Filippo Ivaldi
L'andamento del mercato del lavoro in Europa e in Italia ha subito un serio contraccolpo con la crisi petrolifera del
1974. Da quel momento le tensioni nei vari paesi della Comunità hanno preso ad esasperarsi, stimolando vasti movi-menti di « rigetto » di mano d'opera che si sono concretati in un massiccio au-mento della disoccupazione. Oggi'si cal-cola che i senza lavoro siano almeno sei milioni.
Tuttavia bisogna osservare che un esa-me dettagliato di questa materia presen-ta non poche difficoltà. Si tratpresen-ta infatti di un terreno dove non sempre le stati-stiche ufficiali riflettono l'andamento reale e dove, sotto la spinta delle alter-ne fasi congiunturali, il quadro è sog-getto a rapide e a ricorrenti variazioni. Un tentativo organico di analisi dell'in-tero settore è stato comunque compiuto dal convegno che si è svolto presso la Camera di commercio di Torino ad ope-ra del C E E P nelle giornate del 14 e 15 dicembre scorso. Si è trattato di un pri-mo passo verso una valutazione statisti-ca e socioeconomistatisti-ca dei fenomeni che nell'ambito del mercato del lavoro euro-peo stanno praticamente determinando profonde trasformazioni.
Una prima constatazione di massima emersa è che per poter recuperare al processo produttivo buona parte della mano d'opera che oggi ne è esclusa nonché le nuove forze che vi si affac-ceranno, l'Europa dovrà riprendere il ritmo di espansione che fu tipico del pe-riodo antecedente lo scoppio della crisi petrolifera. In sostanza si tratterà di ri-donare alla dinamica produttiva quello slancio che in alcuni paesi è andato smarrito, rimettendo in moto tutti i pro-cessi necessari, da quello degli investi-menti a quello della mobilità del lavoro a quello di una progressiva evoluzione qualitativa della mano d'opera attraver-so una più organica politica di forma-zione professionale.
LA S I T U A Z I O N E IN EUROPA
Un quadro dettagliato dell'andamento occupazionale in Europa è stato fornito da David White, dell'ufficio studi della CEE. Lo studio si divide in due parti:
nella prima viene esaminata la dinamica dell'occupazione cosi come si è mani-festata tra il 1960 e il 1975 in Francia, Germania Occidentale, Belgio, Olanda, Irlanda, Lussemburgo e Gran Bretagna; nella seconda si avanzano stime previ-sionali relative al 1980 e al 1985. I set-tori esaminati sono l'agricoltura, l'indu-stria estrattiva, l'indul'indu-stria manifattu-riera, l'edilizia, i trasporti, il commer-cio e i servizi pubblici in generale. Il primo dato che emerge è quello re-lativo ad una tendenza pressoché gene-ralizzata all'incremento del « terziario » che ha registrato sviluppi consistenti in tutti i paesi esaminati e che sembra avviato ad attestarsi nel prossimo futu-ro su tassi di livello nordamericano. Il
boom si è manifestato soprattutto in
Belgio ( + 3,8% nel corso degli ulti-mi 15 anni), in Francia ( + 3 , 1 % ) e nella Germania Federale ( + 3,9%). Passando alle previsioni di carattere globale lo studio prevede che il settore dei servizi preso nel suo assieme do-vrebbe passare dai nove milioni 400.000 addetti nel '75 ai dieci milioni 700.000 nel 1980, a dodici milioni 625.000 nel
1985.
Di particolare interesse il quadro com-plessivo nel quale vengono esaminati gli andamenti occupazionali nei sette paesi interessati. Da tale quadro risulta che nel periodo compreso fra il 1960 e il 1975 l'agricoltura e il settore estrat-tivo hanno registrato il maggior calo di occupazione, con un decremento rispet-tivamente del 3,9 e del 4,4% l'anno. Il settore manifatturiero ha avuto una crescita dello 0,3% l'anno, seguito da quello del commercio ( + 0,6% l'anno). Se si fa riferimento ai singoli paesi per quanto concerne l'agricoltura la per-dita maggiore di mano d'opera si è avu-ta nel Lussemburgo ( — 5 , 7 % ) mentre il tasso più basso di flessione è stato registrato in Irlanda (— 3%). Occorre però osservare che nel Lussemburgo il settore agricolo copre appena il 6% del-la occupazione totale mentre in Irdel-landa raggiunge il 25%. Passando alle previ-sioni si può dire che nei sette paesi in-teressati la forza lavoro agricola calerà dai 5 milioni e mezzo di unità nel '75 a 4 milioni trecentomila unità nel 1980, a 3 milioni quattrocentosettantaduemila unità nel 1985.
Nel settore dell'industria estrattiva la flessione maggiore di mano d'opera si è avuta in Olanda (— 21%), seguita dal Lussemburgo (— 7,5%) e dalla Germania Federale (— 3,1%). An-che in questo campo le previsioni in-dicano un graduale calo di mano d'ope-ra occupata col passaggio dagli attuali 887 mila addetti a 708 mila nel 1980, a 572 mila nel 1985.
Un'attenzione particolare merita, in que-sto quadro, il fondamentale campo
del-l'industria manifatturiera che occupa
at-tualmente nei sette paesi oltre 26 mi-lioni di unità. Qui siamo in presenza di variazioni minime che si sono con-cretate (sempre nel periodo fra il 1960 e il 1975) in un incremento dell'I,8% in Irlanda e dell'1,6% in Lussemburgo. Negli altri paesi non si sono avuti spo-stamenti di rilievo. Per il 1980 gli ad-detti all'industria manifatturiera nei set-te paesi dovrebbero superare i 26 lioni e mezzo, per attestarsi sui 27 mi-lioni nel 1985.
Anche i settori della edilizia e dei
tra-sporti non prevedono grossi mutamenti.
In particolare, nel primo si dovrebbe passare dai 6 milioni e trecentomila addetti attuali a 6 milioni 700 mila nel
1985, mentre nel secondo sono previ-ste le seguenti variazioni: da circa 5 milioni a circa 5 milioni 200 mila nel 1985. Un settore in sensibile movimen-to appare quello del commercio, dove gli addetti dovrebbero passare dagli at-tuali 10 milioni 700 mila a poco più di 11 milioni nel 1980, a 11 milioni e mezzo nel 1985.
È tuttavia evidente che la dinamica oc-cupazionale in buona parte dei settori esaminati sarà soggetta direttamente al-l'andamento ciclico dell'economia. Ciò vale soprattutto per l'industria manifat-turiera che appare la più esposta, non-ché per il terziario e i servizi in gene-rale, il commercio e l'edilizia.
LA SITUAZIONE IN ITALIA
Se è vero che la crisi petrolifera del 1974 ha seriamente influenzato l'anda-mento del mercato del lavoro in Euro-pa, a maggior ragione ciò vale per l'Ita-lia. Infatti la nostra crisi era cominciata
assai prima, e cioè dopo il 1968, con la mortificazione sistematica della impren-ditoria privata e pubblica, con l'esten-dersi della filosofia assistenziale e paras-sitaria, con l'erompere e il dilatarsi del-le spinte corporative e clientelari, in una parola con la degenerazione del sistema dell'economia di mercato.
Come si è mossa, in questo quadro, la nostra forza lavoro? La risposta a que-sto interrogativo appare assai difficile e può portare a valutazioni problemati-che, e ciò nonostante l'abbondanza del-le statistiche ufficiali. Il convegno di To-rino ha comunque messo in luce alcune linee di tendenza. Secondo il professor Luigi Frey della Università di Parma, il rallentamento e la sostanziale stasi della domanda di lavoro a partire dal secondo semestre del 1977 ha portato ad una disoccupazione « ufficiale » (quella cioè che viene periodicamente rilevata
dal-I ' dal-I S T A T ) che si aggira ormai sul milione e mezzo di unità, il che rappresenta
« il 2,7% della popolazione presente, ovvero il 7,1% delle forze del lavoro rilevate ». All'interno di questa
disoccu-pazione esplicita si sono accentuati i problemi riguardanti il Mezzogiorno, le donne e i giovani. In particolare la di-soccupazione meridionale figura in me-dia pari al 44% del totale nazionale, quella femminile pari al 56% mentre quella dei giovani tra i 14 e i 29 anni si attesta sul 73%.
Ma sono del tutto attendibili queste sti-me? Il professor Giuseppe De Rita, se-gretario generale del CENSIs, sostiene che esse si avvicinano al vero nel setto-re giovanile, ma che nel campo della disoccupazione adulta le cose vanno diversamente. Secondo valutazione del
C E N S I S vi sono oggi in Italia almeno 3 milioni e mezzo di lavoratori interessati ad una attività « a spezzoni », cioè sal-tuaria, che tuttavia produce un certo reddito, anche se praticamente nascosto. Chi è in grado infatti di classificare que-sti fenomeni? Siamo dunque in presen-za di una vera e propria « giungla » del-le cifre, dalla quadel-le emerge tuttavia l'an-damento anomalo, distorto ed anarcoide dell'intero mercato del lavoro, dovuto ad un tipo di economia che smarrisce sem-pre più i caratteri di omogeneità per tra-dursi in uno spezzettamento e in una frantumazione pressoché generalizzata
dell'intero apparato produttivo.
Sintomatica, in proposito, l'analisi del prof. Bruno Contini, della Università di Torino, il quale sostiene che l'occupazio-ne l'occupazio-nel campo dell'industria l'occupazio-nel periodo compreso fra il 1970 e il 1976 non solo ha registrato ritmi di crescita estrema-mente limitati, ma anche andamenti per certi versi sconcertanti. In particolare, nel triangolo industriale del nord si sa-rebbe avuto un calo della forza lavoro adulta di 21 mila unità; nell'Italia nord orientale un aumento di 32 mila unità, nell'Italia centrale un aumento di 75 mila unità mentre nel sud si è avuto il maggior incremento con 87 mila unità. Il calo che si è creato nel nord è stato dunque compensato dagli aumenti nel centro e nel Mezzogiorno. Tuttavia —-secondo Contini — si tratta di aumenti piuttosto artificiosi in quanto legati a industrie matura come la chimica e la siderurgia che oggi appaiono in crisi. C'è quindi da prevedete che il mantenimen-to di questi livelli occupazionali sarà piuttosto problematico.
Per contro le cifre relative al nord, e in particolare al triangolo industriale, presentano aspetti contraddittori poi-ché, in realtà, abbiamo uno sfogo occu-pazionale nascosto che si esercita nella ragnatela delle piccole e piccolissime im-prese che sono il frutto di un « decen-tramento » produttivo messo in atto dai grandi complessi attraverso il lavoro « indotto ». In questo quadro è interes-sante notare che le imprese al di sotto
delle 20 unità hanno registrato tutte un
aumento di addetti. Altro aspetto di questo fen aneno è quello relativo ai set-tori interessati che sono essenzialmente quelli tradizionali come il vestiario-ab-bigliamento, le calzature, la lavorazione del legno e l'industria alimentare. Qui si sono registrati i maggiori investimenti.
In sostanza, secondo Contini, l'occupa-zione in Italia in questi ultimi anni non solo è cresciuta poco ma anche male. Per quanto concerne le previsioni a me:
dio periodo (1978-1982), presupponen-do una crescita del propresupponen-dotto nazionale lordo del 2% l'anno, si possono avan-zare le seguenti stime: nell'industria un tasso medio annuo di aumento della occupazione dello 0,8%; nel
terzia-rio un tasso medio annuo di crescita
del 2,5%; nell'agricoltura una
diminu-zione del 2 % . Per quanto concerne la occupazione irregolare è molto probabi-le che continueranno a registrarsi tassi di crescita abbastanza sostenuti sia nel settore manifatturiero sia in quello dei servizi e in quello del commercio.
LA S I T U A Z I O N E IN PIEMONTE
Veniamo ora ad un rapido esame della situazione piemontese che è stata deli-neata al convegno dall'ingegner Giorgio Frignani per conto della Federazione delle associazioni industriali. Secondo questa indagine che abbraccia un arco che va dal 1975 al 1980 si valuta che in tale periodo le uscite medie dal mercato del lavoro per mortalità, pensionamento, e abbandono dovrebbero aggirarsi sulle 43 mila 500 unità contro 41 mila in-gressi da parte delle nuove leve. Avre-mo quindi un tasso negativo di 2 mila 500 unità.
Tuttavia l'interesse maggiore dell'analisi è rappresentato dagli aspetti qualitativi. Osservando il fenomeno relativo alle chieste di lavoro in campo giovanile ri-sulta che le due fasce più ampie di gio-vani in cerca di prima occupazione so-no costituite da neodiplomati con tempi di attesa molto bassi e da giovani forniti solo di licenza di scuola media inferio-re o di quinta elementainferio-re (privi cioè di specifiche qualifiche, ma forse con aspet-tative di occupazione che vanno al di là della formazione conseguita). Ne conse-gue che uno degli strumenti più efficaci
di saldatura è costituito dalla formazio-ne professionale cui devono essere indi-rizzati anche i giovani oggi sprovvisti di titoli di studio.
Da un punto di vista più generale biso-gna dire che attualmente la situazione è influenzata dalla fase congiunturale re-cessiva che si riflette negativamente so-prattutto sulla domanda di mano d'opera non qualificata. La domanda di mano d'opera qualificata, invece, resta soste-nuta nonostante la crisi, e la sua coper-tura continua ad incontrare difficoltà. Da qui la necessità di promuovere con urgenza una vera e propria politica del-la formazione professionale in un qua-dro di recupero delle forze di lavoro qualificate.
LE LEGGI 675 SULLA RICONVERSIONE INDUSTRIALE E 285 SULLA
OCCUPAZIONE GIOVANILE
Nel quadro che abbiamo sommariamen-te tracciato si sono inserisommariamen-te in Italia le due leggi 675 sulla riconversione indu-striale e 285 sulla occupazione giovani-le. Quale impatto hanno avuto e avran-no queste leggi sulla realtà ecoavran-nomica nazionale?
Già alcuni mesi or sono il presidente della Camera di commercio di Torino, Enrico Salza, aveva ammonito a
guar-dare soprattutto alla 285 con molto rea-lismo, denunciando i pericoli che questa legge si traducesse in uno dei tanti stru-menti di assistenzialismo, e sostenendo che l'idea di voler dare lavoro « per legge » benché nobile, non appariva fa-cilmente realizzabile nella particolarità della situazione italiana e piemontese.
Il convegno di Torino, a sua volta, ha ripreso il tema, cercando di fornire ri-sposte che sono però risultate assai preoccupanti. Le due leggi, infatti, non sembrano in grado di perseguire gli ob-biettivi piuttosto ambiziosi per i quali sono state varate; e ciò per il motivo semplicissimo che esse sono chiamate ad operare in un processo di recessione e di caduta dello sviluppo che di per sé tende a vanificarne i contenuti incenti-vanti. In altri termini: gli stimoli alla ripresa produttiva, e quindi alla crea-zione di nuovi posti di lavoro contem-plati sotto forma di contributi alle im-prese, rischiano di esercitarsi su un cor-po imcor-possibilitato a recepirli cor-poiché la crisi del sistema, assumendo aspetti pa-tologici, tende a « rigettare » le cure che presentino caratteristiche puramente congiunturali. Ciò non significa natural-mente che le due leggi siano del tutto inutili, ma semplicemente che sono in-sufficienti. Il convegno ha sufficiente-mente dimostrato che la crisi italiana, a differenza di quella che colpisce altri paesi dell'occidente industrializzato, ten-de ad assumere il carattere di una ten- de-pressione cronica generalizzata, di fronte alla quale devono venire adottate misure di radicale inversione di rotta le quali non possono limitarsi a questo o a quel settore attraverso i cosiddetti piani
setto-riali, ma devono coinvolgere l'intero corpo sociale.
Per tutti i motivi che abbiamo ricordato sopra, e soprattutto per la oggettiva po-vertà dei livelli qualitativi della mano d'opera disponibile, la « 285 » si muove su un terreno anomalo e accidentato. La iniziativa privata non può permettersi il lusso di pregiudicare il suo già pre-cario equilibrio aziendale attraverso as-sunzioni forzate di mano d'opera. E in-fatti la risposta che la stessa iniziativa privata sta dando alle attese piuttosto sproporzionate alimentate dal provvedi-mento governativo appare forzatamente limitata, non già per cattiva volontà, o peggio, per un « complotto » contro la legge stessa, ma per difficoltà oggettive la cui rimozione va cercata attraverso altri strumenti.
A questo punto però emerge un altro pericolo, e cioè quello che la « 285 » divenga, nel nome di una vaga socia-lità, un veicolo attraverso il quale de-terminare un « gonfiamento » artificioso del settore terziario. In questo caso sa-remmo in presenza di una ulteriore spin-ta degenerativa del settore pubblico, con l'introduzione in esso di nuovi criteri di assistenzialismo. È per questo che, co-me ha sostenuto Giorgio Frignani, « le
normative varate nel corso del '77, di per sé, promettono molto più di quanto non possano effettivamente dare, sia per l'approccio parziale adottato, sia per la interpretazione alquanto riduttiva dei problemi di gestione delle imprese, qua-si che nel determinare ristrutturazioni o assunzioni possano essere risolutivi i modesti incentivi contemplati dalle due leggi. Tali norme devono pertanto esse-re attentamente esse-reinterpesse-retate: in sede nazionale, in modo da completarle con altri interventi capaci di dar loro mag-giore peso; nelle varie realtà territoriali, in modo da adattarle alle esigenze che si incontrano localmente ».
Questo dunque il quadro complessivo della situazione relativa al mercato del lavoro in Europa e in Italia cosi come è emerso nel corso di un convegno che, pur non avendo la pretesa di sviscerare a fondo la vastissima tematica, ha tutta-via introdotto nuovi elementi statistici e di valutazione nel dibattito nazionale.