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Livello individuale – fattori materiali: le teorie della scelta razionale

Approcci, teorie, modelli esplicativi: il quadro teorico di riferimento

2.4. Livello individuale – fattori materiali: le teorie della scelta razionale

L’attenzione per gli aspetti concreti dell’esistenza, centrale nella teoria della Transizione Demografica, è alla base anche delle teorie comprese nel quadrante delimitato dagli assi individuale/materiale che, tuttavia, anziché interrogarsi sui processi socio-economici alla base delle variazioni nei tassi di fecondità aggregati, pongono la questione in termini di scelte riproduttive dei singoli individui e/o a livello di nucleo familiare53. Al centro dell’analisi vi sono le valutazioni e le decisioni soggettive rispetto all’avere o meno un(altro) figlio, ricostruite secondo modelli diversi, in grado di includere un numero più o meno elevato di fattori e di tenere conto in varia misura delle circostanze esterne, ma tutti accomunati da un paradigma individualista che attribuisce ai singoli o alle famiglie la libertà (e la responsabilità) di una scelta che essendo basata sul criterio razionale del bilanciamento costi-benefici ha indotto ad etichettarle come teorie della scelta

razionale54. A partire dalla fine degli agli anni Cinquanta, l’insoddisfazione nei

53 In realtà, la teoria micro-economica assume che il nucleo familiare operi come se fosse un singolo individuo, attirandosi numerose critiche per aver ignorato l’esistenza di conflitti di ruolo o di dinamiche di potere intra-familiari (Blake, 1968; Leibenstein, 1974; de Bruijn, 2006).

54 Per un’articolata esposizione delle caratteristiche dei comportamenti riproduttivi che rendono difficile inquadrarli all’interno della cornice teorica della scelta e analizzarli come comportamenti economici, si rinvia, oltre ai commenti di Duesenberry e Okun (in Becker, 1960), in particolare a Blake (1968), Willis (1973), Easterlin (1975), de Bruijn (1999). per quanto riguarda, invece, più in generale il tema della razionalità, della concezione dell’uomo come homo oeconomicus, del ruolo della scelta razionale in sociologia e della concettualizzazione dell’homo sociologicus a Simon (1978), Lindenberg (1990) Boudon (2003), Boudon (2006).

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confronti dei modelli interpretativi macro-economici classici, incapaci sia di rendere conto della varietà di comportamenti riproduttivi riscontrabili all’interno dello stesso paese sia di reggere alla verifica empirica dei propri assunti, induce un numero crescente di studiosi, soprattutto di formazione economica, ad affrontare la spiegazione delle dinamiche demografiche attraverso gli apparati concettuali e gli strumenti di analisi della micro-economia e a concentrare l’attenzione sui processi di scelta individuali.

Il punto di partenza è dunque costituito dall’assunto che dietro alla scelta di avere un(altro) figlio vi sia un processo decisionale, nel corso del quale i costi e i benefici vengono pesati da un soggetto perfettamente razionale che agisce come un consumatore di fronte alla prospettiva di acquisto di un bene, ovvero con l’obiettivo di massimizzare l’utilità legata al possesso di tale bene rispetto all’investimento economico necessario per ottenerlo. Si tratta, evidentemente, di un assunto che implica un’astrazione molto forte dalla realtà quotidiana di individui e famiglie, che presuppone un modello di comportamento scevro da emozioni e influenze di ogni tipo (difficile da riscontrare anche a proposito dell’acquisto di beni di consumo) che, almeno nelle declinazioni più datate, soffre di alcune criticità difficilmente emendabili: dall’assimilazione dei figli a beni di consumo alla mancanza di attenzione all’ambiente di vita, dal disinteresse per le dinamiche di potere interne al nucleo familiare al presupposto delle preferenze fisse, dalla definizione del concetto di qualità a quello di nucleo familiare e di razionalità (Blake, 1968; Willis, 1973; Simon, 1978; Hakim, 2003a; de Bruijn, 2006). Ciononostante, le teorie micro- economiche hanno dominato a lungo (e sono tuttora utilizzate) la scena della ricerca sull’andamento della fecondità, ponendosi sostanzialmente come contraltare delle teorie comprese nel quadrante della modernizzazione, considerate troppo generali per rendere conto dei comportamenti concreti degli individui e troppo ampie per poter essere adeguatamente tradotte in ipotesi, operazionalizzate e verificate.

La prima interpretazione del comportamento riproduttivo completamente pensata in chiave micro-economica è proposta da Leibenstein (1957). Egli introduce l’idea che la dimensione della famiglia sia il frutto di una decisione consapevole presa da individui che valutano simultaneamente, secondo una logica costi-benefici, l’utilità e la disutilità di avere un(altro)55 figlio, considerato un “commitment good” ovvero un bene che riflette la scelta di un impegno a lungo termine e non un impulso momentaneo (Leibenstein, 1975, 10). Per quanto riguarda il versante dei benefici, un figlio, oltre ad avere un valore di per sé come fonte di soddisfazione personale, rappresenta un vantaggio in termini di lavoro e di reddito forniti alla famiglia e diventa un elemento utile per la sicurezza e l’aiuto materiale in età anziana. Sul versante opposto, i costi comprendono tanto le spese dirette come quelle per

55 L’attenzione di Leibenstein si concentra sui figli di ordine superiore al secondo (1974), assumendo che per i primi due prevalgano gli aspetti affettivi considerati indipendenti dal reddito familiare e le valutazioni razionali della loro utilità/disutilità vengano compiute solo dal terzo in poi, quando la funzione di utilità marginale comincia a decrescere.

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l’alimentazione, l’abbigliamento, l’istruzione quanto i costi indiretti, legati alla rinuncia da parte dei genitori a svolgere altre attività, sia ricreative sia lavorative, per avere il tempo di accudirlo.

Il problema principale di un modello costi-benefici puro risiede nel fatto che conduce a risultati in contraddizione con le dinamiche in corso nelle società studiate (prevalentemente americana ed europea). Secondo la teoria economica infatti, all’aumentare del reddito disponibile aumenta anche la quantità di beni consumati, mentre la realtà sembra andare in direzione opposta e le famiglie con i redditi più elevati hanno meno figli di quelle con redditi più modesti. In generale, tale contraddizione è spiegata assumendo che il costo dei figli e le spese necessarie per allevarli siano più alte per le famiglie più abbienti e tendano a crescere in modo più che proporzionale rispetto al reddito a fronte di un’utilità fornita dall’avere un(altro) figlio che decresce con l’aumentare del loro numero. Tuttavia, è proprio su questo punto e, in particolare, a proposito della possibilità riconosciuta ai genitori di controllare o meno i costi legati ai figli che si concentrano i contrasti maggiori tra le spiegazioni micro-economiche dei comportamenti di fecondità.

Secondo Leibenstein, il valore monetario delle spese necessarie per i figli aumenta a priori, indipendentemente dalla volontà dei genitori, all’aumentare del reddito familiare innanzitutto perché i figli delle classi superiori richiedono un’istruzione più prolungata che comporta maggiori costi, diretti e indiretti, e in secondo luogo perché impedisce ai figli stessi di dedicare tempo al lavoro per la famiglia e di essere produttivi. A determinare il numero dei figli non sarebbe dunque l’ammontare del reddito del nucleo familiare, ma il costo che deve essere sostenuto per ciascuno di essi e che si trova fuori dalle possibilità di controllo dei genitori. Leibenstein, partendo dalla constatazione che nessun singolo aspetto – né economico né sociale – preso singolarmente è in grado di offrire una spiegazione completa, tenta un’integrazione della teoria micro-economica con le teorie della modernizzazione e dell’influenza sociale tra gruppi (Leibenstein, 1974). Il costo e l’utilità marginale dei figli varierebbero in relazione alla condizione economica familiare perché l’aumento del reddito e dello status delle famiglie, provocato dalla modernizzazione, avrebbe modificato le preferenze dei genitori rispetto al tipo di beni e servizi necessari per l’allevamento dei figli e all’acquisizione di beni in competizione con i figli.

Il cambiamento della curva di indifferenza relativa ai figli, fino a renderli sostituibili con altri beni, è frutto di un processo di influenza sociale che si sviluppa all’interno dei gruppi dallo status sociale diverso in cui è suddivisa la popolazione. Ciascun gruppo ha degli obiettivi standard rispetto allo stile di vita da sostenere, ai livelli di consumo e alla dimensione familiare e le famiglie che vi appartengono sono spinte dall’emulazione e dalla competizione a cercare di raggiungerli, utilizzando parte del proprio reddito per acquisire beni rappresentativi necessari per esprimere e mantenere il proprio status. Tuttavia, i diversi modelli di preferenze prescrivono livelli di consumo dei beni di status proporzionalmente maggiori per i gruppi dal reddito più elevato cosicché, comprimendo in misura rilevante il reddito delle

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famiglie più abbienti (che, sempre a causa del medesimo processo di influenza sociale, devono sostenere anche i maggiori costi per i figli), spostano il punto in cui l’utilità marginale dei figli comincia a calare e, rendendoli “sostituibili”, ne riducono il numero (Leibenstein, 1975). Se invece si osservano gli individui collocati all’interno di uno stesso livello di status sociale, l’equazione più reddito-più figli ritorna ad essere valida dal momento che i “relativamente più ricchi” si trovano ad avere minori vincoli di bilancio, la stessa utilità per figlio e, in proporzione, un minor costo da sostenere.

Rispetto ai modelli economici puri, il contributo di Leibenstein ha indubbiamente il pregio notevole di prendere in considerazione alcuni fattori sociali e di prestare attenzione anche ai conflitti e alle dinamiche di potere intra-familiari (Leibenstein, 1975); tuttavia poiché i modelli proposti non sono accompagnati da nessuna applicazione empirica, né offrono suggerimenti o indicazioni per farlo, il loro limite maggiore è di mantenersi sempre su un livello di astrazione formale elegante ma difficile da verificare.

È forse anche per questo che il modello più noto ed utilizzato nella ricerca e nell’analisi dei comportamenti riproduttivi (nonostante le restrizioni e i presupposti di base appaiano talvolta troppo vincolanti in un ambito come quello delle scelte di fecondità) è quello introdotto da Becker come teoria della scelta del consumatore o

new home economics, in cui la teoria della scelta razionale del consumatore è

applicata alla “produzione” di figli (Becker, 1960). Partendo dal presupposto che gli individui siano in grado di controllare la propria capacità generativa (avendo accesso ai mezzi contraccettivi necessari56) e abbiano come obiettivo quello di massimizzare l’utilità del bene-figlio57, Becker si propone di studiare le decisioni riproduttive a partire da tre concetti chiave: il reddito del nucleo familiare, il costo dei figli e le preferenze di allocazione delle risorse. Nella sua rivisitazione della teoria economica neoclassica la scelta di diventare genitori è dunque il frutto di una valutazione

56 Becker ritiene che anche nelle società dove non sono diffusi i contraccettivi moderni resti uno spazio di decisione rispetto alla dimensione familiare, controllabile attraverso il ritardo del matrimonio, l’astinenza o l’aborto. Tuttavia, in considerazione della forte influenza sociale che tende a concentrarsi su tali pratiche (Davis, Blake, 1956), è solo nel momento in cui la diffusione delle informazioni sulla contraccezione consente una separazione tra rapporto sessuale e controllo delle nascite che si riscontra un’autonomia decisionale sufficiente per parlare propriamente di scelta razionale. In particolare, secondo Becker, nelle società dove i mezzi contraccettivi sono disponibili, sarebbe proprio la mancanza di sufficienti informazioni tra le famiglie a basso reddito a spiegare il divario tra il numero dei figli desiderati e quello, più elevato, dei figli generati che contraddice con il reddito (Becker, 1960; Blake, 1968). Altri autori considerano invece eccessivo presupporre una simile autonomia anche nelle società contemporanee, dal momento che la regolazione della fecondità non sarebbe in ogni caso del tutto priva di costi – economici e/o psicologici (Easterlin, 1975).

57 Per una critica puntuale all’assimilazione dei figli a beni di consumo si rinvia in particolare a Blake (1968) che, spostando l’attenzione dalle sole considerazioni economiche sulle norme e i valori della società ritiene che i genitori non siano realmente liberi di decidere il numero dei propri figli, non possano sceglierne la qualità (ad esempio a causa di fattori genetici), non possano cambiarli se non sono soddisfatti di loro, non possano usarli (e abusarne) come farebbero con altri beni.

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razionale costi-benefici effettuata in relazione alle proprie preferenze58 e alle proprie risorse con l’obiettivo di raggiungere il miglior compromesso tra quantità e qualità dei figli, tenuto conto del fatto che mentre il costo cresce, l’utilità di un(ulteriore) bene-figlio diminuisce con l’aumentare del loro numero59. I genitori devono decidere l’entità dell’investimento che sono disponibili a fare sui figli, sapendo che si tratta di

beni durevoli, che richiedono un investimento economico e temporale prolungato e

che, se ne limitano il numero, possono mettere a disposizione di ciascuno maggiori risorse e accrescerne tanto il valore quanto le opportunità future60.

Tuttavia, come si è già visto, se è vero che la disponibilità di risorse da investire aumenta con l’aumentare del reddito familiare – rendendo teoricamente possibile un aumento della quantità – nella realtà ciò non avviene perché il contemporaneo aumento dei costi per crescere i figli riduce il vantaggio del maggior reddito. La soluzione individuata da Becker per spiegare tale contraddizione consiste nell’introdurre il concetto di qualità dei figli attraverso cui “giustifica” l’aumento dei costi per le famiglie più ricche. A differenza di Leibenstein, però, e portando all’estremo la similitudine tra teoria micro-economica della riproduzione e teoria dei consumi, Becker sostiene che l’aumento di tale costo non è legato ad un incremento automatico delle spese necessarie per allevare figli in una famiglia dal reddito elevato, ma è frutto di una libera scelta dei genitori benestanti, che in generale rispecchia il loro comportamento rispetto a tutti i beni di consumo, di avere figli di qualità superiore.

In questo caso, l’obiettivo è dimostrare come non si tratti di un aumento del costo dei beni/figli in sé dovuto ad un aumento dei beni necessari per allevarli (fatto che sarebbe fuori dal controllo dei genitori), ma come l’aumento del costo dei figli sia invece riconducibile ad una scelta precisa dei genitori che desiderano accrescere la qualità dei propri figli investendo di più su di loro in termini di beni e servizi61.

58 Gli studiosi di matrice economica tendono a non fondare le proprie spiegazioni sulla variabilità delle preferenze poiché non esistendo una teoria affidabile sulla formazione delle preferenze stesse, le spiegazioni finirebbero per basarsi su qualcosa che a sua volta non può essere spiegato; di conseguenza restringono anche le loro analisi agli aspetti monetari considerando le preferenze incorporate in variabili proxy come età, istruzione, occupazione, status, ecc. e desumibili dai comportamenti stessi poiché stabili, fisse nel tempo e uguali per tutti gli individui (Becker, Lewis, 1973; de Bruijn, 1999). Per un’approfondita discussione sull’origine, la definizione e il ruolo delle preferenze nell’ambito delle teoria micro-economica si rinvia a Lesthaeghe, Surkyn (1988).

59 Per quanto riguarda nello specifico l’”ammontare” dell’utilità che i figli garantiscono ai genitori, trattandosi di beni “autoprodotti” e dal “risultato” incerto, Becker ritiene utile introdurre la distinzione tra utilità attesa e utilità effettiva dal momento che non si tratta di beni acquistati finiti sul mercato (1960).

60 Secondo Okun sarebbero proprio le differenze nell’investimento che viene fatto per i figli a seconda del reddito e dello status familiare a renderli beni diversi da tutti gli altri beni di consumo che invece presentano un prezzo uguale per tutti: il costo minimo per un figlio nelle famiglie con basso reddito e a basso status è inferiore a delle famiglie con elevato reddito e status perché i figli non possono essere cresciuti in condizioni di vita molto più basse di quelle dei genitori per cui il loro costo è riferito alla media del gruppo sociale a cui la famiglia appartiene (Okun, 1958, cit. in Andorka, 1978, 31).

61 In proposito va ricordato come Becker nella formulazione del 1960 escluda esplicitamente l’esistenza di pressioni sociali in grado di definire l’investimento auspicabile per le diverse classi sociali, attribuendo l’esigenza di un aumento della qualità dei figli ad una semplice preferenza e

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L’equazione ammontare del reddito-numero di figli viene riformulata nei termini di una preferenza per la qualità rispetto alla quantità per cui all’aumentare del reddito si preferisce avere un minor numero di figli di alta qualità piuttosto che molti figli di bassa qualità (Becker, Lewis, 1973). I genitori dunque scelgono consapevolmente e razionalmente non solo il valore ottimale dei propri consumi, del numero dei figli e dell’investimento da fare su ciascuno di essi62, ma anche il “tipo” di figli che vogliono a seconda del livello di qualità desiderato.

Ad aumentare il costo sostenuto dalle famiglie per crescere figli di qualità contribuisce anche la necessità di aumentare l’investimento temporale dei genitori nel prendersene cura che, ancora una volta, risulta più oneroso per le famiglie più ricche. Con l’aumentare del reddito percepito dai genitori, infatti, aumenta anche il

valore del tempo dedicato ai figli poiché corrisponde al guadagno potenziale a cui i

genitori hanno rinunciato sottraendo tempo al proprio lavoro per trascorrerlo con i figli. La ripresa del concetto di costo indiretto introdotto da Leibenstein (1974) e l’introduzione della funzione di allocazione del tempo (Becker, 1965) consente a Becker non solo di chiarire meglio il paradosso del basso numero di figli presente nelle famiglie con redditi elevati, ma anche di “giustificare” le disuguaglianze di genere nella divisione dei compiti di cura all’interno delle coppie in cui entrambi i partner sono occupati. In questo caso, infatti, poiché, in generale, gli uomini percepiscono redditi superiori diventa più efficiente per il bilancio familiare diversificare gli investimenti temporali: l’uomo aumenta le ore di lavoro retribuito riducendo ulteriormente quelle di lavoro domestico, mentre la donna aumenta le ore di lavoro domestico diminuendo il proprio impegno per il mercato (Becker, 1991).

Nonostante i tentativi di ampliare il quadro interpretativo63, la lettura offerta da Becker delle decisioni di fecondità resta ancorata all’idea di un individuo- consumatore-decisore decontestualizzato, statico, onnisciente ed egoista, caratterizzato da una razionalità economica volta esclusivamente alla massimizzazione dell’utilità secondo una funzione che si presume identica per tutti, senza alcun riconoscimento non solo dei propri limiti e bisogni psicologici e cognitivi, ma neppure dei processi socio-economici generali (come invece aveva fatto Leibenstein) né delle caratteristiche socio-culturali e demografiche della società a cui appartiene (Lindenberg, 1990; de Bruiin, 2006). Inoltre, basandosi sull’assunto

confutando su tale base Leibenstein che invece riteneva che una spesa maggiore in favore dei figli fosse necessaria per i genitori delle classi abbienti.

62 Per i dettagli relativi agli equilibri quantità/qualità dei figli legate al rapporto tra reddito da capitale e reddito da lavoro, alle modifiche nella tassazione e del sistema di sicurezza sociale, alla propensione al risparmio e al rendimento dell’istruzione si rinvia a Becker (in particolare, 1988).

63 Si segnala come nel tempo, oltre ad approfondire le modalità e le caratteristiche dell’interazione qualità/quantità (Becker, Lewis, 1973), Becker cerchi di integrare nell’equazione generale la funzione di allocazione del tempo, considerandola in modo analogo ai vincoli economici, a sfumare la pretesa di razionalità assoluta, riconoscendo il costo dell’attività di ricerca delle informazioni, a riconoscere il problema dell’interazione sociale e della diversa dotazione di capitale umano e non dei figli, e ad inquadrare le decisioni in un’ottica generazionale secondo cui la massimizzazione dell’utilità dei figli avverrebbe ed andrebbe valutata in chiave dinastica e tenendo conto anche dell’andamento più generale dell’economia.

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di una perfetta capacità di controllo della fecondità garantita dalla conoscenza dei mezzi anticoncezionali, nessuna attenzione viene prestata al lato dell’offerta ovvero della “produzione” di figli e agli eventuali costi di regolazione.

L’obiettivo di colmare tale carenza e di includere all’interno del paradigma economico alcuni concetti sociologici e demografici64 è alla base della sintesi di

Easterlin (1975)65 i cui fattori centrali sono costituiti da: la domanda di figli – il

numero di figli che una coppia desidererebbe se il controllo della fertilità non avesse costi; la produzione potenziale di figli – il numero di figli che avrebbe in assenza di deliberate limitazioni della fecondità; il costo della regolazione della fecondità – cioè i costi psichici, sociali, economici e temporali. In continuità con la teoria micro- economica, la domanda dipende dalle preferenze del nucleo familiare per i figli e/o per altri beni, definite non solo a partire dai vincoli di reddito e dall’equilibrio costi- benefici associato ai figli, ma anche dalle norme sociali relative alla dimensione familiare e alla qualità dei figli cosicché il numero di figli desiderati (di qualità standard) aumenterà all’aumentare del reddito familiare, diminuirà al crescere del costo dei beni per i figli (con un effetto sostituzione rispetto anche alla qualità) e diminuirà all’aumentare delle preferenze soggettive per figli di qualità più elevata. La produzione, invece, riflette le determinanti naturali della fecondità come la frequenza dei rapporti, la sterilità, la mortalità intrauterina, ecc. nonché le prospettive di sopravvivenza che dipendono da caratteristiche biologiche, fisiologiche e in parte

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