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LE LOCANDINE DEI PRISON MOVIES Messaggi normativi e sentimenti giuridici *

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1. Il corpo fi lmico del condannato

Il corpo di un uomo affi ora dalla penombra di uno spazio claustrofobi- co. Fra le mani stringe un libro, mentre sullo sfondo, quasi in controluce, l’ombra rifl essa delle sbarre lascia intuire con sicurezza che stiamo frugando all’interno di una cella penitenziaria. L’uomo sembra volgere lo sguardo ver- so di noi che lo osserviamo dall’altra parte di un ipotetico “muro di carta”. Non stiamo guardando, però, un fotogramma di celluloide, una fotografi a o un dipinto: quella che fi ssiamo è l’immagine di una locandina cinematogra-

* I paragrafi 1., 2., 3., e 3.2. sono stati scritti da Guglielmo Siniscalchi, il paragrafo 3.1. è stato scritto da Claudio Sarzotti.

fi ca. Più precisamente si tratta del manifesto di Cella 2455 – Braccio della

morte, pellicola diretta da Fred F. Sears nel 1955 ed ispirata alla storia vera

di Caryl Chessman, detenuto/scrittore condannato a morte e poi giustiziato nel 1960, protagonista di un caso giudiziario che ha suscitato un notevole dibattito nell’opinione pubblica statunitense sulla pena capitale1.

Non vi sono dubbi che, soprattutto nel secolo scorso, il cinema sia stato una delle forme di espressione visiva più potente per restituire corpo e volto a detenuti più o meno “celebri”; per raccontare, talvolta anche critica- mente, le dure condizione di detenzione dei penitenziari americani; oppure, più semplicemente, per suscitare lo sguardo voyeuristico dello spettatore, spalancando l’uscio di celle e corridoi altrimenti “interdetti” all’occhio dell’uomo comune. Così, un nodo gordiano ha fi nito per stringere narra- zioni fi lmiche e vicende carcerarie, un nesso tanto fecondo da produrre, in pochi anni, un vero e proprio “genere” di pellicole hollywoodiane ambien- tate in carcere: il “prison movie”2. Ecco perché, se volessimo individuare

uno sguardo che ha contribuito alla costruzione del nostro immaginario collettivo sul carcere, non potremmo prescindere da quello aperto dall’oc- chio cinematografi co3.

Come detto, però, l’immagine che ci parla dall’altra parte delle sbarre non è l’inquadratura di un fi lm, ma una locandina. Ecco allora la nostra domanda: Perché un teorico del diritto dovrebbe interessarsi, oltre che ai fi lm cosiddetti “carcerari”, anche alle locandine cinematografi che dei pri-

1 La locandina del fi lm di Fred F. Sears è anche il manifesto della mostra eVisioni – Il carcere in pellicola, collage e graffi ti, curata da Claudio Sarzotti e Guglielmo Siniscalchi ed allestita nell’aprile 2013 all’ex Palazzo delle Poste dell’Università di Bari, nel maggio 2013 alla Castiglia di Saluzzo nei locali annessi al Museo del- la memoria carceraria e nel giugno 2013 presso il Campus Luigi Einaudi dell’U- niversità di Torino.

2 Per una accurata ricostruzione storico-cinematografi ca del fi lm carcerario vedi: R. Venturelli, Film carcerario (voce), in: Enciclopedia del Cinema, Treccani, Roma 2003, consultabile on line sul sito: www.treccani.it. In lingua inglese segnalo tre volumi fondamentali: B. Crowther, Captured on Film. The Prison Movie, B.T. Batsford, London 1989; J.R. Parish, Prison Pictures from Hollywood, McFarland, Jefferson (NC) 1991; e, da ultimo, D. Wilson, S. O’Sullivan, Images of Incarcera- tion: Representations of Prison in Films and Television Drama, Waterside Press, Winchester 2004.

3 Per un’analisi più puntuale del rapporto epistemologico, con tutti i suoi paradossi, che lega occhio cinematografi co e spazi carcerari mi permetto di rinviare a: G. Siniscalchi, Rechtsgefühl e mondi di celluloide, in: C. Sarzotti, G. Siniscalchi (a cura di), eVisioni. Il carcere in pellicola, collage e graffi ti, Edizioni Linfattiva, Barletta 2013, pp. 48-64.

C. Sarzotti, G. Siniscalchi - Le locandine dei prison movies 193 son movies? Quale rilevanza possono avere dei semplici poster per la co-

struzione dell’immaginario giuridico4?

2. Dimensioni visive della norma e dimensioni normative del visivo

In queste pagine proveremo a rispondere a tali interrogativi cercando di tracciare alcuni possibili orizzonti teorici che mostrano la rilevanza delle locandine come “documenti” sensibili per la costruzione giuridica sia sotto un profi lo sociologico che dal punto di vista fi losofi co.

Dobbiamo cominciare ad interrogarci, seppur brevemente, sul rapporto fra diritto ed immagine. Anzi, più analiticamente, fra norma ed immagine. Solo dopo aver chiarito questo snodo potremo provare ad isolare alcuni li- velli di analisi di una categoria particolare di immagini, come le locandine cinematografi che.

Iniziamo dalla prima questione. Che rapporto esiste fra diritto ed imma- gine? O meglio: fra dimensione normativa e dimensione visiva? Se voles- simo rispondere utilizzando gli strumenti offerti dalle maggiori teorie del diritto del Novecento, questa domanda suonerebbe addirittura “blasfema”: le norme giuridiche sono il prodotto di enunciati linguistici e non hanno nulla a che fare con la cultura visiva5. Non ci può essere alcun rapporto

fra linguaggio normativo e linguaggio visivo. Ma è davvero così? Baste- rebbe scomodare l’etimologia latina del termine “signum”, che designa in

4 Sulla “rilevanza” giuridica delle locandine dei prison movies ci permettiamo di rinviare a: C. Sarzotti, G. Siniscalchi, Il carcere e la dis-misura della pena. Una ricerca sulle locandine cinematografi che dei prison movies, in: A.C. Mangiameli, C. Faralli, M.P. Mittica (a cura di), Arte e limite. La misura del diritto, Aracne ed., Roma 2012, pp. 341-363.

5 Ovviamente semplifi chiamo notevolmente il complesso rapporto fra norma e lin- guaggio. Sull’equazione fra norma e proposizione linguistica prescrittiva ci limi- tiamo a rinviare alle voci enciclopediche Norma e Norma giuridica di Norberto Bobbio, ora in: N. Bobbio, Contributi ad un dizionario giuridico, Giappichelli, Torino 1994, rispettivamente pp. 177-215, pp. 215-233.

Per una ricostruzione più analitica, invece, vedi: A.G. Conte, Norma: cinque refe- renti, in: L. Passerini Glazel (a cura di), Ricerche di Filosofi a del Diritto, Giappi- chelli, Torino 2007 pp. 27-35, dove l’autore, rispondendo alla domanda su cosa sia una norma, individua cinque referenti del termine “norma”: un enunciato deontico, una proposizione deontica, una enunciazione deontica, uno status deontico ed un noema deontico. Non dobbiamo dimenticare, come sottolinea Conte, che vi sono autori – vedi Rodolfo Sacco e Theodor Geiger – che hanno negato l’equazione Norm [norma]=Normsatz [enunciato deontico]. In nessuno di questi casi, però, mi sembra di poter scorgere una dimensione visiva della norma giuridica.

senso ampio appunto sia le immagini (le insegne, gli stendardi, i dipinti e le sculture…) che le parole d’ordine (il segnale, il comando, il presagio, il sintomo…)6, per sconfessare le rigide divisioni tracciate dal pensiero

giuspositivista del secolo scorso; in queste pagine, però, non approfondi- remo il nesso teoreticamente profondo fra immagini e diritto, limitando- ci a rifl ettere solo sul rapporto bi-direzionale che sembra stringere norme ed immagini. Con una prima direzione che punta dritto dalla norma verso l’immagine; ed una seconda, viceversa, che dall’immagine conduce verso l’universo del discorso normativo.

La prima direzione dice di norme propriamente giuridiche che hanno smesso i panni del linguaggio verbale per indossare le vesti di un linguag- gio visivo universale. Un esempio tipico è costituito dalla segnaletica stra- dale che è un corpus di norme (divieti, obblighi e permessi, ma anche in- dicazioni e consigli...) cristallizzate in immagini “universalmente” diffuse e riconosciute. Dalle “pietre miliari” che segnavano le antiche vie dell’Im- pero romano ai più moderni esempi di segnali elettronici, i codici della strada costituiscono un chiaro esempio di norme “visive”. In questo caso, la direzione conduce chiaramente dalla norma verso l’immagine.

Consideriamo l’altro verso. Se è vero che esistono norme “visive”, è al- trettanto vero che vi sono immagini normative. A condizione però di allar- gare i confi ni semantici del termine “normativo” ricomprendendo in questa categoria, non solo le norme giuridiche in senso stretto, ma anche tutti quei segni che esprimono una qualche forza “coattiva” rispetto ad un ipotetico destinatario. Così, la costruzione del discorso giuridico si arricchisce di simboli, emblemi, immagini, mappe geografi che o rappresentazioni pitto- riche, solo per citarne alcuni, che costituiscono l’insieme aperto e sempre in metamorfosi delle immagini normative. Su questa ampia categoria a cui

6 Sull’etimologia del termine “signum” e la sua rilevanza per il campo giuridico vedi: A. Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del Diritto, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 2. Scrive Supiot: “Nel latino classico, la paro- la signum, corrispondente al greco sema, possiede il senso generico di ‘marchio’ o ‘impronta’ e designa sia le insegne, gli stendardi, le immagini dipinte o scolpite, sia il segnale, la parola d’ordine, il presagio o il sintomo. Nella lingua francese, fi n dalle origini essa è servita a designare ciò che permette di dedurre l’esistenza di una cosa assente. Le parole signifi er e signifi cation hanno ben presto assunto il senso giuridico di ‘notifi care’, ‘portare uffi cialmente a conoscenza i destinatari di un determinato atto’”. Per una ricostruzione completa delle radici etimologiche di “signum” vedi A. Lalande, Vocabulaire technique et critique de la philosophie, PUF, Paris 1962, pp. 991-992, dove l’autore sottolinea la funzione normativa del termine defi nendolo come ciò che designa una “action extérieure et perceptible destinée à communiquer une volition”.

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appartengono ovviamente anche le locandine cinematografi che dei prison

movies torneremo nel § 3.17.

Dunque, almeno due i motivi di interesse per il teorico del diritto: (i) ad un primo livello l’analisi investe l’impatto che questi segni rifl ettono su quella che Lawrence Friedman chiama “cultura giuridica esterna” a propo- sito della rappresentazione del carcere e delle sue fi gure istituzionali (de- tenuto, secondino, avvocato, direttore del penitenziario...); (ii) il secondo livello si interroga sulla potenza espressiva delle locandine capace di su- scitare nell’osservatore non solo un “sentimento giuridico” [Rechtsgefühl], ma anche idee e sensazioni sull’universo del carcere altrimenti non imme- diatamente esprimibili attraverso il linguaggio verbale.

Entrambi i livelli di analisi testimoniano la rilevanza di questi oggetti per il discorso normativo ma presuppongono che si sia chiarita una questione preli- minare: Che cosa è una locandina? Solo dopo aver risposto a questa domanda potremo vedere quale sia la forza normativa di questi oggetti così particolari.

3. Che cos’è una locandina?

Dunque, prima di intraprendere qualsiasi analisi dobbiamo rispondere ad un quesito cosiddetto ontologico: Che cos’è una locandina? Cosa sono questi oggetti, peraltro ormai desueti, che affollavano le vie delle nostre città fi no a qualche anno fa?

Ad un primo sguardo si constata facilmente che si tratta di oggetti “ibri- di” che mescolano parole ad immagini, foto di scena a slogan pubblicitari, ritratti di star più o meno famose a messaggi sulla vita in carcere e sulle con- dizioni di detenzione. In alcuni casi, soprattutto in molti poster precedenti o immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, nelle locandine predomina la componente pittorica di illustratori che “fi rmano” veri e propri dipinti in grado di “colpire” la fantasia del passante; in altri casi più recenti, al contrario, si preferisce realizzare piccoli collage di foto di scena, o pun-

7 Per una pluralità di scritture visive del nomos si rivela cruciale il concetto di “no- mogramma” elaborato dallo storico del diritto Pierre Legendre che ricomprende, all’interno della sfera normativa, segni molteplici e plurali prodotti dalle arti visi- ve, dal cinema, dalla danza, e dai riti sociali. Sul concetto di “nomogramma” vedi soprattutto: P. Legendre, Leçons VI. Les Enfants du texte. Étude sur la fonction parentale des États, Fayard, Paris 1992, p. 60; P. Goodrich, A theory of the Nomo- gram, in: P. Goodrich, L. Barshack, A. Schütz (a cura di), Law, text, terror. Essays for Pierre Legendre, Routledge, New York 2006, pp. 13-34; e P. Heritier, Law and Image. Towards a Theory of Nomograms, in: A. Wagner, R. K. Sherwin (a cura di), Law, Culture and Visual Studies, Springer Verlag, Berlin 2013, pp. 24-48.

tare tutto sul carisma della star di turno con primi piani fotografi ci. Si tratta indubbiamente di tecniche diverse che, però, conservano un indubbio punto in comune: ogni locandina è prodotta per veicolare un’informazione pubbli- citaria, per creare un pubblico in sala al fi lm rappresentato. In quest’ottica le locandine sono sempre oggetti “ontologicamente dipendenti”: non esistono senza il fi lm che reclamizzano e promuovono; la loro esistenza è sempre legata alla funzione pubblicitaria che sono chiamate a svolgere. Ma, pur es- sendo sempre necessariamente connesse ad un fi lm (d’altronde esistono solo come locandine “di qualcosa”…), il loro contenuto si differenzia da quello dell’oggetto principale da cui dipendono. E questa differenza riposa tutta nella diversa funzione che permette di identifi care questi oggetti linguistici.

Se volessimo scomodare il lessico concettuale del semiologo france- se Gérard Genette potremmo defi nire le locandine come “paratesti”, ossia come “elementi grafi ci o testuali che sono di contorno ad un testo e ne pro- lungano la durata nel tempo e nello spazio”8. Dove il verbo “prolungare”

nel nostro caso assume proprio il signifi cato di far vivere il testo principale attraverso altri messaggi ed altre informazioni che ne assicurano la diffu- sione presso un pubblico sempre più ampio. Rispetto ad un fi lm, nel nostro caso un prison movie, sono paratesti “fi lmici” non solo le locandine cine- matografi che ma, in tempi più recenti, anche e soprattutto i trailer televisivi e, seppur con funzioni parzialmente diverse, le interviste agli autori o agli attori, le recensioni dei critici, o i pressbook riservati agli uffi ci stampa9.

Riepilogando. La differenza fra “testo” (in questo caso il fi lm) e “pa- ratesto” (la locandina) ci permette di tracciare una precisa linea di distin- zione concettuale tra fi lm e locandina: analizzare i poster non signifi ca parlare della pellicola bensì spostare l’analisi su oggetti diversi, che sono

8 Sull’origine del termine e del concetto di “paratesto” vedi soprattutto: G. Genette, Figure, Einaudi, Torino 1966; e Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Ei- naudi, Torino 1997.

9 Scrive Ugo Volli: “Esistono in genere nei processi comunicativi maturi dei di- spositivi che servono a suggerire al lettore come ritagliare un testo e secondo che modalità leggerlo. Si tratta di meta segni molto istituzionalizzati ed evidenti sul piano percettivo, che vengono chiamati paratesti. […] Il paratesto è tutto ciò che sta attorno al testo vero e proprio: il nome dell’autore, il titolo, la prefazione, la quarta di copertina, le epigrafi , ma anche le recensioni e le interviste all’autore. […] Fra i paratesti più noti, possiamo citare titoli di libri, fi lm, giornali, testate giornalistiche, sigle televisive e radiofoniche, icone di computer, indici, copertine di libri e relative iscrizioni, fregi e ‘fi li’ di impaginazione dei quotidiani, cornici per immagini, risoluzione sulla tonica di un brano musicale, sipari teatrali, ecc. tutti questi meta segni paratestuali servono a suggerire al lettore un certo modo di tagliare il testo, e fornirgli istruzioni per il suo uso”. (U. Volli, Manuale di semio- tica, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, p. 62).

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strettamente correlati con il testo cui si riferiscono, ma che conservano una propria autonomia concettuale. Non solo. Come abbiamo già visto, è proprio isolando il “paratesto locandina” che ci accorgiamo della sua specifi ca funzione rispetto al testo fi lmico principale: le locandine servono principalmente, se non esclusivamente, a veicolare messaggi pubblicitari. Ovviamente, per svolgere la loro funzione, le locandine sono “costrette” a racchiudere nello spazio di un’immagine tutte quelle notizie e informazioni in grado di catturare l’attenzione del potenziale spettatore, convincendolo ad acquistare un biglietto per recarsi in sala a vedere il fi lm.

Se poi consideriamo come la nostra attenzione si concentri sui manifesti di pellicole “carcerarie”, soggetto apparentemente “scomodo” per invo- gliare qualcuno ad assistere ad una proiezione a pagamento, vediamo che l’analisi di questi segni diviene particolarmente signifi cativa, suscitando molte domande stimolanti per arricchire la comprensione del discorso giu- ridico. Solo qualche esempio: Quali messaggi utilizzano le major hollywo- odiane per rendere commercialmente appetibile un luogo tradizionalmente “sgradevole” come il carcere? E che tipo di rappresentazione della realtà carceraria emerge dalla visione approfondita di queste immagini? E anco- ra: Quali sentimenti suscita nel pubblico la visione di queste locandine? Il carcere in “cartolina” quali idee e sensazioni visive riesce a trasmettere? Queste alcune delle domande cruciali che l’oggetto locandina pone al giu- rista chiamato a decodifi care i “messaggi normativi” e la forza espressiva di queste immagini sempre sospese fra arte e marketing.

3.1. Il paratesto locandina come messaggio normativo

La prospettiva dei rapporti tra mondo dell’immagine e norma giuridica acquista un maggior valore se si assume una defi nizione di quest’ultima che faccia riferimento ad una delle più rilevanti correnti della sociologia contemporanea che si fonda sul concetto di comunicazione e di informa- zione. Assumendo tale approccio, la norma giuridica

non è altro che un atto di comunicazione, cioè un messaggio avente parti- colari caratteristiche di descrittività e, in senso lato, di prescrittività. Un mes- saggio, cioè, che appare indirizzato a orientare azioni, e aspettative d’azione, attraverso la combinazione di due elementi: rispettivamente la sua parte c.d. “frastica”, ovvero ciò che viene indicato (l’evento, l’azione, di cui si tratta), e la sua parte c.d. “neustica”, ovvero ciò che viene collegato all’indicazione (la prescrizione, l’ordine, il permesso, il divieto, la facoltà)10.

10 V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 159-160.

Tralasciando la categoria delineata supra delle norme giuridiche visive, ovvero quelle regole del diritto che utilizzano immagini per veicolare il loro messaggio normativo (si pensi, come detto, alla segnaletica stradale), ci concentreremo invece sulle immagini normative, ovvero su quei mes- saggi normativi non giuridici che utilizzano appunto l’immagine per orien- tare le scelte di azione degli individui. È possibile infatti proporre una clas- sifi cazione dei messaggi normativi facendo riferimento al tipo di strumento di comunicazione che essi utilizzano per trasmettere il proprio contenuto descrittivo e prescrittivo. In prima approssimazione, infatti, possiamo di- stinguere tra messaggi verbali, che utilizzano il linguaggio verbale e mes- saggi non verbali che utilizzano altri mezzi comunicativi non linguistici. Tra i primi possiamo ulteriormente distinguere tra quelli in forma scritta e quelli in forma orale. Tra i secondi possiamo distinguere quelli che uti- lizzano immagini (m. iconici) e quelli che si trasmettono attraverso azioni (m. comportamentali), o ancora attraverso l’uso di segnali sonori. A titolo esemplifi cativo possiamo fare alcuni banali esempi per rendere più chiara tale tipologia. Un messaggio normativo verbale in forma orale può essere considerato l’ordine di un sergente impartito ad una recluta; i messaggi normativi verbali in forma scritta sono quelli più diffusi negli ordinamenti giuridici anche minimamente complessi e sono costituiti dall’immenso ap- parato del diritto positivo di fonte statuale11.

I messaggi normativi non verbali rappresentano senza dubbio un feno- meno analizzato in misura minore, per lo meno dalle tradizionali discipli- ne teoriche del diritto, e possono, in prima approssimazione, suddividersi tra quelli in forma iconica, che utilizzano appunto le c.d. immagini nor- mative, e quelli in forma comportamentale, nel senso in cui il semplice porre in essere un’azione in un determinato contesto rappresenta un mes- saggio normativo per gli individui che assistono a quell’azione, secon- do un meccanismo che è stato ben studiato sia dalle scienze cognitive12,

11 Tra l’altro, il passaggio dall’oralità alla scrittura nei sistemi normativi è un tema molto studiato dall’antropologia giuridica e in questa sede non si può che richia- mare la sterminata letteratura in argomento. Cfr. per tutti, l’ormai classico, W. J. Ong, Oralità e scrittura: le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986. 12 Il riferimento è qui al funzionamento dei c.d. neuroni specchio che si attivano

quando un soggetto osserva un’azione messa in atto da un altro soggetto e prova un senso di empatia che orienta la sua azione nella direzione dell’imitazione. È esperienza comune che quando ci troviamo ad agire in un contesto di cui non conosciamo le regole la prima reazione è quella di osservare e di imitare il com- portamento altrui. Sul tema si possono citare, a titolo puramente esemplifi cativo, le ricerche dello psicologo canadese Albert Bandura (cfr. per tutti, Id., Social Learning Theory, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1977). Per una citazione ci- nematografi ca in una esilarante scena del fi lm Mio cugino Vincenzo [1992], uno

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