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Subiaco al tempo di Assisi Le Storie di san Benedetto negli spazi della cripta

II.1 Lo stato della cripta prima dell’intervento di Conxolus

A conclusione delle campagne di primo Duecento, la cripta doveva presentarsi in uno stato di sostanziale compiutezza: i sistemi di copertura approntati, il piano di

calpestio uniformato a un livello più alto di quello attuale1 [figg. II.1, 2], l’imbocco

a settentrione della Scala Santa probabilmente già monumentalizzato dall’arco trionfale [fig. II.3], per via della solidarietà delle sue strutture con il corridoio di Santa Chelidonia.

La fluida e ampia spazialità che connota gli ambienti del santuario accoglieva degnamente il cammino dei pellegrini che si svolgeva secondo un percorso con asse preferenziale ascensionale; Marina Righetti enucleava le somiglianze di tale assetto con quelli già tipici dei santuari della Terra Santa, disponendo così le battute seminali di un dibattito sul rapporto tipologico del complesso specuense con i loci sancti medio-orientali che solo in tempi recenti ha avuto sviluppi ulteriori2.

Nei primi decenni del secolo, il sentiero principiava dalla Porta Sancti Benedicti, muovendo lungo il dorso della Scala Santa che, almeno in un primo momento,

correva forse con rampa unica fino alla campata rialzata a settentrione3 [fig. II.4]; la

sistemazione successiva della Scala la mise in forme non distanti dalle attuali4,

determinandone il frazionamento in due parti e producendo l’articolazione spaziale della cripta in due campate sovrapposte [fig. II.5], collegate da un breve tratto di scala.

Né i ragionamenti sulla cronologia relativa delle diverse fasi architettoniche della cripta, né l’ausilio di elementi scultorei o di plastica architettonica – inesistenti o dalle linee estremamente semplificate, tanto che i capitelli e le mensole furono poi decorate con motivi pittorici illusivi [fig. II.6] – riescono a dare una datazione più ferma per questo cambiamento spaziale; tuttavia, si può provare a trarre qualche considerazione aggiuntiva analizzando la porta che è collocata alla destra della Santa Nitidia5, sul muro orientale della campata inferiore, e che immette oggi nella sala adibita a coro di notte [fig. II.7]. Essa era già esistente al tempo dell’esecuzione degli affreschi di fine Duecento, che difatti ne rivestono lo sguancio con ritmi fitomorfici a racemi ritorti e fioriti, su fondo ocra [fig. II.8], sul genere dei partiti ornamentali del fascione con i Profeti nel transetto sinistro di Santa Maria Maggiore a Roma [fig. 1 Gli affreschi, infatti, danno chiaramente la traccia della quota originaria del piano di calpestio. 2 Cfr. RIGHETTI 1982a, pp. 132-134. Ringraziando il prof. Michele Bacci per la segnalazione

bibliografica, aggiungo SCAFI 2014 per gli sviluppi più recenti; sembra molto pertinente, in

particolare, il rilievo dato a un preciso aspetto che assimila più di altri lo Speco ai santuari della Terra Santa, ovvero il culto del santo in absentia della sua presenza reliquiale (ivi, p. 50). Per un’interpretazione e giustificazione delle connessioni tipologiche enunciate nel contesto della politica innocenziana e della volontà del pontefice di una translatio Terrae Sanctae in Occidente, cfr. ivi, p. 55, ma anche BOLTON 2010.

3 Ibidem.

4 Si suppone che in origine il percorso della Scala fosse più ripido di quello attuale e tale da

eguagliare la quota originaria del piano di calpestio della campata meridionale.

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II.9]. Nella lunetta sommitale del prospetto interno si trova un’altra pittura, una Madonna con Bambino, piuttosto malconcia e ridipinta ma di probabile esecuzione

primo-duecentesca6. Non è chiara la funzione di questo secondo accesso, ancor più

se si pensa che esso non comunicava in origine con gli ambienti monastici del

versante occidentale, ancora inesistenti nei primi decenni del Duecento7; sarà

dunque da pensare che essa costituisse un ingresso diretto dall’esterno alla cripta raccordato a una strada a più agevole percorribilità, la stessa che proseguendo avrebbe condotto, in un momento appena più tardo, all’estremo accesso orientale del monastero, ovvero alla Porta dei Muli [fig. III.54, 55], punto di transito di cui si parlerà diffusamente nel capitolo seguente, messo probabilmente in opera nel secondo quarto del secolo contestualmente all’edificazione degli ambienti superiori,

come assicura la tipologia del suo rifinimento murario8.

Dall’ipotetico riconoscimento dell’originaria funzione di ingresso ‘di servizio’ alla porta del coro di notte consegue la necessità di congetturare l’esistenza di uno spazio di andito ad essa antistante, situato al livello della campata inferiore, che accogliesse i visitatori e ne favorisse lo smistamento nella cripta. La ricostruzione prospettata dalla Righetti, con l’ampio scalone che ingombra l’intero piano del santuario [fig. II.4], può forse essere per questo considerata valida solo per la fase

precedente alla renovatio dei primi decenni del Duecento9; più plausibile invece che

con gli interventi architettonici seguiti alla riforma innocenziana, illustrati nel capitolo precedente, la campata inferiore fosse già stata dotata di un invaso ampio, non ingombrato dalla scala, e di un piano di calpestio uniforme.

A seguito dell’edificazione degli ambienti monastici sul versante orientale – in particolar modo del refettorio e delle stanze correlate – dovette avvenire poi il cambiamento di funzione della porta, non più in comunicazione con l’esterno ma

con gli spazi cenobitici10, al punto da divenire poi preferenziale rispetto al più antico

andito di passaggio collocato al livello della campata superiore11.

Nel contesto del recupero filologico dell’assetto duecentesco della cripta, merita una nota di approfondimento, per le conseguenze che poi ne deriveranno, l’attuale ubicazione della scala di collegamento tra i due livelli sovrapposti 6 La Madonna con Bambino del coro di notte è citata solo da HERMANIN 1904, p. 433, che la

accorpa al gruppo del pittore del San Francesco, ovvero del Terzo maestro di Anagni.

Nelle ricostruzioni proposte la Righetti non considera la preesistenza dell’affresco e dà al varco una datazione primo-trecentesca (cfr. RIGHETTI 1982a, p. 132).

7 È probabile che una parte cospicua degli spazi monastici degli ambienti inferiori venisse

costruita alla metà del secolo, sotto il governo dell’abate Enrico, com’è emerso da una recente analisi archeologica delle rifiniture murarie effettuata da Luchina Branciani (BRANCIANI 2016,

pp. 275-287).

8 Si vedano in proposito GIOVANNONI 1904, pp. 390-391; BRANCIANI 2016, pp. 280-287.

9 RIGHETTI 1982a, p. 130.

10 Sulla cronologia di questi spazi, cfr. §III.3.1, nota 56, dove si propongono considerazioni

divergenti da quelle presentate da Roberta Cerone (in CERONE,CHECCHI,BERNARDINI 2016,

pp. 118-123) che tende ad avanzare ai primi decenni del Trecento l’edificazione degli spazi monastici del livello inferiore in virtù di una datazione troppo tarda del blocco occidentale superiore (dormitorio), al quale i primi forniscono il fondamento statico.

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dell’invaso, che si trova addossata alla parete orientale [fig. II.10]. L’allestimento non è originale, ma frutto dei rifacimenti promossi nel 1595 dall’abate Giulio Graziani di Mantova, finalizzati a fornire la grotta di San Benedetto di un ingresso diretto, liberando, a tal scopo, l’andito di accesso dagli ingombri architettonici circostanti.

I lavori sono descritti con grande chiarezza da Mirzio da Treviri, che alle date di stesura del Chronicon ne serbava viva memoria:

«Anno Dominicae Incarnationis 1595 reverendus pater dominus Iulius a Mantua abbas demolitus est vetus Sacri Specus altare (…) excavato prius et suffosso (sic)12 muro, ac rudere, sicque iacta fornice, aram statuit

aptiori modo et loco ut in praesentiarum extat ad reddendum commodiorem Sacri Specus ingressum: qui prius desuper fuerat, obscurus clivosus et per gradus descendentibus praecipueque foeminis pericolosus. Scalam quoque in medio templi inepte locatam transtulit ad latus»13.

La dislocazione della scala, che occupava precedentemente una posizione centrale [fig. II.10, 11] sacrificò due affreschi situati sul prospetto del muro che riempie il salto di quota tra un livello e l’altro [fig. II.12, 13]. Le pitture pertinenti al ciclo di fine Duecento - come assicura l’uniformità del sistema di incorniciature, oltre che lo stile dei pochi frammenti visibili - venivano notate nel corso dei restauri di primo Novecento, in occasione di una provvisoria rimozione dei gradini: nelle cronache dei restauri sublacensi ne erano annotati i soggetti, riconosciuti come San Benedetto consegna la Regola e Mortificazione corporale di san Benedetto14. Per

l’identificazione del secondo affresco, ormai del tutto illeggibile, va data fiducia alla documentazione dei restauri, per quanto la presenza di una piccola chioma frondosa nella porzione inferiore della pittura possa convenire all’ambientazione silvestre dell’auto-punizione del santo. Quanto al soggetto del primo affresco, occorre notare che la presenza di una figura in abito rosa, apprezzabile solo nella parte inferiore, sembra molto più congrua alla Tentazione del maligno in veste di donna, episodio peraltro immediatamente precedente alla Mortificazione nella sequenza narrativa canonica.

Gli stessi restauri di fine Cinquecento produssero uno sbancamento della parte sinistra del muro che segna il dislivello tra i due piani, da cui conseguì il sensibile arretramento del piano di calpestio della campata superiore, che va invece immaginato in linea con la parete affrescata con Tentazione e Mortificazione corporale [fig. II.11]: quest’ultimo risarcimento permette di ristabilire la quota originaria dell’affresco con l’Apparizione del Maligno in sembianze di uccello, che oggi appare

inopportunamente alta [fig. II.14], al livello del piano della campata superiore15.

12 Variante di suffuso, da intendere come sbancato, sventrato dalle fondamenta. 13 Cfr. MIRZIO DA TREVIRI,[1628-1630], ed. 2014, II, pp. 606-607.

14 Cfr. Cronaca del Sacro Speco 1914-1925, c. 78; BELLANCA 2004, p. 91.

15 Le decorazioni pittoriche che ornano il prospetto del muro sono tutte di rifacimento;

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Altro luogo finora non esaminato, ma certamente preesistente alla decorazione pittorica di fine secolo è l’andito di passaggio al Sacro Speco, la cosiddetta cappella di San Romano, sul cui lato meridionale si trovava la scala di «duodecim gradus» che accompagnava la catabasi alla grotta del patriarca

benedettino16 [figg. II.11, 15, 16, 17].

Il piccolo oratorio, quasi integralmente originale nell’articolazione architettonica e muraria – fatta eccezione per la copertura cementizia dell’absidiola novecentesca della grotta della Preghiera che emerge dal pavimento – presenta due rincassi absidali, uno dei quali, quello occidentale, ha una decorazione a cielo stellato coerente con i partiti ornamentali consoleschi che ricoprono le pareti dell’intero ambiente. L’ornamentazione dà evidenza all’importanza liturgica della mensa sottostante: è qui infatti che va probabilmente ricollocato l’altare di San Benedetto, in una posizione che corrisponde di massima a quella registrata da Mirzio, che lo

dice messo superiormente, su un lato17. A questo curiosissimo e suggestivo assetto,

smantellato dal Graziani già noto, dà spiegazione la volontà della ricreazione nella topografia sacra specuense della topografia del romitaggio di Benedetto, ch’ebbe

luogo in un posto tanto incavato nella roccia da esser visibile solo dall’alto18: l’altare,

trovandosi all’altezza da cui san Romano calava il cibo a san Benedetto (e si intende ora anche la ragione della denominazione della cappella), avrebbe restituito la chiara memoria di quest’ultimo episodio. D’altro canto, occorre mettere in conto anche ipotesi meno evocative, che prendano in considerazione le problematicità spaziali del luogo: la collocazione di un altare nella grotta avrebbe determinato il prolungato

stazionamento dei fedeli, inibendo il passaggio già angusto19.