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Il metodo di Lanternar

Il segno lasciato dalla metodologia storico-comparativa del Pettazzoni è visibile in tutta l'opera lanternariana, pur non essendo quasi mai esplicitato. Lo storicismo e il comparativismo della “Scuola Romana” hanno segnato fortemente l'intera produzione dell'autore; certo è che nel corso degli anni egli non solo ha rielaborato queste due istanze teoriche ma ha integrato il suo approccio con nuove tendenze, come il dinamismo culturale della scuola francese, che era già presente in forma germinale anche nelle prime opere di Lanternari.

Queste tre esigenze metodologiche sono già esplicitate nella prima prefazione a «La grande festa»: “Quali che siano i risultati raggiunti, è convinzione nostra che la storia (poiché l'etnologia è pur essa storiografia) si studia proficuamente se si procede […] dal piano al vertice, insomma saggiando la multiforme realtà e di lì risalendo alla sintesi: benché nel caso nostro si tratti di sintesi che riconosce fondamentalmente l'autonomia delle forme storiche particolari. Infatti è cosa frequente veder percorrere il cammino all'opposto, procedendo da «teorie» scaturite da un limitato campo di esperienze, anziché sul fondamento della variabile e poliedrica realtà concreta. Ma così si rischia d'incorrere in facili generalizzazioni, e si finisce con il coartare i fenomeni a schemi precostituiti, quali che siano. […] Vero è che a tale istanza comparativa e storico-culturale noi

aggiungiamo un'altra istanza propriamente storicistica, di rapportarsi

continuamente alle esperienze vitali. Vero è che altrettanto fondamentale per noi è

infine l'istanza dinamistica, di spiegare i fatti storici nel loro svolgimento concreto, cioè sia nei processi trasformativi moventisi dall'interno delle civiltà

portatrici per dinamismo endogeno, sia nei processi determinati dall'urto esterno con civiltà eterogenee, particolarmente dei Bianchi”51. In queste poche righe

possiamo ritrovare molte delle influenze che Lanternari ha avuto nei suoi primi anni, che vanno dal comparativismo di fabbrica pettazzoniana allo storicismo di provenienza demartiniana, dalla lettura gramsciana della società al tentativo di mettere le basi per un'etnologia religiosa di impianto materialista, in aperta critica con l'allora etnologia marxista, non solo italiana, che aveva il demerito52 di

analizzare le religioni attraverso “rimasticazioni, più o meno rozzamente acritiche, di postulati schematici del marxismo più ingenuo e dogmatico, in cui si parla della cosiddetta «orda primitiva» priva di dassi sociali e senza religione, della «comunità primitiva» con la prima divisione in classi e il conseguente sorgere della religione, del matriarcato come fase primigenia universale dello sviluppo sociale, e – ovviamente – della religione indiscriminatamente data come «oppio dei popoli»: postulati che ormai dalla scienza più o meno sofisticata e dagli sviluppi più consapevoli del pensiero marxista sono considerati totalmente aprioristici, inadeguati, riduttivamente adialettici”53.

Certo è che non si può non sottolineare quanto queste istanze metodologiche servissero come contrapposto teorico alle correnti di ispirazione extrascientifica con cui l'intera “Scuola Romana” si trovava in aperta polemica ai tempi della pubblicazione de «La grande festa». “Dal Pettazzoni […] discendono, in un processo di continuità e di sviluppo, la polemica anti-schmidtiana, quella anti- 51 1976 [4], pp. 18-19.

52 Ad eccezione, ci dice lo stesso Lanternari, di alcune opere del panorama inglese come WORSLEY [1957], “caso eccezionale maturato in un ambiente di storici inglesi in cui dominava la personalità di Eric Hobsbawm” (Ivi, p. 7).

eliadiana […] altrettanto evidenti sono le suggestioni derivanti da de Martino: ecco infatti la polemica anti-irrazionalista della prima Parte”54.

L'istanza dinamistica, che per certi versi nella sua prima opera può essere considerata di sottofondo, viene invece fuori in modo deciso in «Movimenti religiosi di libertà e salvezza dei popoli oppressi»: i movimenti religiosi, o profetici, vengono infatti definiti come uno dei più importanti documenti del dinamismo insito nella religione e, quindi, essi vengono analizzati a partire dal loro preciso processo storico e in rapporto con le società a cui appartengono, arrivando così a considerare le effettive trasformazioni che essi hanno portato nelle proprie società. Trasformazioni che in molti casi egli non esita a definire, correttamente, rivoluzionarie.

Detto questo non posso che concordare con le opinioni di Placido Cherchi, che in Lanternari vede “non solo uno dei protagonisti della stagione alta della scuola, ma è soprattutto colui che più organicamente si è identificato con le ragioni teoriche e metodologiche che ne costituivano la soglia comune. Non ne ha solo continuato responsabilità e orientamenti, ma, in un senso che può avere riscontro solo nel Brelich di «Storia delle religioni: perché?», ne è divenuto la coscienza più sorvegliata”55.

Mi trovo del tutto d'accordo nuovamente con Cherchi nell'individuare un preciso tratto stilistico che si ritrova nell'intera produzione lanternariana: “il suo procedere per larghe tematiche aggreganti che coagulano attorno a sé una serie concatenata di situazioni esemplari, in un movimento quasi infinito e aporetico che accenna 54 Ivi, p. 9.

sempre ad altre sfaccettature possibili del tema e ad altre possibili esplorazioni documentarie”56. Non è un caso che “la misura privilegiata di Lanternari è quella

dell'articolo lungo, del saggio che esaurisce di volta in volta l'analisi del fenomeno particolare ma non chiude il tema. Il tema si ripropone più lontano, in altra guisa e all'interno di situazioni culturali spazio-temporalmente diverse, ritorna insistentemente e sempre in modo affatto nuovo. È come un ampio movimento di crescita sapientemente orchestrato. Ne consegue che non può esistere il libro, l'opera chiusa e definitiva su un argomento: sarebbe una forzatura, una contraddizione”57. Questo stile di lavoro non solo, come si è già detto, è presente

in tutta la produzione di Lanternari ma denota una ulteriore caratteristica peculiare dell'antropologo. Egli si mette costantemente in discussione, rivede le proprie idee attraverso lo studio continuo di nuovi autori e di nuovi dati, arrivando addirittura, con un'onestà intellettuale disarmante, ad ammettere la presenza di errori in alcuni suoi scritti e a rivisitare del tutto alcune sue impostazioni teoriche che facevano da cardine ad alcune sue opere. Per citarne uno su tutti, di modo da non dilungarci troppo, è il caso della sua analisi dei movimenti religiosi nel suo classico del 1960, che già in «Occidente e terzo mondo» e poi in «Festa, carisma, apocalisse», rielabora attraverso lo studio delle teorie weberiane ed utilizzando nuovi dati etnografici, arrivando a negare alcune delle conclusioni del suo primo studio.

Già negli anni settanta possiamo vedere degli sviluppi significativi riguardo all'impostazione teorica di Vittorio Lanternari.

56 Ivi, p. 17. 57 Ivi, pp. 17-18.

Di particolare rilievo è, a mio avviso, il suo avvicinarsi all'antropologia di provenienza francese. In «Antropologia e imperialismo e altri saggi» egli dedica un intero capitolo all'analisi di quelle che lui definisce le due principali scuole francesi: lo strutturalismo e il dinamismo. Certo è che, come ci dice Lanternari, “il pubblico italiano non specialista facilmente sarà portato a identificare l'antropologia francese con un filone preciso, lo strutturalismo, e con un nome altrettanto preciso, Lévi-Strauss. E ciò perché è questo l'unico antropologo francese di cui ormai si sia resa accessibile l'opera praticamente completa, oltre che per le vaste ripercussioni del suo pensiero etnologico in ambiti extraetnologici, dalla filosofia alla linguistica, alla letteratura”58. La scuola

dinamista, è vero, non è molto conosciuta in Italia, ma questo non significa che non sia degna della più alta considerazione, ed egli vede come necessario, per contribuire a colmare le lacune dell'editoria nostrana che gli anni del regime fascista hanno creato, rendere accessibile al lettore opere della scuola dinamista, di stampo storicista e molto vicina per certi versi alle istanze della Scuola Romana, in particolare attraverso la traduzione degli studi di quello che egli ritiene il suo più importante esponente: Roger Bastide. Quel che sorprende è che Lanternari non rifiuta lo strutturalismo in favore dello storicismo di stampo dinamista ma tenta di risolvere l'opposizione delle due scuole cercando di integrare i due diversi metodi proposti, al fine di una più precisa scienza etnologica: “Se, come ci sembra, dobbiamo dare ora una nostra valutazione circa il dilemma o l'opposizione più volte postulata fra strutturalismi e storicismi, fra struttura e storia, fra sincronia e diacronia, stando nei limiti della scienza 58 1974 [9], p. 287.

dell'uomo e in vista dei suoi fini particolari, fuori dalle opposizioni ideologiche, fuori da questioni speculative o di principio che qui sembrano oltreché oziose controproducenti e antiscientifiche, siamo portati a ritenere che la detta opposizione possa risolversi in una utile complementarità di metodi e approcci, nel quadro di una scienza antropologica che ammetta la pluridimensionalità dei modi del conoscere”59. Dove la storiografia si dimostra inefficiente o insufficiente

è indubbia, per Lanternari, l'utilità e la chiarezza del metodo strutturale; viceversa dove lo strutturalismo si dimostra inefficace, ad esempio quando si deve analizzare lo sviluppo o una serie di sviluppi culturali, l'approccio storiografico diviene essenziale.

Per meglio comprendere l'evoluzione, perché forse è proprio di evoluzione che è giusto parlare, delle istanze metodologiche e dell'impostazione teorica di Vittorio Lanternari, non possiamo non accennare alle sue prime vere missioni etnografiche, fatte attraverso la prima fase del MEIG, allora diretta da Vinigi Lorenzo Grottanelli, e di cui parleremo più approfonditamente nel capitolo dedicato agli Nzema. Per il momento mi interessa solo mettere in evidenza che il contatto diretto con la società degli Nzema portò Lanternari a ripensare del tutto ad alcuni aspetti del suo pensiero. Innanzitutto, egli scoprì che è molto facile cadere in pregiudizi etnocentrici, soprattutto se non si è mai fatta esperienza di ricerca pratica sul campo, e che questi pregiudizi, che egli non pensava di avere, portano inevitabilmente a non produrre niente di scientificamente valido all'interno della disciplina antropologica e non solo. Da queste prime considerazioni egli rinnova la sua ormai datata critica che, nella prefazione de «La 59 Ivi, p. 304.

grande festa», fece nella divisione tra l'etnologia “da tavolino” e l'etnologia “sul campo”. È inevitabile, per Lanternari, a questo punto la fusione tra i due tipi di etnologia, anzi è necessario che ogni etnologo, oltre ad avere delle solide basi teoriche ed una conoscenza del panorama internazionale della disciplina, faccia almeno qualche esperienza diretta di ricerca sul campo. In queste considerazioni non si può non notare, nuovamente, un'altra critica che Lanternari rivolge a se stesso, una critica costruttiva, necessaria per ottenere dei risultati scientificamente validi.

Anche se di questioni di metodo e dell'evoluzione del suo pensiero Lanternari non parla mai direttamente, basta un veloce sguardo alla sua imponente bibliografia per notare un costante aggiornamento e una ricerca incessante. Da un lato infatti i vecchi temi vengono analizzati alla luce delle nuove ricerche e concentrandosi su nuovi aspetti; dall'altro, dagli anni '80 sino al termine della sua produzione, possiamo notare come spuntino nuove tematiche di ricerca. È il caso dei suoi due ultimi grandi interessi, l'Etnopsichiatria e l'Ecoantropologia, ma anche di altre piccole tematiche che, per ovvie ragioni, non potranno essere approfondite nel corso della tesi.

Vi sono però due testi su cui è bene soffermarci, seppur brevemente, per sottolineare nuovamente il costante aggiornamento di Lanternari ma anche il suo rapporto con il mondo circostante. Il primo è il saggio del 1990, scritto a due mani con la demologa Isabella Dignatici, «Una cultura in movimento. Immigrazione e integrazione a Fiorano Modenese»60, in cui viene presa in esame la comunità di

uno dei maggiori centri italiani dell'industria della ceramica per studiare, come 60 1990 [9].

dice lo stesso titolo, una cultura in movimento, che ha assistito in prima persona all'industrializzazione e di cui ne ha subito gli effetti. Da un punto di vista di analisi del metodo possiamo notare alcune interessanti cose: da un lato Lanternari non abbandona uno dei suoi tratti metodologici più antichi, il dinamismo culturale, anzi esso è stato potenziato nel corso degli anni e permette all'autore di studiare a fondo un particolare processo della storia italiana partendo da una piccola comunità; oltre a questo può essere utile sottolineare che per questa ricerca si avvale dell'aiuto di una giovane demologa, arrivando a riconoscerne non solo la validità del contributo, ma quasi disconoscendo il suo contributo in favore della giovane collega. Una dinamica simile può essere ravvisata anche in «Medicina, magia, religione, valori. Dall'antropologia all'etnopsichiatria»61, opera

che segue il primo testo lanternariano del 1994 e in cui Lanternari si limitò a fare la curatela e una densa introduzione. Questo testo, di fatto, contiene contributi di giovani ricercatori, come a voler riconoscere il proprio limite nella ricerca di una disciplina così nuova o, forse, il vantaggio della freschezza intellettuale dei giovani autori nell'affrontare questa disciplina.

Il secondo testo su cui ritengo sia utile soffermarsi è un breve saggio del 1991, «Una nemesi storica: gli immigrati del terzo mondo. Aspetti etnoantropologici del fenomeno»62. In questo testo Lanternari non solo affronta, forse anticipando i

tempi, quello che al tempo non era che un marginale fenomeno ma che, al giorno d'oggi, è uno dei temi più scottanti e più ignorati della nostra odierna Italia, ma ne sottolinea un particolare aspetto, ovvero il fatto che i migranti fuggono dalle ex- 61 1998 [2].

colonie per approdare alla mitologica e mitizzata Europa, vista quindi come un “eldorado”, mentre gli europei rispondono con un altro mito, questo però apocalittico, che indica negli immigrati gli annunciatori della decadenza, se non della fine, della civiltà madre dell’intero occidente. Così alle speranze e alle attese degli africani si contrappone la risposta negatrice, terroristica degli europei; all’immaginario paradiso degli africani si oppone una immaginaria apocalisse degli europei. Come è facile notare, questo testo può essere da un lato un esempio del continuo aggiornamento di Lanternari e della sua necessità di affrontare temi attuali, dall'altro si può ravvisare come egli, nell'affrontare questo tema, sottoponga nuovamente la sua impostazione teorica ad un nuovo sforzo, arrivando ad utilizzare i temi dell'apocalisse e del millenarismo in un contesto del tutto nuovo.

Capitolo secondo

LA FESTA

Il primo grande interesse di Vittorio Lanternari è la festa, «categoria principale e indistruttibile della cultura umana»1, un tema trasversale che può essere studiato

sia attraverso una prospettiva storico-religiosa ma anche antropologica. Sin dai suoi primi scritti nelle riviste specialistiche Lanternari focalizza la sua attenzione su due delle molteplici espressioni della fenomeno festivo: la festa di san Giovanni e il Capodanno.

L'interesse per la festa di San Giovanni e per la Sardegna è da ricondursi, a mio avviso, nelle ricerche sulla religione primitiva della Sardegna compiute dal maestro Raffaele Pettazzoni2. Lanternari nel suo saggio3, oltre a descrivere le

modalità della festa, le origini e i suoi cambiamenti nel corso della storia, usa la festa come esempio per analizzare le politiche della Chiesa dalle origini ad oggi nei confronti delle feste pagane e delle religioni etniche.

Per quanto concerne il Capodanno, l'analisi del fenomeno parte dallo studio della festa Milamala e delle altre forme di Capodanno presso le popolazioni

1 BACHTIN, [1965], p. 302.

2 PETTAZZONI [1912]. Sempre dello stesso Pettazzoni vi sono alcuni articoli preparatori al volume

(Le antichità protosarde di Santa Vittoria, «Bullettino di paletnologia italiana», vol. XXXV, pp. 159-177; La religione primitiva in Sardegna I-II, «Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei – Classe di scienze morali, storiche e filologiche», s. 5, vol. XIX, pp. 88-108, 217-240;

Ordalia sarda e ordalie africane, «Rivista italiana di sociologia», vol. XV, pp. 36-45).

3 Che ha origine da due brevi articoli scritti verso la metà degli anni '50 per «Il Paese» e «Vie Nuove» (1954 [6]; [7]), e venne pubblicato un anno dopo per la rivista «Società» (1955 [4]). L'importanza di questo breve saggio risulta evidente poiché lo stesso Lanternari lo ripubblicò in più occasioni nel corso dei suoi studi.

austronesiane attraverso i classici dell'antropologia, come gli studi di Malinowski4, di Firth5 e di altri esponenti della scuola inglese, ma anche

attraverso la lente storico-religiosa fornitagli dalla scuola romana, in particolare in questo caso Angelo Brelich ed il suo corso universitario sullo studio dei calendari festivi6. Dopo i primi scritti usciti su alcune riviste specialistiche7, Lanternari

riunisce le sue analisi, le amplia e conferisce un carattere storico-comparativo al suo studio attraverso il suo primo libro, «La grande festa», che uscì per la casa editrice Il Saggiatore grazie all'aiuto dell'amico Ernesto de Martino8.

Successivamente al libro del 1959 il tema della festa viene sporadicamente ripreso e approfondito, con nuove tematiche da analizzare e vecchie che si evolvono insieme al pensiero dell'etnologo. Il Gioco, che fa la sua prima apparizione in un saggio del 1960, viene analizzato approfonditamente nel corso degli anni, sia nella sua funzione sociale che altro. Altri aspetti del fenomeno festivo che vengono presi in esame nel corso degli anni sono la sua funzione rigeneratrice, salvifica, ma anche, e soprattutto, quella sociale ed economica, attraverso vari saggi e libri 4 Oltre al classico dell'antropologo britannico (MALINOWSKI [1922]), è bene ricordare, in funzione del capitolo, almeno altri due saggi dell'antropologo di scuola britannica: Sexual Life of

Savages in North-Western Melanesia, G. Routledge & sons, London 1929; Lunar and Seasonal Calendar in the Trobriands, «The Journal of the Royal Anthropological Institute of Great

Britain and Ireland», 57, 1927.

5 L'antropologo neozelandese, conosciuto principalmente per i suoi studi sull'isola di Tikopia (FIRTH [1936]) viene preso in esame in funzione della sua analisi sui sistemi economici delle popolazioni oceaniche e sul loro senso dell'economia. Su questo tema è bene ricordare almeno due lavori: con EVANS PRITCHARD, E.E. et alii, Institutions of Primitive Society, Blackwell, Oxford 1954 (in particolare il capitolo Orientation in economic life); Primitive Polynesian

Economy, G. Routledge & sons, London 1939.

6 BRELICH [1954].

7 In particolare in «SMSR»

8 Il libro doveva uscire per Einaudi nella famosa Collana Viola, quando de Martino prese nuovamente in mano la direzione della collana. Ma i rapporti con Einaudi, non più mediati da Cesare Pavese, andarono a rotoli, e sempre lo stesso de Martino riusci a trovare il nuovo editore. D'altra parte vi era una particolare urgenza: il libro doveva difatti servire come pubblicazione da presentare nel curriculum per il primo concorso italiano di libera docenza in etnologia.

quali «Antropologia e Imperialismo e altri saggi»; «Festa, Carisma, Apocalisse» e «Antropologia religiosa».