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Simbologia del giuridico e funzione giudiziale fra Simone Weil e Martha Nussbaum

In queste note s’intende presentare una rilettura dell’iconografi a tradi- zionale della giustizia, attraversando e facendo convergere il pensiero di due fi losofe, Simone Weil e Martha Nussbaum. Le due fi losofe ci guidano in una decostruzione e in una rilettura del simbolo “dea bendata”, che si traduce in una proposta concreta di revisione della funzione giudicante.

Simone Weil visse in Francia, nella prima metà del novecento.

Martha Nussbaum insegna alla University of Chicago, dove è titolare della cattedra di Law and Ethics. Simone Weil fu fi losofa del lavoro, della politica, della scienza, e i modi in cui è stata etichettata sono tanti quanti i mondi che ha frequentato e le contraddizioni che ne hanno percorso il pensiero: fu mistica e rivoluzionaria, cristiana e comunista, anarchica e conservatrice, sempre “sulla soglia” che separa (e che unisce) gli opposti1.

Anche Martha Nussbaum ha frequentato mondi diversi: formatasi sulla fi - losofi a classica, ha studiato, scritto e insegnato di universalismo etico e multiculturalismo, educazione liberale e teorie di sviluppo economico.

È il 1943 e mancano pochi mesi alla sua morte, quando Simone Weil, chiusa dentro un piccolo uffi cio a Londra dove raccoglie e ordina materiali per una nuova Costituzione per la Francia postbellica incaricata da France Libre, annota a margine dei documenti che le inviano: “Les juges doivent avoir une formation spirituelle, intellectuelle, historique, sociale, bien plus que juridique…: il doivent tojours juger en équité. La legislation ne leur sert que la guide. Les jugement precedents aussi”2.

Settant’anni dopo, nelle aule della Law School della University of Chi- cago, Martha Nussbaum insegna ai suoi studenti che un buon giudice è un giudice poeta: “che per essere pienamente razionali, i giudici devono anche

1 La biografi a più autorevole è completa si trova in S. Petrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994.

essere capaci di fantasia e simpatia, migliorare non solo le loro capacità tecniche, ma anche la loro capacità di essere umani”3.

Nelle parole delle due pensatrici si rifl ette una sensibilità comune, nella piena coscienza della crisi metodologica e spirituale in atto nel loro tem- po. Crisi che, nel defl agrare della postmodernità, investe un certo modo di intendere l’esperienza giuridica e la cultura giudiziale, crisi che le due fi losofe comprendono, interpretano e rilanciano indicando una via diversa, possibile, di cui l’immagine della “dea” del giusto si fa testimone.

L’iconografi a tradizionale raffi gura la giustizia come una giovane donna bendata, con in mano una bilancia e una spada. Ragione e coercizione sono i signifi cati retrostanti ai due simboli: la razionalità sussiste rispetto alla coercizione, poiché la spada interviene una volta che le opposte ragioni siano state soppesate, e non di meno rende possibile l’esatto bilanciamento, mettendo in equilibrio i diversi pesi senza “guardare in faccia a nessuno”. Si tratta, invero, di un’immagine di memoria antica, che l’Occidente eredi- ta dall’arte fi gurativa egiziana, e che nella storia ha attraversato momenti e luoghi simbolici diversi4.

Tuttavia, poiché il diritto moderno si confi gura innanzitutto come diritto dello Stato (diritto “positum” dall’autorità a ciò legittimata), è opportuno soffermarsi sulla semantica che i tre attributi assumono con l’affermarsi della sovranità statuale e del progressivo accentrarsi del potere giuridico e politico nel monopolio sovrano. Emergono i tratti una giustizia da ricercar- si, sì, nel processo, ma dai tratti comuni più ad un’imposizione legittimata che al riequilibrarsi di un’opposizione. La benda si fa segno dell’imparzia- lità di un giudice deputato a bocca della legge, a mero dichiaratore di una norma generale e astratta. La bilancia esprime la ricerca del punto in cui le forze si annullano, nell’assunto che in giudizio si esprimano pretese più o meno impari; infi ne, la spada allude al fondamento coercitivo del giudizio, coercizione che (al fi ne di legittimarsi) risiede nel monopolio dello Stato.

L’affermarsi dell’autorità-Stato è l’impossessarsi del diritto da parte del- la politica, di una politica che coincide con la manifestazione del volere di una maggioranza. Tale è il volere che, per esprimersi in termini generali e astratti, non può che pensare agli uomini in termini generali e astratti: indi- vidui uguali, la cui uguaglianza si esprime innanzitutto in termini formali,

3 M. C. Nussbaum, Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, Mime- sis Edizioni Milano-Udine 2012, p. 24.

4 Per un’approfondita ricostruzione delle vicende iconografi che della “dea giusti- zia” si veda A. Prosperi, La giustizia bendata. Percorsi storici di un’ immagine, Einaudi, Torino 2008.

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vale a dire, come equivalenza. Coerentemente, la bilancia esprime l’idea che le prestazioni devono equivalere alle controprestazioni, i premi ai me- riti, i demeriti ai castighi, sul presupposto che a ognuno spetti l’uguale par- te di godimento o di pena. Il diritto è lo strumento che garantisce a questa operazione di calcolo un carattere oggettivo e predeterminabile.

Se è possibile smontare questa fi gura e mettere in discussione l’ontolo- gia del giusto che essa raffi gura, è in forza di una domanda che si solleva a partire da queste icone: fi no a che punto e in base a quali presupposti, la giustizia si può esaurire in una commisurazione di pesi, di interessi, di forze?

Peraltro, che la giustizia abbia a che fare con la spada risulta forse anco- ra più paradossale, ma certamente strutturale al concetto stesso di sovranità statuale, e cioè all’idea che auctoritas, non veritas facit legem. Evidente- mente, attraverso la spada, il potere minaccia e al tempo stesso garantisce l’ordine e la pace sociale. Dunque, ci si torna a chiedere: se il potere, per impregnare la sua legittimità di effettività, cerca la spada, ne ha altrettanto bisogno la giustizia?

Che maneggi la spada o che soppesi la bilancia, una giustizia così rap- presentata resta irrimediabilmente compromessa con la forza: forza da esercitare sul corpo sociale da un lato, forza di cui farsi ago regolativo, mediatore, dall’altro.

A ben osservare, è forse proprio per il fatto di essere compromessa con la forza, che la giovane donna porta la benda sugli occhi. Se è vero infatti che la benda richiama la necessaria imparzialità del giudice, la sua impre- scindibile incorruttibilità, questo resta in defi nitiva troppo banale per carat- terizzare in senso peculiare il giudizio giusto: non si comprende perché, in defi nitiva, un avvocato o un medico dovrebbero essere meno incorruttibili di un giudice.

È necessario portarsi alla radice dell’icona “giustizia” per comprendere. Per legittimarsi, la forza richiede il suggello della ragione, di una ragione che è capace di vedere, ma ne è tanto più capace nella misura in cui supera il particolare per ascendere al generale. Così, la razionalità della giustizia, astraendo dal concreto per riformularlo in termini tipici, si appropria del linguaggio del potere e assume i caratteri della norma statuale: generale e astratta. La critica di Simone Weil è diretta alla presupposizione – tutta moderna – per cui il giusto nasce da un pensiero che generalizza e astrae, realizzandosi essenzialmente nella geometria di una norma applicata.

L’immagine che la fi losofa parigina ci consegna è del tutto speculare a quella accreditata dal paradigma moderno: la sua giustizia non impugna la spada, non porta la benda sugli occhi, è una bilancia “a bracci disuguali”.

Il giusto non si identifi ca con la mera applicazione di una norma, ma al contrario, con la pratica dell’azione. A raffi gurare la giustizia e il suo con- notarsi nella concretezza del fare, anziché nel “non luogo” dell’utopia, è infatti, nel lessico weiliano, l’immagine del buon Samaritano, che si ferma e soccorre il mendicante sul ciglio della strada. Nella sua critica impie- tosa ai diritti e al loro linguaggio, la Weil arriva a svincolare il giusto dal dominio stesso del diritto, facendone la ‘voce muta’ della sventura e della carità5. Lungi dal misurare, i bracci della bilancia non si eguagliano ma il

forte si protende verso il debole, così che “la giustizia nasce là dove l’u- guaglianza è impensabile, dove sarebbe assurdo pensarla possibile. Nasce là dove, qualcuno ha potere su di un altro e sceglie ‘innaturalmente’ di non esercitarlo”6.

È a partire da questo punto, cruciale e problematico, che il pensiero di Simone Weil incontra la lezione contemporanea di Martha Nussbaum: se l’equiparazione tra giustizia e norma si confi gura come mero postulato, non risulta per altro verso limitativo concepire la giustizia esclusivamente come carità?

La giustizia raffi gurata nel gesto del buon Samaritano è, sì, l’improcra- stinabile risposta al male infl itto, ma questa risposta implica che sia attivata prima di tutto una capacità di vedere: implica che la giustizia si sia tolta la benda. E se la sia tolta, non per pre-vedere – cioè alla maniera illuministica, per prevedere tutti i possibili casi futuri e le relative soluzioni – ma per ve- dere nel “qui e ora”: per vedere l’altro che ho davanti. Giusto è chi sa prati- care, allora, la virtù pratica dell’attenzione, facoltà che la Weil metteva alla base di qualsiasi esercizio scolastico, riconoscendola come qualcosa di più diffi cile e al tempo stesso di più fondamentale dello stesso slancio altrui- stico. Giusto è colui che vede e riconosce, prima ancora che per tollerare o perdonare, per lasciare essere l’altro, per comprenderlo e salvaguardarne fi no in fondo la singolarità e libertà.

La giustizia weiliana sembra così iscriversi in una prospettiva molto più ampia rispetto alla carità, fondando almeno due ordini di conclusioni.

5 La critica alla centralità dei diritti nel paradigma moderno si concentra in un bre- vissimo scritto, La personne et le sacré, redatto a Londra tra il 1942 e il 1943 come sintesi dello studio svolto durante la stesura del più ampio saggio L’Enraci- nement, pubblicato come La prima radice, Adelphi, Milano 1990. La traduzione italiana de La personne et le sacré è comparsa in traduzione italiana nel 2012. 6 T. Greco, Senza benda né spada. L’immagine weiliana della giustizia, in S. Ta-

rantino (a cura di) Pensiero e giustizia in Simone Weil, Aracne, Roma 2009, p. 117. Dello stesso Autore, sul tema, si veda anche La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Giappichelli, Torino 2006.

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Innanzitutto, il diritto in quanto fenomeno giuridico si confi gura in pri- ma istanza come processo e giudizio, e non invece come espressione di un potere legittimo assistito dalla coazione. Di conseguenza, non sembra plausibile defi nire il giusto nelle maglie della coercizione che regola, e ap- pare più appropriato radicarlo in un ambito di ricerca puntuale, dialogico, inscindibilmente connesso alla dimensione del vero.

In secondo luogo, occorre riconsiderare il metodo della funzione giu- dicante mettendo al suo fondamento la capacità di vedere: “soltanto l’at- tenzione umana – scrive la Weil – esercita legittimamente la funzione giudiziaria”7. Negli stessi termini si esprime Martha Nussbaum, quando

afferma che se ai giudici manca la capacità di essere umani, “la loro impar- zialità sarà ottusa e la loro giustizia sarà cieca”8.

Invero, a precedere il pensiero delle due fi losofe sono le pagine del li- bro V dell’Etica Nicomachea, in cui Aristotele identifi ca la struttura del giudizio processuale nell’epieíkeia, vale a dire, nella capacità di giudicare in modo da rispondere in modo appropriato (eikòs) a tutti i particolari del caso in questione. Forse, il mistero e il paradosso del processo stanno pro- prio in un giudizio che si rende allo stesso tempo universale e particolare, generale e individuale, poiché la decisione giusta non può non fondarsi su una conoscenza che penetra la superfi cie delle cose.

È evidente allora che la questione metodologica – “come il giudice giu- dica” – si interseca con una questione epistemologica – “come il giudice co- nosce”. Nel rappresentare una giustizia senza benda, Simone Weil riprende (dal sapere classico) e fonda (sulla crisi del pensiero moderno) un paradig- ma di conoscenza alternativo al razionalismo positivista: un razionalismo, quest’ultimo, che declina la ragione in senso scientifi co, riducendo con ciò l’epistemologia giuridica a un livello imitativo o riproduttivo del metodo matematico o empirico9. Al contrario, una giustizia fondata sull’attenzione

7 S. Weil, Quaderni, IV, a cura e con un saggio di Gian Carlo Gaeta, Adelphi, Mila- no 2005, p. 384.

8 M. C. Nussbaum, Giustizia poetica, cit., pp. 172.

9 Alla riabilitazione del ragionamento argomentativo e del metodo retorico in am- bito giudiziale si sta dedicando da quasi dieci anni, in Italia, il Centro di Ricerche sulla Metodologia Giuridica (CERMEG), nato a Trento dall’incontro tra fi losofi del diritto di scuola patavina più sensibili alle istanze di revisione critica del nor- mocentrismo giuspositivista. Tra i lavori riferibili a questa scuola, teoreticamente orientata alla fi losofi a classica e metodologicamente rivolta alla prassi giudiziaria – con attenzione particolare al momento formativo degli “operatori” del diritto –, si vedano M. Manzin, Terzietà e verità: una logica per il giudice nell’età post- moderna in Rivista Internazionale di Filosofi a del Diritto, 4, 2000, pp. 589-592; G. A. Ferrari, M. Manzin (a cura di), La retorica fra scienza e professione le-

richiede un apparato di strumenti diverso, più ampio e complesso di quello che appartiene a un sapere meramente applicativo, che si muove per dedu- zione o induzione nell’ambito di contesti monologici, propri delle scienze formali e delle scienze empiriche. In giudizio, e nel dare applicazione al precetto normativo, il giudice non incontra mai “il fatto”, “la fattispecie”, “l’imputato”, ma sempre un individuo singolo, con una storia e delle ragio- ni, e un caso irripetibile, concreto, ricostruito problematicamente.

Infatti, il caso è riconducibile alla norma negli stessi termini in cui cia- scuno di noi è riconducibile al “genere-uomo”: ben diffi cilmente qualcuno potrà dedurre per via logica la nostra individualità dal genere di apparte- nenza. Poiché il fatto che si presenta in giudizio porta con sé l’irriducibilità del singolare, applicare al caso la norma richiede prudentia, phronesis, ca- pacità di equilibrare le esigenze di principio (che rappresenta l’universale) con quelle del caso concreto (che rappresenta il particolare).

La tesi di Nussbaum è che al giudice è innanzitutto necessario penetrare questa singolarità, questa specifi cità. A tal fi ne, la conoscenza della legge non gli sarà suffi ciente; tantomeno gli sarà possibile dedurre alcunché; i particolari del problema che si sottopone al giudizio emergeranno soltanto attraverso quei canali che permettono al giudice – in termini weiliani – di

andare incontro all’altro, verso il soggetto da giudicare10. In tal senso, per

la fi losofa di Chicago, uno strumento essenziale si prospetta nell’empa- tia, in una capacità di sentire che non implica l’immedesimazione nella situazione altrui, ma la ricostruzione partecipativa della sua esperienza, nel continuare a percepirla come diversa e altra rispetto alla propria. Se l’em- patia non assicura al processo un esito incontrovertibile, certamente può garantire un giudizio più accurato e preciso; non lascia che il giudice venga trasportato dal sentimento, ma gli permette di comprendere attraverso il sentimento. Del resto, sentimento e sentenza hanno etimologia comune nel verbo latino sentio, “percepire coi sensi”, “discernere”, “stimare”, “espri- mere un parere”.

gale, Giuffré, Milano 2004; AA.VV., Retorica, processo, verità, FrancoAngeli, Milano 2007; M. Manzin, F. Puppo (a cura di), Audiatur et altera pars, Giuffré Milano 2008; M. Manzin, A rhetorical approach to legal reasoning: the Italian experience of CERMEG in F.H. Van Eemeren, B. Garssen (a cura di), Exploring argumentative contexts, John Benjamins, Amsterdam 2012, pp. 135-148. 10 Tra le diverse opere che riconsiderano l’epieikeia aristotelica alla luce dell’em-

patia in giudizio, si veda M. C. Nussbaum, Equity and mercy, in Philosophy and public affairs, vol. 22, n. 2, spring 1993, p. 85. Per una più ampia ricognizione della teoria sulle emozioni, si veda Id., L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna 2009 e Id., La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 2004.

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In sorprendente sintonia l’una con l’altra, a settant’anni di distanza, Si- mone Weil e Martha Nussbaum difendono la stessa risposta: togliere la benda alla giustizia signifi ca riconsiderare il giudizio alla luce di una me- todologia cognitiva più ampia, comprensiva del sentimento ma non per questo meno razionale, non per questo destinata a ricadere in un solipsi- stico soggettivismo o nell’arbitrio celato dietro la maschera dell’autorità. In tal senso, il sapere classico garantisce che páthos e lògos ben possono comprendersi in un comune orizzonte.

Queste rifl essioni trovano la loro valenza più immediata nella necessità di riconsiderare la responsabilità non soltanto di chi giudica, ma anche di chi ha in carico la formazione di quelli che – con una parola che Simone Weil detesterebbe – sono destinati a diventare i “funzionari” del giudizio. Sono innanzitutto le aule universitarie a doversi costruire come luoghi in cui, lungi dal trasmettersi un sapere meramente tecnico e operativo, si coltivano capacità di immedesimazione e reazione emotiva, esercizio im- maginativo ed etica del rispetto; abilità diffi cilmente misurabili in crediti formativi, eppure indispensabili a praticare una giustizia senza benda. Ef- fettivamente imparziale, non in quanto neutra come una scienza, ma perché condizionata esclusivamente da ciò che vede davanti a sé.

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IOVANNI

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