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MILLENOVECENTOTTANTAQUATTRO FONTI La neolingua della governance

In fatto di lingua, i popoli democratici preferiscono l’oscurità alla fatica.

A. De Tocqueville, La democrazia in America

1. Una (ennesima) parola di plastica

Una macchia bianca e nebulosa. Questo sembra essere il contenuto di una serie di parole che da mezzo secolo a questa parte hanno prepotente- mente invaso il nostro linguaggio, diffondendosi nei campi più disparati. Informazione, comunicazione, sviluppo, sessualità, prestazione, processo, salute, produzione, risorsa, energia, valore, consumo sono alcune di que- ste. Tutte parole che hanno qualcosa in comune, a detta di Uwe Pörksen, professore emerito di Lingua e Letteratura tedesca antica all’Università di Friburgo, allievo e amico di Ivan Illich. Sono tutte “parole di plastica”. Pörksen ne ha isolato una cinquantina, occupandosene dettagliatamente in un testo pubblicato nel 1988, che in un primo momento aveva pensato di intitolare così: Parole Lego. Il linguaggio di una dittatura silenziosa1.

Sono tutti mattoncini prefabbricati, infatti, variamente componibili, al ser- vizio di una precisa ideologia, la più insidiosa, proprio perché – appunto – silenziosa. Non si tratta soltanto di termini tecnici o di nomi astratti ormai appartenenti al linguaggio comune e neanche di pure e semplici parole di moda, formule vuote o slogan che dir si voglia. Quanto piuttosto di “un nuovo tipo di parole, che prepara ed esprime un’epoca nuova”2. O almeno

di un nuovo modo di usare determinati vocaboli, tipico della nostra attuale condizione storica.

1 U. Pörksen, Parole di plastica. La neolingua di una dittatura internazionale, Textus, L’Aquila 2011.

Ora, il termine governance non compare nell’elenco di Pörksen. Proba- bilmente perché la sua pervasiva (e spesso irritante) diffusione è soltanto successiva. O forse perché non avrebbe comunque soddisfatto i rigorosi criteri della sua tassonomia, chissà. Ma comunque sia, è diffi cile sfuggire alla sensazione di essere in presenza di un’ennesima parola di plastica. Del resto, di questa materia la governance sembra condividere proprio il tratto principale, magistralmente individuato a suo tempo da Roland Bar- thes: il totale fregolismo, l’infi nita capacità di trasformazione, che fa sì che essa più che un oggetto costituisca la pura e semplice “traccia di un movimento”3. Basti pensare che c’è chi, come Jan Kooiman, è giunto a

isolarne ben dodici possibili declinazioni, peccando forse persino per di- fetto4. Il che fa sorgere quantomeno il sospetto – alimentato peraltro dalla

sua pretesa (o reale, poco importa, almeno per ora) intraducibilità – che gli aspetti connotativi abbiano di fatto, nel suo uso, sostituito qualsivoglia ca- pacità denotativa. Secondo, appunto, uno dei tratti più evidenti delle parole di plastica di cui parla Pörksen. Con le quali, peraltro, condivide almeno un’altra caratteristica, che ha a che fare con la sua provenienza.

3 R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 169.

4 Cfr. J. Kooiman, Governance. A social-political perspective, in J. R. Grote, B. Gbikpi (eds.), Participatory Governance: Political and Societal Implications, Leske and Budrich, Opladen 2002, pp. 71-96. Questa è una delle ragioni per cui Robert Douglas Jessop ha attribuito alla teoria della governance una natura sem- plicemente “pre-teorica”: “Governance theory tends to remain at the pretheoreti- cal stage of critique: it is much clearer what the notion of governance is against than what it is for” (R. D. Jessop, The regulation approach and governance theory: alternative perspectives on economic and political change?, in Economy and Society, vol. 24, 3/1995, p. 307). L’allusività del termine è sottolineata anche, con la consueta lucidità, da Maria Rosaria Ferrarese, che individua comunque una distinzione capace di gettare luce sul suo uso: “L’ampiezza del suo uso è inversamente proporzionale alla chiarezza del suo signifi cato. Si intuisce tuttavia almeno una generale biforcazione di signifi cati. Da una parte, esso viene usato in modo generico, per indicare il modo in cui ‘di fatto’ funziona un certo fenom- eno o una certa istituzione, e l’insieme di regole e soggetti che contribuiscono a governarli e/o a regolarli; questo uso ha caratterizzato, ad esempio, la diffusione dell’espressione ‘corporate governance’, che per prima ha catturato l’attenzione, a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Dall’altra parte, con tale espressione si indicano più specifi che dinamiche istituzionali, che contribuiscono a forgiare le regole giuridiche, e le modalità della loro assunzione, sia all’interno degli stati, specie nelle realtà territoriali e locali, sia nei rapporti internazionali o transnazi- onali” (M. R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, il Mulino, Bologna 2010, p. 7).

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2. Puro movimento

Scrive Pörksen: “Sembrano esservi tre sfere di origine assai pervasive, tre grandi dispensatori di immagini che esportano un lessico nuovo nella vita quotidiana e la pongono sotto una nuova luce: sono i linguaggi della scienza (e della tecnica), dell’economia e dell’amministrazione”5. E in ef-

fetti, la governance viene proprio da lì. Dagli studi dei costi di transazione e dalle prime rifl essioni sul ruolo della direzione all’interno della logica aziendale. E si colloca all’interno di quel radicale “capovolgimento della tecnica”, per dirla con Emanuele Severino, che sembra essere uno dei trat- ti distintivi del nostro presente: il cui principio ordinatore consiste in un indefi nito incremento della potenza di un insieme di mezzi che si trovano ormai a essere privi di un fi ne – e dunque di un senso – che possa dirsi esterno al loro stesso funzionamento6. Puro movimento, appunto, quello

della governance: dove la tradizionale idea del governo, inteso nei termini di un processo organizzato in vista del raggiungimento di un fi ne, cede il passo a una concezione “apertamente” negoziale, a un “processo di pro- cessi” all’interno del quale l’attività di governo fi nisce con l’essere riletta alla stregua di un puro e semplice processo senza fi ne7. “Lo scopo è insito

in loro”, dice Pörksen delle parole di plastica. E così è per la governance: un nuovo concetto di governo, e non semplicemente un nuovo stile, la cui sostanza sembra essere andata a male, proprio come quella della plastica studiata da Barthes8.

Che ci piaccia o meno, insomma, stiamo vivendo un salto d’epoca. O almeno, questo è quello che ci raccontano le parole di plastica. Con la con-

5 U. Pörksen, op. cit., p. 136.

6 Cfr. E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano 1988. Per un primo approfondimento, anche bibliografi co, mi permetto di rinvi- are al mio Viaggio al termine del diritto. Saggio sulla governance, Giappichelli, Torino 2012, in part. pp. 59 ss.

7 Esemplare, sul tema, un recente lavoro di Alessio Lo Giudice: “I modelli negozia- li contemporanei infatti riducono la legittimazione dell’ordine politico e giuridico alla razionalità strumentale degli individui empirici che determinano le regole del gioco come prodotti di volontà contingenti. A cascata, ciò comporta l’esaltazione degli incontri momentanei delle utilità individuali nella logica di una legittima- zione fondata su una trattativa permanente tra le parti in campo” (A. Lo Giudice, La democrazia infondata. Dal contratto sociale alla negoziazione degli interessi, Carocci, Roma 2012, p. ii). Cfr. anche S. Chignola, In the Shadow of the State. Governance, governamentalità, governo, in G. Fiaschi (a cura di), Governance: Oltre lo Stato?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 117-141.

nessa esigenza di articolare una nuova semantica politica e sociale. Tanto che, per provare a decifrare questa trasformazione, verrebbe voglia di ri- prendere la lezione di Koselleck e dei suoi epigoni. Se non fosse, però, che in queste parole non c’è (quasi) più traccia di storia: “La storia è stata quasi del tutto bandita da questi concetti. Non sono concetti storici fondamentali neppure nel senso di ‘previsioni’, ma sono piuttosto modi astorici di inter- pretare il mondo”9. Quel che è in gioco, detto in altri termini, è una sorta

di naturalizzazione della storia, che trasforma il possibile in necessario, facendo leva su alcune parole d’ordine che inducono al silenzio e all’obbe- dienza proprio in virtù della loro ingannevole oggettività scientifi ca. Ed è (anche) per svelare questo inganno che può essere utile compiere un rapido

détour attraverso le pagine di una delle più celebri distopie del Novecento,

in contrappunto con un capolavoro del pensiero occidentale che ha avuto il coraggio di guardare in faccia il lato più tragico della sua storia. Del resto, al di là di qualunque sua possibile (o impossibile) defi nizione, il termine

governance sembra davvero portare con sé un nuovo ordine del discorso o

un nuovo linguaggio che dir si voglia. Se non addirittura una vera e propria

neolingua. Non immune da tendenze totalitarie, pur se post-ideologiche.

3. Una satira senza allegria

Eric Arthur Blair, fi glio di un funzionario dell’amministrazione imperia- le in India, studia a Eton, intraprende la carriera militare in Birmania, vive alla fi ne degli anni Venti nei quartieri più miserabili di Londra, per mettere a tacere i sensi di colpa legati alla sua agiata posizione sociale, da hippy

ante litteram, aderisce alla sinistra, diviene socialista, negli anni Trenta

combatte in Spagna a fi anco dei lealisti, contro Franco, per poi trovarsi coinvolto nelle faide interne alla sinistra, fronteggiando anarchici, sinda- calisti e comunisti spagnoli, scrive varie cose – tra le quali un piccolo ca- polavoro, La fattoria degli animali, completato nel 1944, pur se pubblicato soltanto alla fi ne della guerra10 – e infi ne, nel 1949, un anno prima della

sua morte, con lo pseudonimo di George Orwell, pubblica 1984, scritto nel 1948 (da cui il titolo, grazie all’inversione delle ultime due cifre del suo anno di composizione)11.

9 U. Pörksen, op. cit., p. 79.

10 G. Orwell, La fattoria degli animali, Mondadori, Milano 2001. 11 Id., 1984, Mondadori, Milano 2010.

A. Andronico - Millenovecentottantaquattro fonti 75 1984, dunque. Non un’utopia, ma una distopia, appunto, per riprendere

un termine coniato da John Stuart Mill nel 1868, o se si preferisce una ca- cotopia, termine usato già da Jeremy Bentham nel 181812. O ancora – per

farla più semplice – un’utopia negativa. Insomma, la rappresentazione di una società in tutto e per tutto indesiderabile, sotto la forma di una satira del proprio presente. E questo è 1984: una satira senza allegria13. Una satira

dello stalinismo, come precisato dallo stesso Orwell, che non fa altro, in fondo, che immaginare le conseguenze di un’estensione su scala mondiale del regime sovietico. Come è stato notato (tra gli altri) da Isaac Asimov, in- fatti, la Londra di Winston Smith ricorda molto da vicino la Mosca del 1948, l’arcinemico Emmanuel Goldstein ha i tratti di Lev Trotskij ed è diffi cile non scorgere la fi gura di Iosif Stalin dietro i baffoni del Grande Fratello14.

Ma sarebbe un grosso errore fermarsi qui. Ed Erich Fromm lo ha sottolinea- to meglio di molti altri: “I libri come quello di Orwell sono moniti potenti, e sarebbe assolutamente deleterio se i lettori si accontentassero di interpretare 1984 come l’ennesima descrizione della barbarie stalinista, senza capire che la cosa riguarda anche noi”15. Era così nel 1961 e lo è ancor di più oggi, ver-

rebbe da aggiungere: la cosa riguarda anche noi. Ed è questo che bisogna capire: perché. Prima, però, può essere interessante ricordare i tre quarti di storia presenti nel libro. Per poi passare al quarto di profezia16.

4. Tre quarti di storia. In un nuovo concetto

Sarà una coincidenza, ma nello stesso anno in cui Orwell pubblica il suo capolavoro, Hannah Arendt termina il manoscritto originario di quello che dal 1951, anno della sua comparsa, diventerà uno dei libri più importanti (e controversi) della teoria politica (e non solo) del Novecen- to. Uno di quei libri che devono essere letti se si vuole capire qualcosa non solo del nostro passato, ma anche del nostro presente e forse persino

12 Traggo queste informazioni dall’Oxford English Dictionary: http://www.oed.com 13 U. Eco, Orwell, o dell’energia visionaria, in AA.VV., Mille Novecento Ottanta

Quattro, Minimum fax, Roma 2005, p. 78.

14 Cfr. I. Asimov, Tutt’altro che fantascienza, in AA.VV., Mille Novecento Ottanta Quattro, Minimum fax, Roma 2005, p. 59.

15 E. Fromm, L’utopia negativa di Orwell, in AA.VV., Mille Novecento Ottanta Quattro, cit., p. 24.

16 Riprendo qui un’altra osservazione di Umberto Eco: “Diciamo pure che il libro ha molto poco – anche se questo poco è assai importante – di profetico. Almeno i tre quarti di quanto racconta non è utopia negativa, è storia” (U. Eco, Orwell, o dell’energia visionaria, cit., p. 79).

del nostro futuro. Questo, ovviamente: Le origini del totalitarismo17. Un

libro che, altrettanto ovviamente, non nasce dal nulla18. Per ragioni facil-

mente comprensibili, infatti, il totalitarismo era già da tempo al centro del dibattito interno alle scienze sociali. Ma è la Arendt ad averlo compiuta- mente trasformato in un nuovo concetto, defi nendone con straordinario rigore i confi ni e le condizioni di possibilità. Si trattava di dare un nome al male che ha segnato il Novecento. Un nome nuovo, appunto, capace di comprenderne la terrifi cante unicità. E questo è quello che ha fatto la Arendt: ha “inventato” un concetto, convinta – com’era – della radicale irriducibilità del nazismo e dello stalinismo alle categorie ereditate dalla tradizione. Punto che va sottolineato, se non altro per evitare l’errore di pensare che si sia in presenza, qui, (soltanto) di una mera ricostruzione di fatti storici.

Com’è noto, le prime due parti dell’opera sono dedicate ad un’attenta analisi delle premesse del fenomeno totalitario. Il taglio è di tipo im- mediatamente genealogico. Non si tratta di individuare delle cause, ma – appunto – delle origini, molteplici, disperse e non sempre immediata- mente evidenti. Due, essenzialmente: l’antisemitismo e l’imperialismo. Due elementi che, come ricordato da Simona Forti in sede introduttiva, “sgretolando dall’interno l’assetto e il corso della moderna storia euro- pea portano alla brusca interruzione di quella stessa vicenda”19. In que-

sta sede, tuttavia, è sulla terza parte che è il caso di concentrare, seppur brevemente, l’attenzione. E in particolare sull’ultimo capitolo, aggiunto peraltro soltanto nel 1958, in occasione della pubblicazione della seconda edizione, dove la Arendt si concentra sul binomio ideologia-terrore, vero e proprio tratto distintivo, a suo dire, del totalitarismo. È il terrore, infat- ti, la “vera essenza del regime totalitario”20, il cui principio di azione è

l’ideologia, attraverso le armi della propaganda, e il cuore del dispositivo il campo di sterminio.

5. Terrore e ideologia

La prima cosa da capire è dunque questa: il terrore non è semplicemente uno strumento di cui il potere totalitario si serve per il raggiungimento dei

17 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.

18 Necessario il riferimento al quadro di sintesi magistralmente offerto da S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001, in part. pp. 3-32.

19 S. Forti, Le fi gure del male, in H. Arendt, op. cit., p. xxix. 20 H. Arendt, op. cit., p. 475.

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propri fi ni di dominio, ma la sua autentica ragion d’essere: il suo senso più profondo. Nel terrore totale, che non a caso si scatena soltanto quando il regime non ha più nulla da temere dagli oppositori, “il mezzo è diventato il fi ne, ma ciò dopotutto equivale semplicemente ad ammettere, in maniera paradossale, che la categoria fi ne-mezzo non è più valida, che il terrore ha perso il suo scopo e non è più lo strumento per incutere paura alla gente”21.

Cosa che peraltro O’Brien spiega come meglio non si potrebbe a Winston Smith: “Il potere è un fi ne, non un mezzo. Non si instaura una dittatura al fi ne di salvaguardare una rivoluzione: si fa la rivoluzione proprio per instaurare la dittatura. Il fi ne della persecuzione è la persecuzione, il fi ne della tortura è la tortura, il fi ne del potere è il potere. Adesso cominci a capirmi?”22.

Questo terrifi cante capovolgimento del rapporto tra mezzi e fi ni – o me- glio: la decostruzione di questo binomio – va di pari passo con un altro elemento che ha reso decisamente incomprensibile l’orrore totalitario: l’in- differenza nei confronti di qualsivoglia criterio utilitaristico. Se i regimi totalitari hanno un fi ne, infatti, questo non è di ordine economico. La posta in gioco è un’altra, ben più radicale: trasformare la natura umana. Da qui la centralità dei campi di sterminio, dove “si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo d’uomo simile agli animali, la cui unica libertà consisterebbe nel preservare la specie”23, dopo avere annientato prima la

personalità giuridica, poi la personalità morale e infi ne – appunto – la stes- sa individualità unica e singolare dell’essere umano. “Tu non esisti”, dice infatti O’Brien a Smith24. Per poi aggiungere, con la spietata chiarezza che

lo contraddistingue: “Noi, Winston, controlliamo la vita a tutti i suoi livelli. Tu immagini che esista qualcosa come ‘la natura umana’ che si sentirebbe oltraggiata da quello che noi facciamo e che si ribellerà contro di noi. Ma

siamo noi a crearla, questa natura umana. Gli uomini possono essere ma-

nipolati in tutti i modi. O forse sei tornato alla tua vecchia idea secondo cui i proletari o gli schiavi si solleveranno e ci rovesceranno? Toglitelo dalla testa. Essi sono inermi, come gli animali. L’umanità è il Partito. Gli altri ne sono fuori, e non hanno alcun valore”25.

A questo serve il dominio totale. A rendere possibile un mondo in cui tutto è possibile: “presunzione centrale del totalitarismo”, secondo la

21 Ivi, p. 602 (corsivi nostri). 22 G. Orwell, op. cit., p. 271. 23 H. Arendt, op. cit., p. 599. 24 G. Orwell, op. cit., p. 266. 25 Ivi, p. 276 (corsivi nostri).

Arendt26. Un mondo dove i fatti non contano, dove due più due può (ed

eventualmente deve) fare cinque, proprio come quello immaginato da Orwell, in cui “la verità è solo quello che il Partito ritiene vero”27. Ma

anche in questo caso la storia aveva già superato la letteratura. Ed è sem- pre la Arendt a ricordarcelo: “A differenza del contenuto ideologico e de- gli slogans propagandistici, le forme dell’organizzazione totalitaria sono completamente nuove. Esse sono destinate a tradurre in realtà il tessuto di menzogne imbastito intorno alla fi nzione centrale (la congiura ebraica, i trockisti, le trecento famiglie) e a creare una società i cui membri agiscono e reagiscono secondo le regole di un mondo fi ttizio”28. Ecco, così, il com-

pito dell’ideologia: costruire questo nuovo mondo, assecondando peraltro una delle principali caratteristiche delle masse moderne: la rivolta contro il realismo e il buon senso, conseguenza della loro atomizzazione, “che le ha private dello status sociale e, insieme, dell’intero settore di rapporti comunitari, nel cui ambito soltanto può il buon senso avere una funzione appropriata”29. Quello che l’ideologia offre alle masse, in un primo mo-

mento attraverso lo strumento della propaganda, è infatti un mondo asso- lutamente coerente, comprensibile e prevedibile, riducendo qualsiasi fatto a semplice esempio di determinate leggi “scientifi che” ed eliminando dalla realtà qualsiasi traccia di casualità, grazie – appunto – all’invenzione di “un’onnipotenza tutto comprendente”30. Un mondo interamente fi ttizio, il

cui fulcro è la necessaria infallibilità dei capi, la cui principale preoccu- pazione, una volta conquistato il potere, è “far sì che le loro predizioni risultino vere”31. Tanto che se ciò che accade, è accaduto o accadrà le con-

traddice, saranno i fatti a dover essere modifi cati. Lo slogan del Partito del Grande Fratello non poteva essere scelto meglio: “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”32. Solo una

manipolazione continua del passato consente, infatti, di “salvaguardare l’infallibilità del Partito”33, rendendo corretta ogni sua previsione: “Giorno

dopo giorno, anzi, quasi minuto dopo minuto, il passato veniva aggiornato.

26 Cfr. H. Arendt, op. cit., p. 585. 27 G. Orwell, op. cit., p. 256. 28 H. Arendt, op. cit., p. 502. 29 Ivi, p. 487.

30 Ivi, p. 486. 31 Ivi, p. 482.

32 G. Orwell, op. cit., p. 37. 33 Ivi, p. 219.

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In tal modo si poteva dimostrare, prove documentarie alla mano, che ogni previsione fatta dal Partito era stata giusta”34.

6. La legge del movimento

Basterebbe quanto detto fi nora per comprendere l’irriducibilità dei regi- mi totalitari a qualunque forma di governo precedentemente conosciuta e la necessità di nuove categorie per comprenderne l’essenza. Non siamo in presenza di un governo puramente e semplicemente dispotico sugli uomi- ni, ma di “un sistema che li renda superfl ui”35. E neanche di forme altrettan-

to puramente e semplicemente autoritarie. Come spiegato con la consueta effi cacia da Hannah Arendt, infatti: “A prescindere dalla sua origine nella