• Non ci sono risultati.

Verso la partecipazione solo se risponde ad esigenze reali ed a “finalità di pace” (1989)

La cogestione imperfetta: il pensiero di Felice Mortillaro

8. Verso la partecipazione solo se risponde ad esigenze reali ed a “finalità di pace” (1989)

«L’esperienza storica insegna che molto raramente le riforme di ogni genere – costituzionali, politiche, economiche, religiose – sono state compiute a freddo, senza essere precedute da un grande rivolgimento sociale, da uno sconvolgimento bellico, da un profondo richiamo spirituale» (34).

«Per le relazioni industriali […] vi sono solo tre casi di riforma che non sia stata consumata attraverso una lunga vicenda di accordi, di contratti, di prassi applicative, di pratiche, di comportamenti, che sia uscita, invece, no- vella Minerva, da un “atto” di legge o di autonomia collettiva» (35).

«Al di fuori di questi tre casi […] le riforme delle relazioni sindacali sono state il frutto di un paziente lavorio dell’autonomia collettiva, perfezionato ad adiuvandum dall’intervento del legislatore, fatto di conflitti e di intese […] ma soprattutto di iniziative che si muovevano, dall’una e dall’altra parte, nel

(32) Corsivo dell’A., ndr.

(33) Ivi, 100.

(34) F. MORTILLARO, Riformare ma senza artifici, in Spazio Impresa, 1989, ora anche in G.

SAPELLI (a cura di), op. cit., 519.

(35) Mortillaro richiama i soli tre casi che, a sua memoria, hanno questa caratteristica e cioè

«l’“accordo generale” stipulato dagli imprenditori e dai sindacati tedeschi il 15 novembre 1918, all’indomani del crollo del primo Reich, che aprì la strada al sistema della codecisione, intorno al quale si sviluppò la politica sociale della tumultuosa Repubblica di Weimar; la legge 3 aprile 1926, con la quale venne introdotto in Italia l’ordinamento corporativo (e furono vietati lo sciopero e la serrata, fu data efficacia erga omnes ai contratti collettivi e fu

istituita la magistratura del lavoro) e, infine, l’accordo sottoscritto a Saltsjöbaden fra Saf e Lo – Confindustria e sindacato operaio svedesi – nel 1938, con il quale le parti si riconobbero reciprocamente uniche rappresentanti delle due sfere di interesse e delimitarono i rispettivi campi di intervento, introducendo tra l’altro il principio, tuttora osservato, in forza del quale l’efficacia dei contratti collettivi di categoria è subordinata alla clausola che riconosce all’impresa “il diritto di dirigere e distribuire il lavoro”» (ivi, 520).

Scritti di Giorgio Usai

senso di rispondere a domande reali intorno alle quali era possibile aggrega- re un consenso effettivo, verificabile nella misura dei “sacrifici” che ciascun centro di interessi sarebbe stato in grado di imporre ai suoi rappresentati per perseguire, e raggiungere, il successo o per impedire quello dell’avversario». «La formazione del sistema di relazioni sindacali nel nostro Paese ha ubbidi- to quasi alla lettera a questa regola […]. Ora, la questione della riforma del sistema di relazioni sindacali viene riproposta, più, tuttavia, come esercita- zione di ingegneria contrattuale, non vorrei dire istituzionale, che in termini di risposta a ben precisate esigenze espresse dalle parti interessate, inten- dendo per tali non le rispettive strutture burocratiche […] ma i gruppi sot- tostanti, formati da soggetti, imprese e lavoratori, che individuano le esigen- ze e i desideri specifici da soddisfare, di cui sono perfettamente in condizio- ne di valutare il grado di fattibilità e, in modo ancora più preciso, l’utilità di farli valere, assumendo i costi di investimento per sostenerli e i rischi conse- guenti a un eventuale fallimento».

«Il punto è che le riforme […] dovrebbero rispondere al bisogno reale di cambiamento, a qualcosa che […] sia nel comune modo di sentire prima di tradursi in un messaggio ideologico e normativo».

«Il dramma della riforma delle relazioni sindacali è, in fondo, tutto qui: nello scontro fra una società che tende a cose nuove perché i bisogni vecchi sono entrati nel novero delle presenze naturali come l’acqua e l’aria che non pos- sono venir meno e organizzazioni che continuano ad offrire un bene che non è più richiesto, perché esso è parte normale di altri e nuovi beni, deside- rati perché rari, non frequenti, preziosi» (36).

«[…]. Cercare altri centri di interesse, altri soggetti disposti ad accettare la tutela collettiva, inventare esigenze che pur apparendo nuove, siano “vec- chie” a tutti gli effetti, perché i sindacati, quale che sia la loro origine, queste e queste soltanto sono in grado di difendere con successo, diventa dunque la parola d’ordine […] che le associazioni di interessi collettivi sono con- dannate a perseguire».

«Così si vede bene la strumentalità della richiesta di “partecipazione” osses- siva per non dire querula, che i sindacati vedono come il ramo proteso cui aggrapparsi per uscire da un guado che assomiglia tanto alle sabbie mobili.

(36) «Bisogni che si chiamano valorizzazione di se stessi, affermazione professionale, status

personale, in termini semplificati “bisogno di amore” nel senso più ampio dell’espressione e bisogno di trovare chi questo “amore” riconosca, non a una collettività, a un gruppo, ma a un singolo, perché i sentimenti individuali […] non accettano condivisioni, anzi si sentono

Giorgio Usai

Ma quale partecipazione, verrebbe da chiedere: alla gestione dell’impresa se- condo la dottrina sociale cristiana, o i principi di Weimar sfuocati, ormai l’una e gli altri, nei fotogrammi della storia o semplicemente all’amministrazione dei rapporti di lavoro?

Oppure, come è probabile, è soltanto la richiesta di avere libertà di interven- to su tutto quanto accade nell’azienda, senza, naturalmente, assumere alcun rischio?

Chi vuole partecipare, chi chiede di partecipare, lo fa perché non è in condi- zioni di inserirsi direttamente nel gioco con la sua forza. […]. Non per nulla quando, negli anni Settanta, qualcuno del versante imprenditoriale, vedeva nella partecipazione – a un conseil de surveillance o meglio a qualche organo programmatorio di un fantomatico “ministero dell’economia” – un modo per controllare sindacati aggressivi, determinati e vincenti, la risposta che ri- ceveva era, nel migliore dei casi, un sorriso di compatimento, nel peggiore, una volgare accusa di fascismo. […]. Gli stessi giuristi, che stanno elaboran- do, oggi [1989], progetti di legge per l’applicazione dell’art. 46 della Costitu- zione, ne proponevano allora l’abrogazione per manifesta obsolescenza, in- sieme all’art. 39, tornato anch’esso, e non a caso, di moda» (37).

«Il dibattito sul futuro delle relazioni del lavoro in Italia […] avrà scarse probabilità di uscire dalle indicazioni generiche e dagli auspici d’uso, se non verranno chiariti una volta per tutte gli obiettivi cui le organizzazioni sinda- cali dei lavoratori guardano, e il ruolo che intendono giocare nel nuovo si- stema di regole, di pratiche, di comportamenti, di competenze che delle suddette relazioni costituirà la struttura portante» (38).

Gli imprenditori, infatti, si sono espressi «in termini, magari controvertibili, ma assolutamente chiari, facendo, prima ancora di trasferire al tavolo con- trattuale il dibattito, importanti aperture di ordine politico. Dichiarando, per esempio, senza mezzi termini di riconoscere l’interlocutore sindacale quale parte determinante delle relazioni di lavoro, essi hanno rinunciato ad una impostazione alla giapponese (mercato dell’occupazione diviso fra protetti e non protetti) o all’anglosassone (sindacato ridotto in enclaves marginali, largo spazio all’autonomia soggettiva) per sposare un assetto centro-europeo di cooperazione fra sindacati ed imprese disciplinato, sanzionato e, di conse- guenza, amministrato, sotto il profilo sociale ed economico, secondo regole certe».

Dall’altro versante, invece, si registrano dichiarazioni di dirigenti sindacali che «da un lato ripropongono senza alcun imbarazzo la tesi del sindacato

(37) Ivi, 525.

(38) F.MORTILLARO, Il sindacato esita sulla via della pace. Nuove relazioni industriali ancora malate di ambiguità, in Il Sole 24 Ore, 7 marzo 1989, ora anche in G.S (a cura di), op. cit., 526.

Scritti di Giorgio Usai

“partner conflittuale”, che richiama le teorizzazioni di Bruno Trentin nel suo saggio Da sfruttati a produttori (1977), dall’altro continuano a dire che essi sono pronti a definire le “nuove regole delle relazioni industriali” senza spe- cificarne, naturalmente, i contenuti.

In realtà, un’indicazione di come essi le vorrebbero ci sarebbe. Basta consi- derare la pratica attuale, fatta ancora di accordi aziendali in cui si registra, dove è possibile, l’esercizio massimo del rapporto di forza: di rivendicazioni assai al di sopra dei limiti di compatibilità economica […]. Iniziative tutte che tendono a rafforzare e rammendare il vecchio tessuto del potere sinda- cale […] che la dicono lunga sulla distanza fra le affermazioni di maniera e i comportamenti fattuali».

«[…]. È necessario aver chiaro che si farebbe poco cammino se, tanto per esemplificare, qualcuno immaginasse o di compiere un’operazione mera- mente acquisitiva (regole a favore dei sindacati dirette a vincolare l’iniziativa economica più di quanto lo sia oggi), oppure di sovrapporre il modello con- flittuale di relazioni industriali (quello, per intenderci, che si invera nello Sta- tuto dei lavoratori) a un sistema codecisionale alla tedesca, così da realizzare caso per caso i vantaggi dell’uno e dell’altro».

«[…]. Il progetto che cresce fra mille difficoltà dovrebbe dunque assumere un obiettivo politico di grande rilievo qual è la “finalità di pace” del sistema di relazioni industriali. Non dovrebbe suscitare scandalo se […] chi si è detto pronto a scrivere con i sindacati una sorta di “costituzione del lavoro”, vorrebbe un patto che definisca diritti e doveri di ciascuno, e consenta alle parti di vivere in pace, almeno re- lativa, senza essere continuamente costretto a rimettere in discussione gli impegni assunti. Quando dico “parti”, intendo l’una e l’altra senza distinzio- ni e penso a “magistrature” sindacali e paritetiche deputate a prevenire e a conciliare i conflitti. Immagino insomma “rappresentanze rappresentative” in quanto elette, sog- getti di un sistema di relazioni industriali in cui l’autotutela – lo sciopero e la serrata – diventino strumenti eccezionali di situazioni eccezionali» (39) (40).

«[…]. In altre, e più precise parole, il punto è di stabilire che nelle “nuove relazioni industriali”, non ci sarà posto per affermazioni simili a questa: “Abbiamo visto come dal contratto collettivo non discenda alcun obbligo di pace. Ciò esclude che il contratto sia concluso al fine di prevenire conflitti futuri”» (41).

(39) Corsivo dell’A., ndr.

(40) Ivi, 528.

(41) «Ad affermarlo furono semplicemente Gino Giugni e Federico Mancini», ricorda

Mortillaro, «nella loro relazione Movimento sindacale e contrattazione collettiva al convegno

Giorgio Usai

«Il movimento sindacale […] ha […] finalità di natura rivendicativa» anche se «oggi [1991] nessun sindacalista ammetterebbe che i suoi obiettivi siano così ristretti e dirà che la sua funzione principale è, invece, quella di propor- re e ricercare insieme agli altri produttori del reddito, i metodi e gli strumen- ti per realizzare, con il consenso dei lavoratori (partecipazione, contrattazio- ne, informazione preventiva), l’allargamento della “base produttiva” che consenta appunto, in piena compatibilità economica, il miracolo del “più sa- lario e meno lavoro”, cui nessun sindacato appena credibile può rinunciare» (42).

«[…]. Il punto è di valutare freddamente […] se non sia proprio il metodo della rivendicazione sindacale […] ad aver concluso il suo glorioso iter, per aver raggiunto il suo “scopo sociale”, la sua capacità massima di espansio- ne».

«[…]. Ora se è vero che il metodo, o se si preferisce la cultura sindacale, hanno avuto nella loro ora più bella alcune idee-guida che si chiamavano so- lidarietà, stato sociale, intervento pubblico nell’economia, eguaglianza, è al- trettanto vero che questi “valori” o sono diventati addirittura “disvalori” […] o non sono più accettati come tali […]. Il fatto è che la cultura sindaca- le, il metodo sindacale, richiedono, per esprimersi appieno, condizioni eco- nomiche e sociali connotate da profondo squilibrio nella distribuzione del reddito prodotto, per cui si determina una sorta di alleanza fra i produttori di certi beni – i beni di massa – e i consumatori possibili, i quali sono in gran parte gli stessi soggetti che il sindacato si propone di tutelare».

«Sono necessarie, cioè, le condizioni che si sono verificate nel secolo scorso in Gran Bretagna e in questo negli Stati Uniti, in Svezia e, buona ultima, in Italia, dove negli anni Sessanta si misurarono due concezioni economiche, quella degli alti salari e degli alti consumi, impersonata da Valletta, e quella affermata da Costa dell’accumulazione per uno sviluppo lento e sicuro che imponeva salari contenuti. Vinse naturalmente, la prima perché gli uomini e le aziende vivono nel presente e non sub specie aeternitatis, come pensava Co- sta, e vinse il sindacato in quanto la prima tesi rispondeva pienamente non soltanto alla sua cultura, ma alla domanda dei suoi rappresentati» (43).

«Raggiunto l’obiettivo, un po’ con le “lotte” e molto per effetto della com- binazione fra nuove tecnologie e mercato, il sindacato italiano avrebbe do- vuto sostare per rimeditare la sua politica […]. Rimeditare la sua politica avrebbe significato per le associazioni operaie l’ingresso a pieno titolo nelle

(42) F. MORTILLARO, Invecchiati sulle rivendicazioni. Perché solidarietà e lobbismo dividono il movimento sindacale, in Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 1991, ora anche in G.SAPELLI (a cura di),

op. cit., 543.

Scritti di Giorgio Usai

istituzioni, con il drastico ridimensionamento della cultura rivendicazionista a beneficio di un ruolo di governo in cui il “movimento” avrebbe dovuto cedere il passo all’“organizzazione”».

«Il sindacato ha rifiutato questo difficilissimo passaggio» e «risulta incom- prensibile il motivo per il quale si è voluto insistere di fatto […] nel modello rivendicativo, senza neppur considerare che […] bisognava tener conto […] che erano mutati i termini di mercato entro i quali il sindacato si era mosso fino allora e da una dimensione provinciale, protezionistica […] si stava pas- sando a un mercato aperto, multinazionale, in cui i prodotti si affermano per forza propria e l’operaio-consumatore è costretto a uscire dal bozzolo che fino ad allora lo aveva garantito e castigato ad un tempo».

«La questione della cultura sindacale non è dunque quella di ripercorrere in forma diversa le vecchie iniziative e neppure di immaginare modelli di de- mocrazia sindacale, che altro non sono se non strumenti di conservazione che – Svezia docet – tralignano rapidamente nella sclerosi burocratica, ma di interrogarsi sulla capacità di elaborare una politica in cui il bilancio costi- ricavi faccia premio sulla rivendicazione» (44).

9. Lo scambio possibile: “pace sociale contro partecipazione”

Outline

Documenti correlati