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IL LUOGO DEL GIARDINIERE LA “CURA” NELL’AVER CURA DELL’ALTRO

Area Psicologica

IL LUOGO DEL GIARDINIERE LA “CURA” NELL’AVER CURA DELL’ALTRO

FRAncescA BellInI

Psicologa

“Perché avere sempre soltanto l’egoismo del predone o del ladro? Perché non quello del giardiniere?

Gioia di coltivare” Friedrich Wilhelm Nietzsche c’è un “luogo” importante, un luogo magro e affamato che perisce. È il luogo della cura. Alla voce cura nel dizionario troviamo ben diciotto accezioni, ma possiamo ridurle essen- zialmente a due.

cura come azione di trattamento e guarigione e cura come passione verso ciò che vive. Il suono della parola rivela la sua vicinanza al cuore e quindi alla sfera del sentimento. ogni azione di cura, quindi, trova il suo fondamento nel sentimento da cui non può prescindere.

Il tema della cura, intendendo per cura non l’accezione clinica, bensì il suo significato ori- ginario di sentimento di “sollecitudine, accoglienza e massima diligenza”, è stato affrontato nel passato da numerosi filosofi e in particolar modo da martin heidegger.

In Essere e tempo heidegger definisce la cura (Sorge) l’essere dell’esserci, la base on- tologica dell’esistenza umana affermando che l’essere umano si costituisce proprio nel suo prendersi cura, Besorgen (delle cose) e aver cura, Fürsorge (delle persone).

scrive infatti heidegger: “I modi positivi del prendersi cura hanno due possibilità estreme. Il prendersi cura può in un certo modo sollevare l’altro dalla “cura” e, nel pro-curare, sosti- tuirsi a lui intromettendosi a suo favore. Questo prendersi cura si incarica di pro-curare quel che serve all’altro. l’altro risulta così espulso dal suo posto, in un certo senso messo da parte, per ricevere a cose fatte il pro-curato e disporne come di cosa già pronta, risparmiandosene la fatica. In questa forma del prendersi cura, l’altro può essere trasformato in dipendente o dominato, anche se tale dominio può essere tacito e restare inavvertito a chi lo subisce. Questo prendersi cura, che s’intromette nella vita altrui e gli toglie la “cura”, condiziona in larga misura l’essere-assieme e consiste perlopiù nel pro-curare le cose utilizzabili. opposta a questa possibilità è quella di un prendersi cura che, anziché sostituirsi all’altro, lo presuppone nel suo poter essere esistente, non per sottrargli la “cura”, ma anzi proprio per restituirgliela in quanto tale e per davvero. Questo prendersi cura, che riguarda essenzialmente l’autentica cura, cioè l’esistenza dell’altro e non un che cosa, che esso pro-curi, aiuta l’altro a diventare, nella sua cura, consapevole e libero per essa.1

nel primo caso l’uomo non si cura tanto degli altri quanto delle cose da procurar loro, nel secondo offre agli altri la possibilità di trovare se stessi e di realizzare il loro proprio essere.2 Quindi cura come duplice concetto: azione che cura la debolezza o che sviluppa la possibilità.

Quel luogo magro e affamato che perisce è quello che sviluppa la possibilità. la prima concettualizzazione importante è dunque, come sostiene il filosofo, che entrambe queste mo- dalità sono positive, ma emerge chiaramente che una non sostituisce l’altra.

La favola-mito di Igino, uno scrittore latino del primo secolo d.c., racconta che “mentre cura stava attraversando un fiume, vide del fango argilloso. lo raccolse pensosa e cominciò a dargli forma. ora, mentre stava riflettendo su ciò che aveva fatto, si avvicinò Giove. cura gli chiese di dare lo spirito di vita a ciò che aveva fatto e Giove acconsentì volentieri. ma quando cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il suo nome. mentre cura e Giove disputavano sul nome intervenne Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché essa, la Terra, gli aveva dato parte del proprio corpo. I disputanti elessero saturno a giudice, il quale comuni- cò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito. Tu Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. ma poiché fu cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda cura. Per quanto riguarda il nome, si chiami homo poiché è stato tratto da humus”.

Il significato profondo di questo mito è la duplice essenza di questo atto.

da un lato sembra indicare, così come indicava heidegger, che “il carattere fondamentale dell’esistenza umana è quel rapporto di sollecitudine e preoccupazione verso il mondo e gli altri, di cui la cura parentale è l’archetipo fondamentale: l’identità dell’uomo è definita dall’essere oggetto e, al tempo stesso soggetto di cure; l’esistenza dell’uomo è posseduta dalla cura perché egli è figlio di una pratica originaria di attenzione e responsabilità, ed egli non può sottrarsi al destino di occuparsi attivamente a sua volta, delle cose e delle persone che incontra nel mondo.”3

dall’altro emerge che la cura dell’altro non è separata dall’inautenticità, da quell’affanno per il possesso che è la sua espressione corrente e quotidiana, da quell’ impeto di assegnare

1 m. heidegger, Essere e tempo, milano, longanesi, 1976, pp. 209-210

il proprio nome, di conquistare successi che l’animo umano possiede e nasconde incapace di accettare.

nel “Il piccolo principe” si coglie che la cura per l’altro e l’essere-per-l’altro sono due elementi fondamentali della vita. Anche Antoine de saint-exupéry si riferisce alla “cura” nel senso ontologico, esistenziale, descrivendoci l’uomo come relazione di prossimità e di incontro con le cose e con l’altro, in un mondo che è già dato come mondo in comune e che occupa l’uomo prima ancora della sua scelta di occuparsene o meno.

nietzsche denota questa caratteristica umana come quella del “Giardiniere” che rappre- senta colui che esprime la massima gioia nel coltivare, nel prendersi cura della vita e nel cogliere i bisogni della natura. Quella del giardiniere è una qualità nella sua massima purezza che però si trova a fare i conti con il “predone” che depreda qualcosa che è nell’altro, perché è bisognoso di quel qualcosa, dimostrando così la limitatezza umana, ossia l’essere fondamen- talmente non autosufficiente dell’uomo, al quale per esistere e definirsi non basta la propria identità individuale.

Questo concetto secondo me è di fondamentale importanza. nella nostra cultura siamo propensi a mettere in mostra tutti gli slanci di generosità che compiamo, nascondendo solita- mente uno dei motivi più profondi che ci spinge verso questa direzione.

Il senso di utilità, di bontà che nutre il nostro essere e di cui siamo necessariamente affa- mati.

In particolar modo nel volontariato, che non è retribuito per l’aiuto che offre, io credo sia discorso da affrontare. la nostra educazione cattolica è improntata ai valori positivi dell’al- truismo e del protendersi verso l’altro. Può esistere altruismo senza egoismo? Forse l’egoismo nel suo significato negativo, impera proprio perché non gli è riconosciuto status accettabile.

Per questo si ha un effetto paradossale. da un lato compiamo atti di generosità, dall’altro rifiutiamo il bisogno di riconoscere che ciò ci gratifica più di qualsiasi altra cosa. come pos- siamo comprendere l’altro se non diamo ascolto a sentimenti che ci appartengono?

oggi il legame della medicina con il prendersi cura è chiaramente minacciato. heidegger affermerebbe che la medicina, al momento, si sta preoccupando di pro-curare quello che serve all’altro: la guarigione, la terapia, la fine del dolore fisico, la perfezione e così via.

eppure, ora che la medicina ci ha pro-curato tanto e continua faticosamente a studiare come pro-curarne ancora, l’uomo è sostanzialmente insoddisfatto.

ciò è dimostrato dal grande interesse che oggi stanno riscoprendo le filosofie orientali che abbracciano l’uomo e lo accompagnano, prima ancora di guarirlo, a comprendere il messag- gio del proprio corpo.

così mi viene in mente il sentimento che Tiziano Terzani esprime con semplicità e profon- dità nel suo libro “Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo” che racconta la scoperta della sua malattia incurabile e l’esperienza dell’affidarsi alla medicina scientifica della quale racconta pregi e difetti.

In particolare nella frase “bastava che il mio corpo fosse presente agli appuntamenti che

loro gli fissavano per sottoporlo ai vari “trattamenti…” emerge il non sentirsi partecipe alla propria cura di sé. si percepisce una cura che si occupa solo del corpo, lasciando l’anima profondamente offesa, per non essersi accorti di lei.

nel modo di pensare dell’occidente è chiaro che l’identità di qualsiasi cosa, la sua esisten- za è definita sulla base dei due principì cardine su cui si poggia la nostra cultura: il principio di causa-effetto e il principio di non contraddizione. cioè, concediamo la reale esistenza solo è a ciò che nasce da qualcosa e che non contraddice se stesso. Questo chiaramente ha un suo fondamento di utilità per gran parte dei fenomeni, ma il suo estendersi a tutto ha un prezzo caro da pagare.

Il prezzo dell’essere incompreso.

perdita, oltre ad essere concreta, cioè nelle possibilità, risulta diventare anche una mancanza di strumenti per scegliere, nel senso che i nostri processi mentali perdono via via ogni capacità di vedere oltre. la conseguenza pratica di questa perdita consiste nel fatto che quel “luogo” ormai viene visitato di rado. Il luogo che sta tra la terapia e ciò che, non essendo riconosciuto, pare non partecipi al processo di guarigione.

da anni la Pet Therapy cerca con fatica di conquistarsi il titolo di terapia ufficialmente riconosciuta intraprendendo ricerche che dimostrano il rallentare del battito cardiaco, l’abbas- samento della condizione di stress e altre variazioni ormonali che a parer mio sono necessarie ma riduttive e insufficienti. Per questo motivo e altri le cosiddette TAA, terapie assistite con gli animali, rischiano forse “giustamente”, di non esser comprese e accettate.

Io credo che, le attività di mediazione con l’asino, come altre attività definite co-terapie, debbano riconoscersi in quel “luogo” prima accennato.

Un luogo che abbia riconoscimento sanitario ma che si discosti dall’orientamento medico e che proprio per questo possa essere incentrato sulla persona e non sul sintomo o sulla malattia. Questo luogo che indifferenziatamente potrebbe interessare chi è sano e chi è malato, perché focalizzato sul benessere e non sulla salute, campo strettamente medico.

mi piacerebbe pensare che quel luogo di cura, nel senso di luogo originario in cui è servi-

tium e non prestazione, rigenerasse come possibilità. non solo. emerge la necessità di dare importanza ad attività che abbiano intenzione di lavorare in sinergia con la medicina restando tuttavia slegate dall’ambito medico. È necessario, a parer mio, ricreare luoghi che diano im- portanza all’obiettivo del prendersi cura dell’Altro senza aver come unico obiettivo curare.

Io penso dunque alle attività di mediazione con l’asino collocate in questo “luogo”, come complesso di attività di “educazione e rieducazione”.

“educare”, nella sua etimologia e-ducere fa riscoprire l’essenza del suo significato: trarre fuori, condurre. È un termine che concerne gli aspetti affettivi e relazionali, ma che oggi spesso viene mal utilizzato per intendere l’atto dell’istruire. È una parola quasi unicamente destinata all’infanzia ma che per la sua ricchezza e importanza si riferisce a tutti, intesa nel suo significato di portare alla luce, in senso socratico, il nucleo intimo di ognuno.

“nell’educazione ciò che interessa non è il sapere, ma il comunicare. oggi la comunica- zione è continuamente interrotta perché tende a ridursi ad una comunicazione “ad una via” sui saperi e dei saperi.”4

si può affermare che la comunicazione oggi è diventata puramente segno perdendo di vista il suo obiettivo primario che è quello di facilitare la relazione con l’altro.

ciò è anche il risultato di uno stile di vita, di nuove tipologie di lavoro, e di mezzi di co- municazione che, nell’economia post-moderna, risultano sempre più sganciati dall’esperienza immediata sensoriale e dalla diretta conoscenza del mondo rispetto a quelli che potevano esserci durante un’economia agricola.

È interessante osservare come, sempre più, anche i nostri animali stanno perdendo la ca- pacità di comunicare in modo efficace tra loro.

Ad esempio i cani, che essendo oggi, sempre più, isolati da altri con-specifici spesso non comprendono tutti i segnali di avvertimento che un altro cane gli rivolge, terminando così l’incontro con un morso. Il morso diventa il risultato di una incomprensione.

“le parole sono una fonte di malintesi.” così la volpe spiega al piccolo principe come potrà entrare in relazione con lei: in silenzio e con pazienza, perché le parole sono fonte di malinte- si. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba…Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla... ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino...”

se la comunicazione è sui saperi, allora la parola non può che essere fonte di malintesi. l., mazzetti, Umanizzare l’esperienza in Controcanto, Percorso di formazione per educatori, genitori, docen-

nelle attività di mediazione con l’asino la comunicazione assume un ruolo centrale, e per la sua specificità di un incontro tra specie diverse, si costruisce inizialmente in assenza di parole. la comunicazione è quella del contatto, del corpo. Il contatto stesso oggi è sempre più evitato e vietato. sembra un paradosso, se pensiamo che è il nostro senso più antico e il primo organo a formarsi è proprio la pelle. Infatti, il senso del tatto è pienamente formato a sette settimane di gestazione, quando il feto è lungo due centimetri. le esperienze del bambino di contatto col corpo della madre, costituiscono il suo primo e fondamentale mezzo di comunicazione, il suo primo linguaggio, il suo primo contatto con un altro essere umano. Il bisogno di toccare ed essere toccati è essenziale e universale. si ritrova in tutte le specie e in tutte le culture. degli esperimenti dimostrano che alcuni topi neonati muoiono se non vengono leccati e certe scimmiette si raggomitolano in un angolo della gabbia se sono private del contatto.5

Quante volte ci accorgiamo che le parole dette da noi stessi o da altre sono discordanti con le sensazioni appena accennate che avvertiamo.

la comunicazione con gli animali avviene sul piano delle emozioni. l’asino sente se abbiamo paura, anche se usiamo parole “forti”, sente se in quel momento lo stiamo strumen- talizzando o se siamo disponibili ad ascoltare le sue intenzioni.

solitamente chi è inconsapevole dei messaggi del suo corpo rimane esterrefatto quando, con il tempo, avverte quanto sopra accennato. sente che la comunicazione è molto di più del significato delle parole e apprezza la scoperta di questo nuovo incontro.

Un collega mi descriveva questo incontro costituito di distanze e vicinanze dove ogni mo- mento ha la sua giusta distanza che va intuita e rispettata. la stessa cosa vale aggiungerei per le persone che vivono malessere, c’è una giusta distanza da trovare in ogni secondo, quella distanza che permette anche all’altro di venirti incontro e non solamente di essere braccato con domande investigative a sfondo di aiuto.

In questo “luogo” che, come dicevamo, sta nel mezzo è di fondamentale importanza è il termine mediazione. l’etimologia ci suggerisce che “mediatore” (aprire nel mezzo) è colui che sta in mezzo, che si interpone, che funge da intermediario tra.

Per mediazione si intende, quindi, un processo mirato a far evolvere dinamicamente una situazione problematica, a far aprire canali di comunicazione che si sono bloccati e che l’operatore favorisce, suscita o restaura.

mediazione che, in un certo senso, questa attività svolge anche tra la cura che eventualmen- te svolge il soggetto, e il suo bisogno di essere protagonista del proprio benessere. come di- cevo precedentemente, la necessità di creare sinergia con il mondo medico è di fondamentale importanza, perché permette di svolgere dei programmi in linea con il bisogno della persona e di restituire ciò che emerge a chi in quel momento sta guidando un trattamento.

Un’altra problematica oggi è la mancanza di collaborazione tra i vari mondi che una per- sona con disagio abita. Qualunque intervento ha senso se è supportato in ogni ambiente riabi- litativo, così come i programmi per bambini con sindrome autistica vengono necessariamente svolti sia a casa che a scuola.

la preposizione “con”, apparentemente di poca importanza, comunica in realtà un approc- cio, in primis teorico, che studia e riflette da anni sul valore dell’incontro tra uomo e animale: la zooantropologia.

la storia dell’uomo, fin dall’antichità, è una storia caratterizzata da un rapporto continuo e costante con gli animali. Una relazione antica e diffusa ovunque se pensiamo che, la ten- denza dell’uomo a servirsi degli animali per svariati motivi, quali venerazione, nutrimento, utilizzo delle pelli e impiego lavorativo, è comune al processo di evoluzione di tutte le civiltà. non c’è popolo che non abbia interagito con le specie animali. la testimonianza di questo ci è riportata dai ritrovamenti di antiche raffigurazioni parietali, di cui gli animali rappresen-

tano ben l’80% dei soggetti ritratti, dalla mitologia, dalla filosofia, dai bestiari medioevali, dall’araldica e dalle favole.

l’uomo si è sempre ispirato all’animale, l’ha osservato per coglierne i segreti delle sue abilità, ad esempio, se pensiamo alla somiglianza del corpo di un uccello e di un aereo, ci è chiaro concludere che se non esistesse alcun volatile probabilmente non esisterebbero gli aerei. Tutto ciò sta a significare che questo rapporto ha un valore prezioso, un valore storico- culturale e che è impensabile negare un nesso tra l’evoluzione dell’uomo e il suo ambiente, di cui anche l’animale è elemento costitutivo e integrante.

nel corso dei secoli, questo rapporto ha subito diverse mutazioni e influenze a seconda dei bisogni e delle necessità dell’uomo. se pensiamo che gli egiziani consideravano sacro il gatto, diventato poi demonio e amico delle streghe per i popoli occidentali del medioevo; che le vacche sacre per gli indiani, erano e sono nutrimento per le altre civiltà; che il cane detestato dai popoli arabi, è amico fedele dei popoli occidentali, capiamo che, ad influenzare la considerazione verso gli animali, incide fortemente il credo religioso.

Percorrendo un sintetico sentiero storico ci accorgiamo di quanto sia evidente, che è la cultura a determinare le regole e i valori di un rapporto.

In fondo, l’uomo primitivo si è ritrovato a vivere con gli animali, ad essere incuriosito da loro e anche ad averne timore, perché presenze selvagge, oscure e sconosciute.

Un fenomeno significativo del passato è la totemizzazione (il termine totem deriva da

ototeman che significa parentela) degli animali, molto praticata dalle civiltà pre-colombiane, dai nativi d’America e dagli aborigeni australiani, dove ogni clan o in alcuni casi ogni indi- viduo è rappresentato da un animale. In particolare, i maya attribuivano un “nahual”, uno spirito buono rappresentato da un animale ad ogni individuo, a seconda del giorno di nascita corrispondente all’antico calendario divinatorio. Il nahual proteggeva la persona come una sorta di antenato mitico e quindi un parente. Ad ogni persona venivano attribuite le qualità del proprio animale totemico, ad esempio se l’animale totem era un toro, i caratteri trasmessi erano quelli di forza. Gli appartenenti al clan non potevano mangiare quell’ animale tranne che in un giorno preciso dell’anno, nel quale si praticavano particolari riti per arricchirsi delle preziose virtù del proprio animale.

I primi incontri con gli animali avevano dunque un carattere magico, l’animale era rico- nosciuto come forza da acquietare, da rendere alleata e l’uomo lo incontrava identificandosi con lui.

In questa concezione ritroviamo comunque un profondo rispetto anche nella caccia, ad esempio, una volta ucciso un animale si provvedeva a particolari rituali con lo scopo di placare la sua anima affinché non serbasse rancore al cacciatore. Questo fa percepire che l’animale aveva una considerazione importante. l’atto dell’uccidere doveva esser giustificato