costituito dal sistema politico. Il fatto che le coorti più anziane abbiano tassi di partecipazione elettorale superiori a quelle giovani rischia di porre una seria ipoteca alla capacità delle società contemporanee di fronteggiare in modo tempestivo ed adeguato le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione: non solo, infatti, la struttura per età della rappresentanza politica è molto simile alla già citata piramide gerarchica aziendale, ma la maggiore numerosità ed effettiva partecipazione elettorale delle coorti anziane accresce il peso del loro voto e dei loro interessi, non sempre coerenti con la prospettiva di una società che sta mutando la sua composizione (Coale, 1986).
Legato ai precedenti e, senza dubbio, molto più noto per le sue ripercussioni già particolarmente critiche ed evidenti sui bilanci statali, è l’ambito dei regimi pensionistici e dei trasferimenti economici tra le generazioni. Il rovesciamento della piramide delle età della popolazione dovuto al calo della fecondità provoca il restringimento della base imponibile e contributiva a fronte di un aumento della platea di destinatari, rendendo il sistema attuale sempre più difficile da sostenere: una forza lavoro che si va riducendo faticherà sempre più a finanziare le pensioni di una popolazione anziana più numerosa e con aspettative di vita superiori rispetto all’epoca in cui i programmi di protezione sociale sono stati pensati (Bongaarts, 2004; Vos, 2009). La necessità di rivedere gli schemi pensionistici per assicurare la sostenibilità del sistema nel tempo è al centro del dibattito politico dall’inizio degli anni novanta; in Italia, numerosi interventi si sono succeduti – ad anche accavallati – nel tempo, focalizzandosi principalmente sulla revisione dei requisiti contributivi (aumento degli anni di lavoro necessari) e anagrafici (innalzamento dell’età pensionabile), sulla modifica del metodo di calcolo degli emolumenti (originariamente basato sulle retribuzioni, oggi sui contributi), sulla promozione di
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schemi assicurativi privati nel tentativo di passare da un sistema totalmente a ripartizione ad uno a capitalizzazione o misto. Tuttavia, nonostante la consapevolezza degli intrecci e delle interazioni esistenti con gli altri ambiti ricordati, fino ad ora pare mancare un intervento che affronti la questione del mutamento della struttura della popolazione, coordinando le varie dimensioni economiche e sociali su cui si manifestano le ricadute del calo della fecondità.
In particolare, un contesto non sempre inserito a pieno titolo nelle analisi, quasi fosse impermeabile rispetto alle decisioni del mondo politico ed economico, ma spesso ritenuto il primo e unico “responsabile” del calo delle nascite, è la famiglia. La dimensione eminentemente privata della vita e dei rapporti familiari porta facilmente a trascurare l’entità e la rilevanza degli scambi che avvengono con il mercato del lavoro, le istituzioni pubbliche e i sistemi di politiche sociali; in realtà, se è vero che le decisioni di fecondità si realizzano all’interno delle famiglie, è anche vero che tali decisioni – come sostengono molte teorie e come si intende mostrare con l’approfondimento empirico proposto – vengono prese sulla base di condizioni più o meno favorevoli alla nascita di un figlio alla cui definizione non è certo estraneo l’assetto socio-economico di un paese.
I livelli di interazione e le ricadute reciproche sono, dunque, molteplici; il calo della fecondità “produce” non solo famiglie meno numerose, ma ne trasforma anche la struttura e le relazioni in una sorta di circolo vizioso che può favorire il perdurare di una bassa natalità. Se l’aspetto della discendenza familiare non è più quello di un albero – con ramificazioni complesse di figli e nipoti a partire dalla coppia capostipite – ma quella di un baccello – con figlie e nipoti in linea in un’unica sequenza – è evidente come anche i rapporti all’interno della famiglia e tra le generazioni cambino (Di Nicola, 2008). Cambiano dal punto di vista dei figli: senza fratelli né sorelle le relazioni familiari si strutturano solo in senso verticale e vengono meno le forme di competizione e di solidarietà tra pari; cambiano dal punto di vista dei genitori: l’investimento affettivo ed economico che ruota intorno all’unico figlio si fa sempre più rilevante e si moltiplicano le aspettative nei suoi confronti (Livi Bacci, 2001; D’Aloisio, 2007). Tra le principali conseguenze a lungo termine si segnalano, in particolare, la difficoltà delle generazioni di figli unici di sostenere la cura dei propri familiari anziani e la convivenza protratta di genitori e figli adulti con il conseguente rinvio nella formazione di nuove famiglie, entrambi fenomeni dalle molteplici interazioni con il più ampio sistema socio-economico e istituzionale e che richiederebbero, dunque, di essere affrontati all’interno di un orizzonte comune in grado di costruire sinergie e non opposizioni tra i vari ambiti della società.
Considerazioni conclusive
Secondo le stime aggiornate al 2011 delle Nazioni Unite (variante media), nel 2100 la popolazione mondiale supererà il traguardo dei 10 miliardi di individui, pari
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al quadruplo della popolazione registrata nel 1950. Poiché le stime considerano congiuntamente le proiezioni relative all’andamento della mortalità e della fecondità (nell’ultima revisione è prevista anche una variante in cui si tiene conto delle dinamiche migratorie anche se trattandosi di proiezioni sui flussi di spostamento verificatisi degli anni precedenti senza tenere conto di variazioni nella mortalità e/o nella fecondità una volta giunti a destinazione) è facile immaginare come l’incognita principale in previsioni di tale portata sia costituita dall’evoluzione che possono avere i tassi di fecondità nei diversi paesi.
Oscillazioni anche minime possono infatti portare ad esiti molto diversi per effetto del cumularsi delle modifiche nella struttura della popolazione provocate da diminuzioni o rialzi della fecondità sufficientemente duraturi da alterare la piramide delle età. Oltre 9 miliardi di individui separano così lo scenario basso (6,1 mld.) da quello alto (15,8 mld.) e, nel caso di un mantenimento dei tassi attuali, si arriverebbero addirittura a superare i 26 miliardi esseri umani.
Al di là dei facili allarmismi e dell’intervallo quasi secolare considerato (è evidente, infatti, come quanto più l’anno stimato è vicino tanto migliori e più affidabili risultano le stime stesse), le proiezioni a breve-medio termine sulla consistenza delle popolazioni vengono spesso impiegate dai policymaker per valutare l’opportunità o meno di introdurre determinate misure, per calcolarne il costo in base alla popolazione di riferimento, per distribuire risorse pubbliche tra i vari gruppi di età che compongono una popolazione. Per questa ragione, soprattutto in una fase in cui le risorse a disposizione per il finanziamento delle politiche sociali sembrano scarseggiare sempre più, risulta decisivo poter contare su dati certi e affidabili e studiosi provenienti da diverse discipline cercano di contribuire teoricamente ed empiricamente alla comprensione delle dinamiche di fecondità e dei fattori che possono modificarne l’andamento.
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