• Non ci sono risultati.

maggio del 1974 arriva in Confindustria Gianni Agnelli È la pre sidenza del valore unico dei punti di scala mobile Ma anche quella

Confindustria ed il Lavoro *

Il 30 maggio del 1974 arriva in Confindustria Gianni Agnelli È la pre sidenza del valore unico dei punti di scala mobile Ma anche quella

della centralità dell’impresa.

Quando Giovani Agnelli si insediò, il suo esordio non avrebbe potuto avve- nire in un momento peggiore (attentato di Piazza della Loggia e vicenda del magistrato genovese Mario Sossi). Risultò evidente come la nomina di Agnelli e la sua accettazione erano dovute ad una situazione di assoluta emergenza. Anche se la Fiat era considerata l’“Università delle lotte ope- raie”, l’obiettivo che aveva indotto Agnelli ad assumersi il compito di pre- siedere la Confindustria era di accertare quali possibilità concrete esistessero per una alleanza fra una “borghesia illuminata” ed i “rappresentanti più re- sponsabili” della classe operaia, dato che un’intesa fra le parti sociali era, a suo avviso, l’unica leva per scongiurare il dissesto del Paese e riprendere la strada dello sviluppo. Per Agnelli era necessario stabilire le basi di un “nuo- vo patto sociale”, in pratica ridefinire «gli obiettivi nazionali del popolo ita- liano in vista degli anni 80 e 90». Un “patto sociale” da costruirsi non già a tavolino ma da realizzare «giorno per giorno, di concerto con le forze sociali per la crescita del sistema produttivo e dell’occupazione». Un’intesa fra bor- ghesia produttiva e classe operaia contro rendite e parassitismi, al di là del rapporto conflittuale fra capitale e lavoro.

La proposta di Agnelli si scontrò con un’altra pesante ondata di conflittuali- tà nelle fabbriche, a cominciare proprio dalla Fiat. Fra le tante richieste, quella su cui il sindacato unitario intendeva battersi, era la riforma della scala mobile. Dall’ultima revisione dei suoi meccanismi erano passati quasi vent’anni e, nel 1974, copriva a mala pena il 50% del salario rispetto all’inflazione. Il 25 gennaio 1975 Agnelli s’indusse ad accettare la chiusura dell’accordo sul punto unico di contingenza nella speranza che ciò sarebbe valso ad assicurare la pace sociale o quantomeno un miglioramento nelle re-

Giorgio Usai

lazioni industriali. Al di là delle critiche o dell’esaltazione, l’intesa sul punto unico e sulla cassa integrazione (allungamento a 12 o 18 mesi, invece che 3; copertura dell’80% invece che del 66%), dava modo alle imprese di conte- nere la contrattazione aziendale e di rafforzare la posizione più moderata della Federazione Unitaria nei confronti delle componenti più radicali del movimento operaio.

Comunque non ci furono poi passi concreti nella direzione di una “alleanza dei produttori” tali da preludere ad un nuovo sistema di regole nei rapporti fra imprese e sindacati più flessibili e funzionali alla produttività. Il sindacato manteneva una sostanziale diffidenza nei confronti di qualsiasi forma di co- gestione o codeterminazione, preferendo agire all’interno del sistema politi- co dove era in grado di esercitare robuste capacità di influenza. Dall’altro negli ambienti industriali si temeva che i sindacati avrebbero fatto leva su una concertazione istituzionalizzata con le imprese per porre le premesse di una “cogestione aziendale a modo loro”, ossia con una ridda di vincoli sen- za alcuna forma di responsabilizzazione.

I sindacati respinsero anche l’ipotesi di definire consensualmente con il Go- verno una “politica dei redditi”. Comunque il ruolo che Agnelli voleva per Confindustria non era una sorta di autoemarginazione nel cerchio delle sole relazioni sindacali, pur riconoscendone tutta l’importanza. Agnelli voleva che Confindustria svolgesse una funzione propositiva sul terreno politico e nella vita pubblica. L’economia non doveva sostituirsi alla politica né gli im- prenditori dovevano pendere il posto degli uomini politici. Tuttavia a Con- findustria avrebbe dovuto essere riconosciuta più udienza e maggior fiducia quando essa indicava le possibili soluzioni per questioni prioritarie ai fini della modernizzazione del Paese. Agnelli aveva riportato la Confindustria a un ruolo di primo piano. La presidenza Agnelli segna un ritorno in auge di un indirizzo fortemente centralizzato nelle politiche sindacali. Abbandonata la tattica del consenso sottesa al progetto Pirelli, la Confindustria tornò a ri- vendicare il ruolo “centrale” dell’impresa nello sviluppo economico e politi- co del Paese. La Confindustria riprese il suo spazio di azione mentre il sin- dacato stava impelagandosi in iniziative sempre più stravaganti e sempre meno sentite dai lavoratori (dalle 150 ore all’inquadramento unico che mira- va a depotenziare i trattamenti individuali accordati direttamente dall’imprenditore).

Negli anni Settanta l’iniziativa sindacale si proiettò verso obiettivi di alto profilo sociale ed economico, c’era la sensazione che si volesse cambiare la società mediante contratto collettivo. Si volle la rottura dell’antico steccato fra operai ed impiegati, si misero i presupposti per una reale modifica della distribuzione dei redditi, si sostenne che nella fabbrica dovesse entrare una

Interviste e interventi

cultura alternativa a quella dell’impresa e si operò un confronto sugli stru- menti di controllo dell’attività industriale. L’obiettivo della Fiom di Trentin era assai ambizioso: con l’inquadramento unico non mirava soltanto a colpi- re la differenziazione salariale stabilita per contratto ma quella dell’autonomia “soggettiva” cioè legata alle elargizioni dei datori di lavoro attraverso l’offerta della possibilità di assorbire nei nuovi minimi unificati gli aumenti di merito.

Più che l’inquadramento unico fu infatti l’accordo del ‘75 sull’indennità di contingenza a colpire la distinzione fra operai ed impiegati. Con la contin- genza unificata al più alto livello, si arrivò verso la fine degli anni Settanta al fortissimo restringimento della forbice fra la retribuzione degli operai e quella degli impiegati. Da allora iniziò la perdita progressiva e inesorabile di rappresentatività dei sindacati fra i ceti impiegatizi che avanzavano richieste di maggiore meritocrazia.

Gli industriali recuperarono sicurezza e cominciarono a denunciare ad alta voce le difficoltà in cui si trovavano ad operare a causa dei vincoli imposti all’attività economica da sindacati, giudici e politici. Lo slogan della presi- denza Agnelli fu la “centralità” dell’impresa che da semplice strumento per la produzione della ricchezza doveva assumere un ruolo egemone, quale ga- rante di libertà e di democrazia. L’accordo che stipulò nei suoi due anni di presidenza segnò l’inizio del cambiamento nei rapporti fra Confindustria, i sindacati, la politica, il Paese tutto.

Considerato generalmente come un cedimento alla controparte (e tale lo considerò Ugo La Malfa ma non Aldo Moro), l’accordo del 25 gennaio 1975 fu invece una delle cause più importanti dell’indebolimento dei sindacati. Sia perché con il perfezionamento della cassa integrazione ordinaria e straordi- naria veniva sdrammatizzata la ristrutturazione industriale fino ad allora bloccata dagli ostacoli ai licenziamenti introdotti dalla statuto, sia perché mentre si accavallavano le nubi dell’inflazione a due cifre, introduceva il “punto unico di contingenza” che garantiva ai lavoratori non professionali il mantenimento del potere di acquisto dei loro salari e, in alcuni casi limite, perfino la crescita. Il sindacato si vedeva sottrarre i due strumenti cardine della sua iniziativa: la difesa ad oltranza dei posti di lavoro ed il governo dei salari per gli operai tayloristici.

Giorgio Usai

Dopo Agnelli, Carli e Merloni. Gli anni della ristrutturazione indu- striale. Dell’alta inflazione. Il 14 ottobre 1980, a Torino, la marcia dei quarantamila.

Il piano strategico di Agnelli si completò con la designazione alla presidenza di Confindustria di Guido Carli che aveva da poco lasciato la Banca d’Italia. Personaggio autorevolissimo nel Paese ed all’estero, era dotato di cultura storica ed economica prodigiosa. Il nuovo presidente avviò l’opera di rico- struzione della Confindustria in modo complementare a quella di Agnelli. Così mentre il presidente della Fiat aveva agito su un piano ideologico for- temente legato al recupero dell’immagine degli industriali, Carli procedette con intenti e procedimenti scientifici.

Quasi a segnare la conclusione di un’epoca e l’inizio di un’altra Angelo Co- sta morì poche settimane dopo l’insediamento di Carli. La presenza, dall’agosto del 1976, di un Governo monocolore presieduto da Andreotti con la formula della “non sfiducia” pregiudiziale da parte del Partito Comu- nista vista la grave situazione di crisi economica del Paese, indusse Carli a ritenere che ci fossero le condizioni per chiedere ai sindacati una revisione delle proprie strategie in modo da sintonizzarle con la politica dell’austerità. In questo contesto risultante da una sorta di bizantinismo politico, fu possi- bile raggiungere nel gennaio del 1977 un accordo sul costo del lavoro. Con quell’accordo venne stabilita una nuova normativa in fatto di indennità e scatti di contingenza con l’abolizione degli automatismi legati alle variazioni della scala mobile sui premi di produzione e su alcuni compensi salariali. A due anni di distanza dall’accordo Lama-Agnelli sul punto unico di contin- genza, l’accordo di Carli stabiliva strumenti per il controllo delle assenze abusive dal lavoro, riduceva le festività infrasettimanali, ma soprattutto riu- sciva ad aggredire con forza l’istituto dell’indennità di contingenza conside- rato unanimemente strumento di accelerazione dell’inflazione.

Venne bloccata l’indicizzazione della retribuzione utile ai fini dell’indennità di anzianità calcolata sull’ultima retribuzione percepita al fine di premiare la fedeltà del lavoratore all’azienda.

In quegli anni gli imprenditori sentirono di poter nuovamente giocare il ruo- lo forte da cui erano stati espropriati dal ‘68 in avanti. Carli seppe muoversi con abilità nella sfera politica e gli industriali finirono per fare un atto di fi- ducia e dettero il loro sostegno al Governo di “solidarietà nazionale” che pure era l’espressione di una maggioranza che comprendeva i comunisti. Collegato o no a questo, sta di fatto che nella primavera del 1977 su Repub- blica, nell’intervista di Scalfari, Luciano Lama segretario generale della Cgil faceva pubblica ammenda della teoria del salario “variabile indipendente” e

Interviste e interventi

cioè del cavallo di battaglia dei sindacati dal ‘68 in avanti. E questo accadeva davanti alla gravissima crisi economica mondiale, alla situazione drammatica del Paese, con un’inflazione che viaggiava intorno al 17-18% l’anno, con il petrolio a 35 dollari al barile, con le sospensioni di energia elettrica due volte la settimana, il taglio drastico del riscaldamento domestico, la ripresa delle “domeniche a piedi”.

Nel ‘77 si ebbe la prima vera e propria inversione di tendenza nella politica confederale. Se è vero che il contratto Lama-Agnelli conteneva elementi for- temente innovativi a favore delle imprese, soprattutto per quanto riguardava l’applicazione della cassa integrazione, esso faceva comunque importanti concessioni ai sindacati.

Con l’accordo sul costo del lavoro, per la prima volta dopo molti anni i sin- dacati cedevano qualcosa alla controparte senza ricevere alcun corrispettivo. Il disagio sindacale era fortissimo e la crisi che avrebbe investito i sindacati negli anni successivi si aprì proprio con l’accordo interconfederale del 1977. Era la prima volta dal dopoguerra che un’intesa si era perfezionata senza che i sindacati avessero ottenuto alcunché.

La presidenza Carli si chiuse nel 1980 con un bilancio largamente positivo. Proprio negli “anni dell’incertezza” alla guida degli industriali si erano avvi- cendati due personaggi del tutto anomali rispetto alle tradizioni associative: Giovanni Agnelli e Guido Carli, che impressero all’azione della Confindu- stria un ritmo del tutto nuovo, accelerando così la crisi sindacale.

Due anni dopo, il 22 gennaio 1983, il “protocollo Scotti” sottoscritto dal successore di Carli, Vittorio Merloni, consacrò una nuova Confindustria re- stituita pienamente alla sua posizione di parte sociale ed di “soggetto politi- co”. Una Confindustria sempre meno “collaterale” ai partiti ed al Governo, cui sarebbe derivato negli anni Ottanta e Novanta il consolidamento della sua leadership fra gli imprenditori, senza distinzione di settore, fino al punto di vedersi riconoscere dalle istituzioni il ruolo di “rappresentanza generale” dell’economia italiana, conquistata proprio quando Luigi Abete, inauguran- do la sua presidenza, aveva dichiarato la svolta “agovernativa” della Confe- derazione.

All’inizio degli anni Ottanta, una fase importante nella vita dell’Associazione coincise con la presidenza di Vittorio Merloni. La sua designazione alla mas- sima responsabilità degli industriali italiani costituì un tangibile riconosci- mento del notevole ruolo assunto nel frattempo dalla piccola-media impre- sa. Merloni affermò a voce alta ed in termini decisi che occorreva ribaltare l’ordine gerarchico dei rapporti fra capitale e lavoro, quale teorizzato e pro- pagandato negli ultimi anni dal sindacato che aveva posto in cima a tutto l’occupazione e la garanzia dei posti di lavoro. Se non si ripristinavano i

Giorgio Usai

meccanismi dell’accumulazione era utopico pensare a un incremento degli investimenti e quindi della produzione e dell’occupazione.

Merloni, senza tanti giri di parole, dichiarò che non intendeva più venire a patti con il sindacato, che era ormai indispensabile sciogliere i vincoli che inceppavano l’attività nei complessi di maggiori dimensioni, dovuti tanto ad una conflittualità persistente, anche al di fuori delle periodiche vertenze con- trattuali, quanto ad un esasperato egualitarismo imposto dai Consigli di fab- brica. E questo anche per ripristinare criteri di merito e di professionalità nell’ambito delle maestranze. Avrebbe dato quindi battaglia per modificare i meccanismi di scala mobile così com’erano congegnati in quanto da un lato contribuivano ad alimentare la spirale inflazionistica – giunta ormai a sfiora- re il 20% – e dall’altro determinavano un’incessante lievitazione del costo del lavoro.

I sindacati per parte loro seguitavano a fare muro nei confronti di una revi- sione della scala mobile e non volevano sentir parlare di una valutazione del- le loro rivendicazioni in un quadro di “compatibilità economiche” o in no- me della “solidarietà nazionale”.

Si era inevitabilmente giunti al punto da non poter più evitare scelte imper- vie e dolorose da parte delle imprese, tali da incidere duramente sui livelli di occupazione. L’8 maggio 1980 la Fiat mette in cassa integrazione ben 78mila lavoratori confermata poi a settembre per 70mila. Ad ottobre il licenziamen- to di 61 dipendenti, sospettati di connivenza con i brigatisti o accusati di atti teppistici o gravi violazioni contrattuali. Scatta uno sciopero ad oltranza con presidio dei cancelli.

La resa della Fiat pareva imminente ma a risolvere la situazione intervenne la mobilitazione dei capi intermedi per poter tornare a lavorare.

Dopo il 14 ottobre 1980, con la marcia dei quarantamila, si concluse la pro- va di forza in atto alla Fiat che aveva finito per assumere una rilevanza poli- tica nazionale. In Confindustria si avvertì la possibilità di imprimere un mu- tamento di rotta nel campo delle relazioni industriali.

Il 14 febbraio 1984. L’accordo di San Valentino. Il taglio dei punti di

Outline

Documenti correlati