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TRA MITO E CRISI: LE PAROLE DELLA LEGGE

1. La tendenza a rappresentarsi il fenomeno giuridico come tutto con- chiuso e risolto nella legge ha origini profonde: solo in parte ne daremmo conto dicendola un lascito di quella temperie fondativa della modernità che fu la stagione delle grandi codifi cazioni. Oggi però non c’è docente di materie giuridiche che non denunci ai suoi studenti come una grave inge- nuità questa comunissima identifi cazione. E non c’è registrazione sociolo- gica della varietà degli interessi e degli orizzonti di valore, trattazione del presente panorama delle fonti del diritto, descrizione dei correnti processi di globalizzazione che manchi di suggerire o proclamare a chiare lettere il declino della legge. Se a lungo, non solo nell’età moderna, il vocabolo

legge ha rappresentato un polo per eccellenza di attrazione del valore, se

buona parte dell’umanità ha fi nanche vissuto nel culto della legge, quello attuale – da molti detto post-moderno – è tempo di conclamata crisi della legge. Cercherò di sostenere che questa crisi, come tutti gli esiti di vicende storiche, non ha nulla di fatale e che è possibile impegnarsi a contrastar- la; inoltre che le vicende di cui essa è il risultato sono, più precisamente, complicate e remote vicende culturali di mitizzazione – parafrasando Paolo Grossi potrei anche dire di idolatria – della legge; ed infi ne che gli studi di Law and Literature sono uno degli approcci più profi cui per coloro che si propongano di contribuire all’uscita dalla crisi e dal mito, per chi cioè intravveda la possibilità di curare la crisi smitizzando la legge.

2. Noterò per cominciare che l’etimologia della parola è signifi cativa- mente misteriosa, sta felicemente sospesa fra campi semantici disparati: le ipotesi oscillano tra il richiamare il sanscrito lag, e con esso la posizione o im-posizione; il latino ligare, e con esso l’obbligatorietà, il costituire un collante di convivenza, e per altro verso il connettere in sequenza due o più fatti o situazioni (se x allora y); i greci logos e légein, e con essi l’artico- lazione linguistica, l’essere oggetto di pubblica proclamazione; ed ancora

il latino legere che ha il signifi cato di scegliere, ma rimanda anche al con- cetto di divisione, distribuzione. Proprio il riferimento a legere consente a Cicerone di equiparare lex al greco nomos: e questo ci conduce dritti alla grecità antica, che tanto spesso dà l’impressione di comprendere nel suo orizzonte le coordinate fondamentali di tutti i nostri problemi.

È perfettamente documentato nel mondo greco – nel VII e VI secolo dei presocratici, in Anassimandro e in Eraclito – un movimento del pensiero che, declinando l’idea di dike – di giustizia – parallelamente nell’ordine sociale ed in quello della natura, prefi gura la rappresentazione delle re- golarità della physis come osservanza di leggi. Del massimo interesse è l’espressione di questo movimento in Alcmeone, un medico discepolo di Pitagora, il quale defi nisce la salute come eguaglianza di diritti (isonomia) tra i princìpi del freddo e del caldo, dell’amaro e del dolce, e così via: men- tre la malattia è prevalenza d’uno solo (monarchia). Alcmeone sarà forse un medico ingenuo, ma quel frammento fa di lui un capostipite di tutti i nostri plurisecolari discorsi intorno alla legge.

Da una parte egli sembra aver colto che l’impulso fondativo del feno- meno giuridico è l’isonomia, il riconoscimento d’eguaglianza: se mai un pugno di guerrieri, di patres, di possessori di terra, si fossero riconosciuti

pari e avessero consentito alla considerazione astratta dei loro interessi – di

almeno alcuni tra i loro interessi – come entità omogenee, disponibili a un comune sistema di peso e di misura, non avremmo avuto fi no ad oggi alcun diritto, buono o cattivo, ma semplicemente mancanza di diritto. È questa la prima delle ragioni della perdurante tendenza a identifi care diritto e legge: da molto prima che le procedure per la deliberazione della legge venis- sero coerentemente ispirate al riconoscimento della pari dignità di tutti i consociati, si è colto nella legge – nell’idea stessa di legge – affermazione

e svolgimento del valore dell’eguaglianza. Non per caso ci consta nella

storia romana la tenace difesa della forma casistica della iuris-prudentia da parte di gruppi egemoni e privilegiati. Il progressivo temperamento del primordiale modello iniziatico-responsoriale è avviato da Quinto Mucio, Labeone, Cicerone, mediante l’esercizio di diairesis, cioè attraverso l’ar- ticolazione di generi e di specie1, dunque in applicazione dell’elementare

insegnamento aristotelico: trattare in modo simile i simili, giustifi care le disuguaglianze con le diversità.

Alcmeone, dunque, tra i progenitori del paradigma della legge quale espressione ed attuazione dell’atto istitutivo della morale e del diritto – il

1 Si veda A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005, pp. 155ss.

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reciproco riconoscimento di eguaglianza. Ma Alcmeone precursore anche dell’uso dello stesso vocabolo – legge – per designare uniformità prescritta e uniformità registrata: leggi umane e leggi di natura. Questa polisemia sottintende e alimenta due opposti atteggiamenti della nostra mente forte- mente sospetti di attenere all’ordine del mito. Da una parte, noi tendiamo tenacemente ad attribuire la natura proiettiva dei nostri artefatti anche alla

physis. Ciò che è fi glio dell’artifi cio umano – comprese le leggi giuridico-

politiche – prende forma dal progetto di una prestazione, trae origine da un’intenzione. Quel che è naturale ha per contro – questo almeno è il po- stulato fondamentale del metodo scientifi co – caratteri oggettivi. Imma- ginando il contrario, raffi gurandoci l’universo fi sico come espressione di volontà progettuale, ci mettiamo nella condizione di concepire la legge di natura quale nutrimento – così dice Eraclito – della legge umana2; di su-

bordinare le nostre leggi a un disegno provvidenziale, a una prescrizione o a un insieme di prescrizioni di origine non politica, sulle quali fatalmente cerchie di sacerdoti avanzano pretese di monopolio; ed ancora di addensare sulle leggi della polis grandiose aspettative di universalità, di defi nitività e completezza. V’è poi l’atteggiamento opposto, consistente nell’assimilare le leggi della convivenza umana a quelle della natura negando il proiettivo, l’intenzionale, che c’è nelle prime. È un atteggiamento assai diffuso nell’e- vo moderno, ma caratteristico anche dell’esperienza romana3: inseguire

un’ontologia delle leggi gius-politiche, viste – quelle “giuste” – come vali- de per sé, rispondenti a processi obbligati del pensiero.

Le due speculari attitudini, che potremmo defi nire giusnaturalista e tec- nicista-isolazionista, sono le due facce della stessa medaglia: ci piace, o ci conviene, raffi gurare la dimensione del giuridico come esercizio di rivela- zione o di rinvenimento, di pura analisi, di mera conoscenza: in parte per gelosia – per difendere, occultandolo, il nostro grande o piccolo potere di

conditores o operatori del diritto –, in parte per ritegno o per paura dell’at-

tività consistente nell’operare scelte. Aggiungerei il sospetto che tutto que- sto abbia a che fare col narcisismo, con la vana ambizione di perfezione e di controllo che tutti ci accomuna, e che variamente elaboriamo dalla nostra infanzia.

Cogliamo dunque per un verso nella legge uguagliamento, attraverso la parola, di tanti fatti in una fattispecie, formulazione di giudizi di rile-

2 La legge umana parte ed espressione di un unico e superiore ordine, dell’“armonia che i Greci scorgevano in tutta la realtà”: cfr. G. Fassò, Legge (teoria generale), in Enc. dir., XXIII, Giuffrè, Milano 1973, p. 784.

vanza di quei tratti o caratteri che accomunano tali fatti distinguendoli da tutti gli altri, e perciò modello di esercizio vincolato, argomentato o quanto meno argomentabile, dell’autorità e del potere. Per altro verso, attribuiamo fallacemente alla legge gius-politica o inseguiamo in essa gli stessi caratteri che, in parte fraintendendole, pensiamo propri delle leggi delle scienze fi siche: ubiquità, inderogabilità, atemporalità, eterna vali- dità. Da tutto ciò certe pompose affermazioni sulla fonte di diritto-legge, non prive di nobiltà ma sconfi nanti nel mito e in quanto tali pericolose, come quelle di Hegel. Da ciò pure la ricorrente pretesa di negare margini di discrezionalità agli interpreti della legge, anzi di proibire che la legge venga interpretata: che non è soltanto un’ingenuità, ma un radicale sov- vertimento dell’intima funzione isonomica della legge, un frutto perverso dell’idolatria.

3. La crisi della legge inizia quando con il progresso delle conoscenze e l’accelerazione della tecnica s’afferma o si riafferma – in contrasto con la pretesa di totalità del sapere incentivata o alimentata dal creazionismo religioso, dalle metafi siche fi losofi che, dai trionfalismi dello scientismo – il sentimento dell’eccedenza inarrestabile, dello sfuggire dell’espe- rienza quotidiana alle maglie delle leggi vigenti ed anche a quelle di altre leggi possibili. La crisi esplode quando, non senza relazione con il nostro cullarci nel mito, il nostro sguardo si sorprende dell’irriconosci- bilità, perfi no della possibile disumanità delle leggi reali. Anche in tale frangente, non abbiamo smesso di perseguire attivamente la rimozione del politico dal giuridico: abbiamo preso col formalismo puro a raffi gu- rarci le leggi come una sorta di antefatto occasionale e grezzo del lavoro dei giuristi, e coltivato l’illusione che le nostre forme di ragionamento, un nostro professionale strumentario di concetti e di tecniche, risultasse- ro suffi cienti ad arginare la barbarie nazi-fascista. Ci siamo riaggiustati in questo modo nell’insegnamento deresponsabilizzante del gius-positi- vismo, emulo invidioso delle scienze naturali: le norme di legge vanno prese “per quel che sono”, come dati su cui è ozioso stare a discutere. Cospira al perdurante clima di crisi anche la distinzione – canonica tra gli analitici – fra disposizione, quale enunciato della legge, e norma, quale risultato della sua interpretazione: questa contrapposizione – men- tre rischia di obliterare che i risultati delle operazioni ermeneutiche si rendono accessibili alla comunicazione per il tramite di altre operazioni ermeneutiche – asseconda l’atteggiamento di neutralità e disinteresse nei confronti dell’esercizio della funzione legislativa, delle effettive

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procedure della deliberazione della legge, delle modalità tecniche e lin- guistiche della sua formulazione.

La condizione di crisi ha i suoi vantaggi, se ci aiuta a gettare sulla legge uno sguardo meno romantico di quello di Hegel e più combattivo di quello di Kelsen. La legge procede o dovrebbe procedere – con l’uso di concetti e predicati – per defi nizione di fattispecie. Essa sta perciò paradigmatica- mente in rapporto ambiguo con il tempo: per la necessità di una morfologia generale ed astratta, per questo riferirsi a classi aperte di situazioni od inte- ressi, deve rivolgersi al futuro nella sua interezza – in questo senso è scritta nel bronzo; nondimeno essa è nella storia, e in regime democratico – in ossequio all’eguaglianza – è per defi nizione modifi cabile in ogni momento attraverso il gioco della deliberazione a maggioranza, da pensarsi come prolungamento del contratto sociale, costante sottoposizione dei giudizi politici di valore alla verifi ca dell’intesa e dell’accordo4.

La legge non è opera di una sola persona, ma risultato di procedure di confronto e di scontro, di mediazione e compromesso tra interessi ed idee differenti: perciò la sua interpretazione è questione, molto più che di approccio ad una noumenica intenzione originaria, di aspettative o affi da- menti suscitati nei consociati.

In quanto funzionale a ordinare la convivenza, il paradigma della legge postula la tensione all’integrale accoglimento del potenziale comunicativo derivante alla lingua dalla convenzione: chiede che le parole siano usa- te e ricevute secondo i loro appropriati signifi cati, che si impieghino e si presumano impiegate nel modo più economico e disambiguante, che ogni parola sia assunta nel discorso in una sua funzione signifi cante e che non più parole vi fi gurino di quante necessarie alla funzione. “Tutto quello, e solo quello, che deve essere detto”: la lode che Cardozo rivolge alla prosa del code Napoléon potrebbe e dovrebbe essere il motto di ogni redattore, e poi anche di ogni interprete della legge. Il paradigma della legge reclama insomma la completa adesione, da parte di chi enuncia e di chi interpreta, all’orientamento all’intesa, quindi al valore etico-politico, del linguaggio.

Riconosciuto ciò, quello che occorre scongiurare è il solito corto circuito tra idealità e realtà, tra i piani dell’essere e del dover essere. È in tale confu-

4 Questa doppia posizione della legge nei confronti del tempo è con cristallina chiarezza patrimonio acquisito dell’Illuminismo. Da un lato, la separazione dei poteri di Montesquieu si risolve nell’attribuzione ai governi della competenza sul presente, al potere giudiziario di quella sul passato e di quella sul futuro – per l’appunto – ai legislatori. Dall’altro, una linea che collega i culti a Domat, primo padre del codice moderno, ed al nostro Beccaria vuole che nessuna generazione abbia titolo ad imporre le proprie leggi alle generazioni dell’avvenire.

sione che si rinnovano i miti della matematica dei giuristi, della perfetta ve- rifi cabilità dei loro enunciati, della sicura validabilità delle loro operazioni; e nella conseguente delusione si radicano l’attuale sentimento di sfi ducia, gli odierni de profundis per l’intera tradizione gius-politica liberale, per i suoi protocolli procedurali, per la sua idea di deliberazione pubblica e par- tecipata della legge5. Il Law and Literature Movement, segnatamente nella

declinazione nota con l’espressione Law as Literature, può giocare un utile ruolo nel dissipare l’idolatria, nell’arginare la delusione che sempre segue l’illusione, quindi nel combattere il declino della legge.

4. In primo luogo: l’idea diffusissima che il proprium del linguaggio del diritto, e in particolare del linguaggio della legge, consista nell’alto grado, nella maggiore intensità del vincolo posto dalle parole all’interprete, non è – se si sta al piano della semantica – che un equivoco indotto dalla natura prescrittiva della più parte delle proposizioni in cui quei linguaggi si eser- citano. Le espressioni “una certa quantità di eroina”, “una modica quantità di eroina”, “2 grammi di eroina”, vincolano l’interprete in grado rispetti- vamente differente: ma l’entità del vincolo non muta a seconda ch’esse ricorrano in un romanzo, nell’orazione di un parlamentare, nell’arringa di un avvocato oppure in una sentenza o nella legge. Di più stringente vin- colo posto all’interprete si può se mai parlare sul piano della pragmatica

della scrittura e del discorso6: il che implica a ben vedere che questo tratto

dell’eloquio giuridico – il limitare la libertà ermeneutica più del discorso dei tribuni o dei poeti – non è un suo a priori, che gli inerisca necessaria- mente, ma se mai un carattere variamente ricorrente, in grado certe volte

5 si veda per esempio la teorizzazione di una nuova democrazia plebiscitaria, post- rappresentativa e post-deliberativa in J.E. Green, The Eyes of the People. Democ- racy in an Age of Spectatorship, Oxford University Press, New York 2011; e cfr. in margine D. Ragazzoni, Sulla democrazia plebiscitaria. Considerazioni critiche intorno a un recente lavoro di Jeffrey Edward Green, in «Ragion pratica», 40 (giugno 2013), pp. 289 ss.

6 Sulla questione cfr. F. Sabatini, Analisi del linguaggio giuridico. Il testo norma- tivo in una tipologia generale dei testi, in M. D’Antonio (cur.), Corso di studi superiori legislativi 1988-1989, Cedam, Padova 1990, pp. 675ss.; F. Sabatini, Funzioni del linguaggio e testo normativo giuridico, in I. Domenichetti (cur.), Con felice esattezza. Economia e diritto fra lingua e letteratura, Casagrande, Bellinzona 1998, pp. 125ss.; F. Sabatini, “Rigidità-esplicitezza” vs. “elasticità- implicitezza”: possibili parametri massimi per una tipologia dei testi, in G. Skyt- te, F. Sabatini (curr.), Linguistica testuale comparativa, Museum Tusculanum, København 1999, pp. 141 ss.

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tanto basso da fondare in relazione alle esigenze di eguaglianza e di cer-

tezza un giudizio di scarsa effi cienza, di bassa qualità dei nostri enunciati

di giuristi, e tanto più degli enunciati della legge.

In secondo luogo ed in connessione col precedente: la più ingombrante delle ragioni per le quali il diritto non si esaurisce nella legge sta sempli- cemente nel fatto che non tutti i vocaboli di cui la legge è fatta sono, né potrebbero essere, defi niti nel corpo della legge. Il senso di molte fra le pa- role della legge, e di moltissime nel tempo odierno, deve essere ricavato da “culture politiche, fi losofi che, economiche, scientifi che”, differenti dalla cultura tecnica del giurista. Prendere atto di questo – nota Aurelio Gentili – “signifi ca per il civilista in particolare e i giuristi in generale rinunziare fi nalmente a quella autoreferenzialità della cultura giuridica che ha con- trassegnato due secoli di giuspositivismo”. Tale presa d’atto e tale rinunzia sono urgenti, anzi impellenti, dal momento che “un linguaggio che non ha più l’importanza di un tempo… sta escludendo… i giuristi dal generale dibattito culturale”7.

Per di più le parole della legge – a qualunque settore dell’esperienza si riferiscano e da qualunque ramo più o meno specializzato della lingua provengano – quasi mai rimandano a concetti defi niti nella “provincia” d’origine, e comunque defi nibili, con assoluta precisione. A questa verità – che a sua volta concerne non le parole della legge in quanto tali, bensì tutte le parole – si fa talora allusione dai linguisti con la singolare formula delle… “tazze di Labov”8. L’esperimento di Labov consiste nel sottoporre

agli intervistati una sequenza di disegni raffi guranti tazze; man mano che la sequenza procede, tali e tante variazioni vengono introdotte sul profi lo tipico dell’oggetto-tazza da suscitare il dubbio se ci si trovi ancora davanti ad uno specifi co esemplare del genere, o invece al cospetto di un oggetto di genere diverso; il risultato è inequivocabile: ogni parlante fi ssa i confi ni del concetto designato dalla parola-tazza in modo suo proprio, differente da quello di molti altri. Questo esperimento ha tanto da suggerire anche ai giuristi, ai quali dirà poco il concetto di tazza, ma ai quali basterà pensare in sua vece a veicolo o a edifi cio, e se si occupano di bioetica a coppia

sterile o a persona incompetente. I margini di vaghezza di quasi tutti i

concetti evocati dalle parole della legge allontanano il discorso del diritto

7 A. Gentili, Il diritto come discorso, Giuffré, Milano 2013, p. 135.

8 Si vedano D. Antelmi, Vaghezza, defi nizioni e ideologia nel linguaggio giuridico, in G. Garzone e F. Santulli (curr.), Il linguaggio giuridico. Prospettive interdisci- plinari, Giuffrè, Milano 2008, pp. 89ss., specialmente 92s.; F. Casadei, Signifi cato ed esperienza. Linguaggio, cognizione, realtà, in D. Gambarara (cur.), Semantica, Carocci, Roma 1999.

dal modello di discorso formale per eccellenza, che è quello della logica9,

e lo avvicinano ai discorsi non formali, come è per eccellenza quello della letteratura.

La lunga educazione al concettualismo, al deduttivismo, all’ideale dell’esperienza giuridica come esperienza di conoscenza pura ha l’effetto di farci ritrarre da questa verità; mentre potremmo e dovremmo ammini- strarla – in coerenza con l’intima vocazione isonomica, democratica, del paradigma della legge – semplicemente riconoscendo che i ragionamenti cui come giuristi siamo chiamati hanno un andamento non logico, ma es- senzialmente analogico. Forse non sembra, ma c’è molta differenza: ci si può limitare a dire – ed è quanto solitamente facciamo – che l’interprete, nel concretizzare all’atto pratico un concetto, esercita un ruolo creativo di diritto; e da ciò desumere, alla lunga, un sentimento di illimitata libertà del- la giurisprudenza, di labilità e vanità della legge. Oppure si può riconoscere – ed è ciò che si dovrebbe fare – che nell’adoperare e delimitare il concetto ricorrente nella legge (per esempio il concetto di veicolo ai fi ni dell’art. 2054 del codice civile) l’operatore deve procedere per differenze rilevanti, argomentare in nome di ciò che – in rapporto agli interessi tutelati, agli sco- pi perseguiti dalla norma – accomuna o distingue fattispecie da fattispecie (per esempio la carriola sospinta da un operaio, o il paio di pattini a rotelle, dall’automobile a motore): e con ciò scoprire anche – sia detto di passaggio – che il ruolo di cultori della legge, nei Paesi di civil law, non è poi così lontano dal ruolo e dalla forma mentis dei nostri colleghi common lawyers.