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Livello sociale – fattori ideali: le teorie della secolarizzazione

Approcci, teorie, modelli esplicativi: il quadro teorico di riferimento

2.6. Livello sociale – fattori ideali: le teorie della secolarizzazione

Le teorie comprese nel quadrante definito dai vertici sociale e ideale raccolgono una serie di contributi esplicativi che, per lo più a partire dagli anni Ottanta, cercano di ovviare ad alcuni dei principali limiti evidenziati nei paragrafi precedenti. In particolare, proponendo una prospettiva centrata sul cambiamento valoriale in corso nelle società contemporanee, le teorie della secolarizzazione tentano di uscire dalle

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strette sia degli approcci economici (macro e micro) sia delle teorie delle preferenze grazie all’analisi di processi che da un lato vanno oltre il singolo individuo, poiché affiancano le più ampie trasformazioni socio-economiche moderne (e post-moderne), e dall’altro allargano la visuale agli aspetti non materiali dell’esistenza, poiché recuperano la dimensione ideale delle trasformazioni in corso. Il riferimento alla secolarizzazione vuole rinviare all’insieme di quei processi di ristrutturazione dei valori, degli ideali e della cultura delle società contemporanee che hanno via via liberato gli individui dai vincoli della tradizione – la religione, la famiglia, la nazione – e che costituiscono il filo rosso che, pur con differenze di accento e di priorità, unisce tutti i modelli esplicativi proposti. Senza entrare nel campo delle percezioni, dei sentimenti e delle decisioni individuali e senza perdere di vista dunque la visione d’insieme, le teorie della secolarizzazione considerano il cambiamento di mentalità che ha avuto luogo a partire dalla metà del ventesimo secolo come il principale fattore causale della diminuzione della fecondità. Tuttavia, proprio in tale assunto di base e nella sua frequente assolutizzazione si cela anche la maggiore debolezza di questi modelli. L’attenzione per la dimensione ideale porta infatti numerosi autori a cadere nell’eccesso opposto rispetto alle teorie esaminate negli altri quadranti (e, in particolare, alle teorie della modernizzazione a cui si contrappongono apertamente), poiché spesso non solo sottovalutano il ruolo del complesso di risorse materiali e strutture sociali che caratterizzano una società nel condizionare le trasformazioni ideali, ma trascurano anche la funzione di mediazione svolta dalle variabili individuali rispetto all’adesione ai nuovi valori considerata per lo più come un processo di acquisizione uniforme e sostanzialmente passivo.

In ogni caso, il punto di partenza delle teorie della secolarizzazione è rappresentato innanzitutto dall’insoddisfazione nei confronti delle teorie della

modernizzazione, per la parzialità delle loro interpretazioni e per l’incapacità di

rendere conto delle dinamiche demografiche emerse fin dalle prime verifiche empiriche (Cleland, Wilson, 1987; Lesthaeghe, Surkyn, 1988; Hammel, 1990; van de Kaa, 2002). Il capitolo conclusivo del rapporto sull’European Fertility Project sosteneva apertamente la necessità di allargare lo sguardo alle trasformazioni prodottesi in campo culturale ed ideale dal momento che i fattori esaminati fino a quel momento non si erano dimostrati in grado di spiegare in modo convincente ed esauriente né i cambiamenti demografici in corso né le differenze nella fecondità tra popolazioni dalle condizioni socio-economiche simili ma diverse rispetto alle tradizioni, al linguaggio, alla religione, ecc. (Coale, Watkins, 1986). Per questa ragione, fin dalla pubblicazione del rapporto, si sono moltiplicati gli studi che hanno cercato di definire ed incorporare nelle spiegazioni anche le cosiddette variabili culturali, scontrandosi tuttavia con la difficoltà di operazionalizzare il concetto stesso di cultura90. La valutazione del contesto culturale inserita nei primi approfondimenti,

90 La difficoltà di traduzione empirica appare evidente se si guarda alla pluralità di sensi in cui il concetto di cultura è stato utilizzato in antropologia (identificatore di gruppi sociali, corpo di tradizione autonoma, insieme di modelli comportamentali coerenti, determinante dell’azione umana,

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infatti, si è spesso tradotta nella semplice inclusione nei modelli di variabili relative alla regione geografica, all’etnia, alla lingua o alla religione, trattate alla pari di tutte le altre, nell’aggiunta di un macro-concetto “cultura” non delimitato, ma identificato come una sorta di termine di errore a cui attribuire la varianza inspiegata quando tutte le altre variabili falliscono o, ancora, in una particolare declinazione delle teorie funzionaliste in cui le specificità culturali sono considerate un set di regole fisse di comportamento e sostituite a quelle socio-economiche come fattori primari di cambiamento in modo altrettanto deterministico (Hammel, 1990; Greenhalgh, 1995; Caldwell et al., 1997; Mason, 1997).

In seguito, però, grazie soprattutto alle contaminazioni con l’antropologia, la “prospettiva culturalista” si è ampliata, interessandosi sempre più alle manifestazioni di razionalità situate cultural-specific, alla capacità di manipolazione simbolica da parte degli individui, all’inclusione nelle analisi dei network di attori sociali significativi, alla necessità di introdurre elementi di definizione del contesto, all’utilizzo di tecniche di analisi miste, quantitative e qualitative (Hammel, 1990; Greenhalgh, 1994; 1995; Kertzer, Fricke, 1997; Bernardi, Hutter, 2007). Le nuove ricerche non solo confermano l’esistenza di contraddizioni nelle interpretazioni convenzionalmente improntate al determinismo economico, ma mettono in luce anche il rischio di produrre spiegazioni tautologiche qualora tutta l’attenzione venga concentrata sulle preferenze o sulla domanda di figli. Non sarebbero, infatti, tanto i cambiamenti nel desiderio di genitorialità e nel costo dei figli a portare ad una riduzione della fecondità, quanto piuttosto le idee che ne hanno provocato la trasformazione e che, prima di tutto, hanno valorizzato la libertà di scelta individuale e reso legittimo il controllo delle nascite (Lesthaeghe, 1980; Cleland, Wilson, 1987). Desideri e costi rappresenterebbero il risultato della diffusione di nuove idee, di un cambiamento ideazionale, molto più incisivo e pervasivo rispetto a quello strutturale, che per la prima volta riconosce agli individui il potere di decidere e governare il proprio destino in tutti gli ambiti vitali, fecondità compresa91.

Il contributo più importante e più noto, che meglio ricostruisce il processo di cambiamento culturale e valoriale verificatosi nei paesi dell’Europa Occidentale a partire dagli anni Sessanta92 illustrandone gli effetti sulla famiglia e sulla fecondità, è

espressione artistica dell’esperienza umana, serie di simboli negoziati tra gli attori sociali) e, soprattutto, la reciprocità dei modelli di relazione tra cultura e comportamento in cui se da un lato la cultura dà forma al comportamento umano nel breve periodo, dall’altro il comportamento umano ridefinisce la cultura nel breve periodo e la trasforma nel lungo periodo (Hammel, 1990, 457).

91 In realtà, alla libertà di scegliere se e quanti figli avere, si affianca anche una crescente “responsabilizzazione” dei genitori rispetto non solo alla cura dei figli, ma anche alla loro riuscita sociale: se avere un figlio è un atto sociale in tutte le società, nelle società contemporanee i valori ideali sottesi a tale comportamento si sono trasformati, enfatizzando al posto della quantità l’importanza di “produrre” figli di elevata qualità e adeguatamente istruiti e rendendo così più difficile la decisione di averne (Preston, 1986, 178).

92 La discesa dei tassi di fecondità fin sotto il livello di rimpiazzo iniziata intorno al 1963 inizialmente viene interpretata come un effetto dello slittamento in avanti nella fecondità delle coorti, ma in seguito gli studiosi si rendono conto che il rallentamento del ritmo delle nascite rappresenta qualcosa di diverso da una strategia di rinvio poiché non si verifica il recupero atteso (van de Kaa, 2002).

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indubbiamente rappresentato dalla teoria della seconda transizione demografica (Lesthaeghe, 1983; van de Kaa, 1987)93. A differenza di quanti spiegano la diminuzione della fecondità come risposta diretta ad una generalizzata riduzione del valore socialmente attribuito a famiglia e figli, i teorici della seconda transizione inseriscono il cambiamento valoriale nel quadro di una più ampia trasformazione ideazionale, quella dal materialismo al post-materialismo (e/o alla post-modernità), che legittimando un “individualismo secolarizzato” promuoverebbe un’ideologia orientata all’autorealizzazione personale e all’emancipazione dai modelli di comportamento tradizionali, in primis dalla norma sociale di formare una famiglia ed avere dei figli (Lesthaeghe, 1983, 415; van de Kaa, 2002). Tale trasformazione (dal carattere autonomo rispetto al cambiamento socio-economico con cui tuttavia appare connessa) si inserisce, a sua volta, nel processo storico di evoluzione del pensiero occidentale che ebbe inizio con la Riforma e con l’Illuminismo94 e che ora, estendendone le dimensioni egualitarie e utilitaristiche, porta a considerare ingiusto e inaccettabile qualsiasi vincolo alla libertà di scelta individuale dettato dai costumi, dalla razza, dal genere, dalla classe sociale (Preston, 1986). Il cambiamento nella struttura costi-benefici (economici e non economici) relativa ai figli non sarebbe dunque sufficiente a spiegare la riduzione della fecondità contemporanea95, perché in assenza di un più generale movimento di secolarizzazione, ispirato tanto alle filosofie umanistiche antiche quanto al materialismo moderno, la fecondità sarebbe in gran parte rimasta nell’ambito del dominio del sacro anziché entrare nell’ambito della scelta individuale96.

Per spiegare la differente natura del declino della fecondità in corso a partire dagli anni Sessanta del Novecento rispetto a quello verificatosi nell’ambito della Prima

93 L’introduzione dell’etichetta “Seconda transizione?” (inizialmente posta come interrogativo) si deve ad un articolo congiunto di Lesthaeghe e van de Kaa, dal titolo “Twee Demografische Transities?”, pubblicato nel 1986 nella rivista olandese Mens en Maatschappij, anche se entrambi lavoravano già da tempo, separatamente, sul tema (van de Kaa, 2002; 2004; Lesthaeghe, 2010).

94 Ai filosofi illuministi si deve infatti la ridefinizione della posizione dell’uomo nell’universo e la legittimazione del principio di libertà individuale; ciò spiegherebbe perché il primo paese a registrare un significativo declino della fecondità sia stato la Francia, alla fine del Diciottesimo secolo, quando i processi tipici della modernizzazione – industrializzazione e urbanizzazione di massa – non erano ancora in corso, ma era più avanzato il processo di secolarizzazione della società – riduzione della condivisione degli ideali religiosi e diffusione delle dottrine umanistiche e materialistiche – mettendo in crisi le spiegazioni macro-economiche della transizione demografica (Lesthaeghe, 1980; 1983; Coale, Watkins, 1986).

95 A suggerire l’esistenza di un fenomeno di cambiamento ideale più profondo rispetto ad una logica di valutazione costi-benefici è la legittimazione man mano assunta dalla scelta di non avere figli (e dalla contemporanea ascesa dell’ideale di due figli come limite massimo della fecondità di una famiglia “normale”) che diventa giustificabile e giustificata non solo in presenza di vincoli economici o temporali, ma anche come scelta di uno stile di vita, esercizio di un diritto individuale, rifiuto della genitorialità (Lesthaeghe, 1983).

96 In un contributo precedente all’elaborazione della teoria della Seconda Transizione, Lesthaeghe approfondisce il rapporto tra controllo sociale e calcolo individuale affermando che il cambiamento del codice culturale che regola l’istituzione familiare e la sessualità (e/o la riduzione del costo della devianza per quanti lo trasgrediscono) rappresenta il primo passo in direzione del cambiamento nel regime della fecondità (Lesthaeghe, 1980).

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Transizione alla fine dell’Ottocento, i teorici della Seconda Transizione si

richiamano alle due motivazioni individuate da Ariès: inizialmente, la dimensione delle famiglie si sarebbe ridotta a causa della volontà dei genitori di garantire il benessere e il successo dei propri figli, ovvero a causa di un sentimento altruistico che li avrebbe portati ad investire maggiori su ciascuno di essi (l’epoca del figlio-re); nel periodo successivo, invece, il declino sarebbe provocato da un sentimento opposto, ovvero da una forma di egoismo per cui le aspirazioni di ascesa sociale e di realizzazione riguardano gli individui e/o la coppia, non più i figli, che anzi finiscono per rivestire un ruolo sempre minore nei progetti di vita dei partner, diventando un’opzione tra tante, liberamente sostituibile con altre esperienze altrettanto gratificanti (Ariès, 1980; van de Kaa, 1987; 2004). Nel secondo periodo, inoltre, il cambiamento ideazionale non riguarda solo i figli, ma anche il modello di famiglia che da famiglia borghese si trasforma in famiglia individualistica: alla famiglia nucleare intesa come istituzione forte e indissolubile, si sostituisce una famiglia debole, non più sacralizzata, che è possibile “sciogliere” quando la vita comune non soddisfa più i partner97, la cui diffusione è testimoniata dal moltiplicarsi di separazioni e divorzi (Lesthaeghe, 1983; van de Kaa, 2002). Il declino della fecondità fin sotto la soglia di sostituzione diventa dunque l’elemento distintivo di una transizione non necessariamente tendente all’equilibrio demografico e caratterizzata piuttosto da fenomeni quali l’invecchiamento progressivo delle popolazioni, l’aumento delle migrazioni, l’accentuarsi dell’instabilità familiare, l’incremento delle nascite extraconiugali ma anche delle coppie che scelgono di non avere figli (Lesthaeghe, 2010).

Per quanto organica e strutturata, neppure la teoria della seconda transizione

demografica è rimasta esente da critiche. Tra le questioni più controverse vi è

innanzitutto la sua stessa ragione d’essere, ovvero se veramente si possano distinguere due diverse transizioni demografiche o se invece non si tratti di fasi diverse di un unico processo98. Alcuni autori sostengono che nel corso della Seconda transizione si sia verificato solo un cambiamento di preferenze e stili di vita, non una vera trasformazione del regime demografico nato con la Prima transizione; così, oltre

97 Nella “nuova” famiglia diventano cruciali i rapporti tra i partner. Il matrimonio non rappresenta più un’istituzione finalizzata alla riproduzione, che consente all’uomo di perpetuare il suo nome e alla donna di avere la sicurezza economica, e dal momento che l’unione tra i partner si basa sull’attrazione, sull’amore, sull’arricchimento emotivo reciproco, la libertà degli individui fa sì che essi abbiano il diritto e la possibilità di entrare e uscire dalla relazione quando tali sentimenti si esauriscono (van de Kaa, 2002).

98 McDonald (2000c) in un articolo in cui passa in rassegna i principali paradigmi utilizzati per spiegare la riduzione della fecondità è ancora più radicale e accusa la teoria della Seconda Transizione di “fallacia ecologica”: l’idea che le società più liberali e secolarizzate hanno una fecondità più bassa rispetto a quelle più tradizionali rappresenterebbe una conclusione (fallace) proveniente dalla constatazione che in ogni società, le donne più istruite, meno religiose e dai valori più liberali hanno in genere meno figli di quelle meno istruite e più conservatrici. In realtà, anziché “accusare” le donne e le società, occorrerebbe rendersi conto di quanto la bassa fecondità rappresenti un fenomeno sociale legato alla struttura delle istituzioni di ciascuna società.

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a non poter essere etichettata come “transizione”99 – perché dovrebbe trattarsi di un movimento completo, irreversibile e condiviso dalla maggior parte degli individui tra due diversi modelli demografici – non potrebbe neppure essere definita “demografica” – perché al centro della seconda transizione non ci sono fenomeni demografici come la mortalità, le migrazioni, l’invecchiamento della popolazione, ecc. ma solo un cambiamento nei modelli di costituzione della famiglia – e nemmeno “seconda” ma “secondaria” – perché lo stesso tipo di cambiamento sarebbe alla base di entrambe e anche fenomeni considerati tipici della post-modernità, quali l’aumento dei divorzi100, sarebbero in realtà spiegabili all’interno dei quadri concettuali classici (Cliquet, 1992; Coleman, 2004)101.

Altri autori sottolineano poi la potenziale circolarità della spiegazione di un cambiamento – dei comportamenti – con un altro cambiamento – dei valori –, l’esiguità dei riscontri empirici a supporto del legame ipotizzato tra valori post- moderni/post-materialisti e andamento della fecondità (van de Kaa, 2001; 2002; Kertzer et al., 2006) e, soprattutto, ancora una volta, la difficoltà di rendere conto di fenomeni di riduzione delle nascite manifestatisi in modi, tempi e luoghi diversi dalle previsioni102 (McDonald, 2001; Caldwell, Schindlmayr, 2003; Dalla Zuanna, Micheli, 2004; Coleman, 2004).

In ogni caso, pur con le debolezze evidenziate (a cui gli autori nel tempo hanno cercato di porre rimedio, ridefinendo alcuni degli aspetti più controversi) e nonostante non si presenti come una teoria generale (candidandosi piuttosto come teoria di medio raggio), la teoria della Seconda Transizione sembra rappresentare, fino ad oggi, uno dei tentativi più riusciti di rendere conto dei cambiamenti nella fecondità in corso, definendo un concetto ormai consolidato, quasi una sorta di

99 Nello stesso volume monografico (Vienna Yearbook of Population Research, 2004) in cui compare l’articolo di Coleman, van de Kaa propone di sostituire il termine transizione con quello di rivoluzione, riprendendo Landry, per indicare un cambiamento nel regime demografico non un passaggio da uno stato di equilibrio ad un altro. Inoltre sottolinea la differenza tra i principi guida delle due trasformazioni: nel primo caso si trattava, nei termini di Landry (1982), della razionalizzazione della vita, nel secondo del diritto all’autorealizzazione (van de Kaa, 2004).

100 In particolare, i divorzi andrebbero visti come un’alternativa allo scioglimento delle unioni provocato, nel passato, dalla maggiore mortalità, mentre nel caso delle forme di unione, se ogni cambiamento rappresentasse una transizione, quello in corso rappresenterebbe il quarto o il quinto, non il secondo (Coleman, 2004, 13).

101 Per una “difesa” puntuale da parte dei teorici della Seconda Transizione, si vedano in particolare van de Kaa (2004) e Lesthaeghe (2010).

102 Le relazioni ipotizzate nell’ambito della Teoria della Seconda Transizione in un primo tempo appaiono confermate (anche se con ritmi e intensità diverse nei diversi paesi europei) e tanto la diffusione di valori secolarizzati quanto le modifiche nei modelli familiari si accompagnano effettivamente ad una progressiva riduzione del numero delle nascite, particolarmente evidente nei paesi del Nord Europa. In seguito, però, a partire dagli anni Novanta, i rapporti tra secolarizzazione e fecondità si invertono: i paesi a bassa e bassissima fecondità diventano quelli mediterranei, caratterizzati dai comportamenti familiari più tradizionali – minore numero di divorzi, di coabitazioni

more uxorio, di nascite fuori dalle unioni formali ed elevata propensione dei giovani a rimanere in

famiglia fino al matrimonio – mentre i paesi del Nord Europa, con maggiori livelli di secolarizzazione, individualizzazione e de-familizzazione, mostrano una risalita dei tassi di fecondità che li avvicina alla soglia di sostituzione (Kohler et al., 2002; Micheli, 2004; Sobotka, 2008; Lesthaeghe, 2010).

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mainstream, sulla cui scia si muovono la maggior parte dei contributi contemporanei

(Lesthaeghe, Surkyn, 2002; van de Kaa, 2004; Sobotka, 2008). Tra gli aspetti più interessanti merita di essere segnalata la possibilità di connettere il piano sociale con il piano individuale dell’analisi (Lesthaeghe, 2010). Benché nasca come teoria macro-sociale, l’aver identificato tra i processi centrali uno spostamento ideale da valori orientati alla collettività a valori individualistici implica l’acquisizione di una nuova sensibilità rispetto ai processi soggettivi di condivisione di tali valori e alla traduzione degli stessi in specifici comportamenti familiari e riproduttivi, tanto che gli autori stessi si spingono più volte a verificare le relazioni ipotizzate attraverso dati individuali oltre che aggregati (Lesthaeghe, Needs, 2002; van de Kaa, 2001;). Tuttavia, soprattutto in un’ottica di analisi che si proponga di tenere conto anche del livello individuale, resta il limite (ridimensionato nei contributi più recenti) di una scarsa considerazione rivolta agli aspetti materiali dell’esistenza e alle differenze in termini di vincoli e opportunità derivanti dalla posizione nella struttura sociale che possono incidere in modi diversi sull’interiorizzazione e la negoziazione di quegli stessi valori diffusi nella società103, oltre che, ovviamente, sulle possibilità concrete di tradurre i valori condivisi in comportamenti.

Una parziale risposta all’esigenza di non ignorare la struttura sociale può essere individuata in un contributo proposto da Caldwell (2004b), in cui l’autore non intende formulare una nuova teoria ma, non condividendo l’idea della Seconda

transizione demografica e ritenendo il mutamento ideazionale solo uno degli

elementi in gioco, vede nei modelli familiari contemporanei il risultato di lungo periodo di trasformazioni strutturali e culturali, iniziato con la diffusione dei modi di produzione industriali. Nel tempo, infatti, si sarebbero succeduti tre modi di produzione – caccia-raccolta, agricoltura sedentaria, produzione industriale – ciascuno caratterizzato da un proprio modello di sistema sociale e da una propria moralità che non solo necessita delle condizioni adatte per trasformarsi, ma lo fa solo lentamente, spesso sopravvivendo in alcuni aspetti anche quando il modo di produzione è cambiato (in particolare per ciò che riguarda la famiglia e i costumi sessuali). La seconda transizione demografica andrebbe dunque collocata all’interno di un unico e più generale processo di trasformazione familiare e di riduzione della fecondità, prodotto in primo luogo da mutamenti in ambito socio-economico, a cui seguono quelli in ambito culturale e valoriale (tra cui a partire dagli anni Sessanta un ruolo di rilievo spetta all’aumento dell’istruzione, dell’occupazione e dell’emancipazione femminile), che non necessariamente appare destinato a concludersi in tempi brevi. La possibilità che si verifichi uno “sfasamento” tra modi di produzione, sistema sociale e moralità consente al modello di Caldwell di spiegare anche le incoerenze riscontrate rispetto alla seconda transizione: a causa di uno

103 Maggiore attenzione è invece prestata alle caratteristiche del contesto e ad eventuali fenomeni di path-dependency che possono influire sul modo in cui si realizza la trasformazione ideazionale a livello collettivo e che consentono anche di spiegare in parte anche le divergenze tra relazioni ipotizzate e verificate in alcuni paesi (Lesthaeghe, 2010).

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specifico contesto socio-economico e culturale – caratterizzato da elevata disoccupazione, asimmetria di genere, morale conservatrice e patriarcale, ridotta sensibilità sociale per la genitorialità – nei paesi mediterranei le donne si

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